prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di Fr.I. - 15 luglio 2005


La ricerca umiliata all´Enea
Carlo Rubbia su
la Repubblica

UN MALE oscuro di abbagliante chiarezza sta precipitando l´Enea in un profondo dramma gestionale e progettuale. La crisi è così grave che, come presidente, non posso più tacere, per il bene della ricerca e dell´Italia. Gli attuali organi istituzionali dell´Enea si sono insediati all´inizio del 2004, dopo un lungo periodo di commissariamento.
Con la nuova legge si è voluto che il presidente dell´ente avesse un profilo di altissimo livello scientifico internazionale. È però accaduto che il consiglio di amministrazione non venisse individuato dal governo con analogo criterio, ossia privilegiando quello di eccellenza delle conoscenze e esperienze acquisite nel campo delle attività tecnico- scientifiche. Avrei, forse, dovuto cogliere subito questo handicap di partenza e riflettere su quanto era, a quel punto, lecito e possibile attendersi da me. Senonché è prevalso sulle perplessità il mio forte desiderio di dare ciò che potevo al mio Paese, sostenendo costruttivamente l´Enea. È stato un errore. Un errore al quale si sarebbe potuto porre rimedio con adeguata sensibilità politica.
Sensibilità che non c´è stata.
La verità è che presidente e consiglieri di amministrazione parlano due lingue totalmente diverse. La carenza di sapere scientifico dei consiglieri, ha provocato un ulteriore deleterio effetto: il loro testardo compattamento in stile branco (con tutto il rispetto per le persone, ma il termine rende meglio l´idea), espressione di una mediocre difesa. Si è spesso detto dell´esistenza di scontri tra me e il cda: in realtà non ci può essere "scontro" tra un gruppo compattato di sette consiglieri di esplicita nomina ministeriale da una parte e uno scienziato senza connotazione politica dall´altra.
Uno scienziato-presidente messo continuamente e sistematicamente in minoranza. Tale surreale condizione è frustrante, deleteria. I consiglieri hanno addirittura preteso di sostituirsi al presidente nel proporre il direttore generale. Ossia, rivendicando non solo il diritto (sacrosanto) di nominare il direttore generale, ma anche quello di proporlo a se stessi. Si è giunti al punto di chiedermi, avendo io presentato una rosa di cinque nominativi, di proporne invece una rosa di sei, indicandomi ovviamente anche quale dovesse essere il sesto nome: quello che già avevano deciso dovesse occupare la carica di direttore generale. Essendomi rifiutato di scadere nella burla, il Consiglio si è appropriato della "rosa", con un solo e unico predestinato petalo. Mi sono allora rivolto al Tar e il tribunale mi ha dato ragione: la nomina era irregolare ed è stata annullata. Il paradosso è che la mia istanza al Tar avrebbe assunto connotati di un atto "sovversivo", agli occhi dei consiglieri soccombenti nel giudizio. E ancora più sovversiva è ora ritenuta la mia richiesta che venga rispettata quella sentenza. Mentre infuria questo tipo di "altissima gestione", l´istituto di ricerca è paralizzato. Il Consiglio ha infatti sistematicamente "ripulito" i maggiori programmi strategici innovativi di alto livello che erano la parte principale delle scelte strategiche mie e del precedente piano triennale. Mi riferisco soprattutto al progetto europeo per il bruciamento delle scorie radioattive, programma nel quale l´Italia aveva assunto una posizione di assoluta leadership mondiale: la bocciatura votata dal cda dell´Enea ci ha fatto perdere un finanziamento comunitario di 5 milioni e mezzo di euro, fondi che pochi giorni fa sono stati dirottati a un laboratorio di ricerca americano. Tutta una serie di altre iniziative "storiche" hanno subito una politica finalizzata a destabilizzare il corpus delle competenze (e in alcuni casi del primato) scientifiche dell´Ente. Mi limito a citare il progetto Antartide, per molti anni uno dei più prestigiosi progetti internazionali di esplorazione del Polo Sud, che è stato sottratto all´Enea e trasformato in un consorzio di svariati enti azionisti; le attività di ricerca nel campo della fenomenologia ambientale, che sono state tolte all´Enea con la costituzione di un consorzio chiamato "Centro Euro-Mediterraneo" sotto la direzione di un microscopico gruppo di persone. Entrambe le attività si trovano oggi in una situazione altamente critica, vicino al collasso le prime, apparentemente bloccate le seconde. Ho ormai ampiamente constatato tutto ciò, e cioè che una convivenza civile in seno al Consiglio è divenuta una impresa difficile, in quanto ogni mia azione concreta in favore dell´ente – direi ogni mio tentativo di lavorare – viene osteggiata a priori. Ho sempre avuto molto rispetto per i ruoli istituzionali, ho atteso e ancora attendo un significativo interesse per il futuro del più grande e prestigioso ente di ricerca applicata in Italia, per la sua vocazione, per il ruolo internazionale, per l´avvenire della ricerca, per gli oltre suoi tremila dipendenti che lavorano seriamente e il cui valore non viene difeso da nessuno. Il silenzio comincia però a pesarmi, perché nel vuoto del silenzio, trovano spazio le maldicenze, le critiche ingiuste, le censure infondate. Non ho mai sopportato questo stato di cose e mi avvilisce constatare che al primato della scienza si sostituisca lo spicciolo tornaconto quotidiano. Non posso quindi più stare in paziente silenzio. È una questione di dignità e di rispetto. Per me e per tutti.

l´autore è presidente Enea e premio Nobel per la Fisica


Le nostre moschee tra rabbia e timori
Paolo Rumiz su
la Repubblica

BASSANO - DA QUANDO, all´alba, la polizia gli ha perquisito la casa e l´ha inchiodato a un muro per le foto segnaletiche e le impronte, Ezzeddin Fatnassi, 41 anni, tunisino, operaio e imam di Bassano, ha perso la parola. Sta lì, seduto nel suo ufficio in moschea, ti guarda con occhi fieri, labbra sigillate, rigido, mani da falegname sulle ginocchia. Non ci può credere. È dall´11 settembre che dice «no al terrorismo» su tv, radio e giornali, convegni. Caso più unico che raro, da anni ha stabilito contatti con gli ebrei; solo a Firenze fanno altrettanto. Le istituzioni sanno quanto s´è speso per sorvegliare la sua gente, costruire dialogo, formare mediatori culturali. Ma non è servito.
Notte di lampi, zanzare, rane nei fossi, bici che rientrano. Nella sala di preghiera, la più grande del Veneto, sanno poco o niente delle perquisizioni a raffica nelle moschee del Nord e nel resto d´Italia. Si sente il rumore felpato delle genuflessioni sui tappeti, voci di bambini che giocano. Ezzeddin non ha detto nulla ai fedeli. Ma sa che i giornali scriveranno di lui. E sa che oggi, alla preghiera del venerdì, non si parlerà d´altro. La sua gente è inquieta, dopo gli attentati a Londra. Anche il silenzio, di questi tempi, può essere preso per complicità. Molte comunità, in Veneto e altrove, non hanno commemorato la strage di Srebrenica (8.000 musulmani uccisi dieci anni fa in Bosnia), per timore di essere prese per estremiste.
Difficile dare i segnali giusti. Per esempio: una moschea che si vede, preoccupa. Una moschea che non si vede, inquieta; fa immaginare chissà cosa. Come questa di Bassano, mimetizzata in un capannone, nella pancia del Profondo Nordest, con Gentilini che sparerebbe sugli immigrati come agli «oseleti», il ceto medio in ansia da recessione, un Islam-nebulosa disperso in mille fabbrichette pedemontane; e intorno, tra Pordenone e Verona, le basi Nato che hanno portato la guerra in Iraq. Tempi duri per quelli che stanno in mezzo, che cercano il dialogo come Ezzeddin.
Ora l´imam parla, a monosillabi. «Non c´è più ottimismo, mi auguro non si perda la speranza… Sono undici anni che lavoro per l´integrazione… Non chiedo di essere ringraziato, ma almeno di essere lasciato in pace… Qui è in gioco una partita importante, la libertà degli individui… Sono molto triste, al dolore per i morti di Londra e delle guerre in giro si aggiunge l´umiliazione di questo controllo… ho pianto tutto il giorno… Avrei voglia di restituire il permesso di soggiorno, di tornare in Tunisia in punta dei piedi… Non cambieremo la nostra linea per questo. Ma tutto diventa più difficile».

Un bar di Padova-centro, lungo un canale della riviera, due studenti maghrebini e uno palestinese discutono del rischio-terrorismo nella notte piena di zanzare. Sono preoccupatissimi. «Dietro ogni bomba del terrore c´è una bomba sociale, gente reclutata ai margini. L´Italia ha un milione e 300mila musulmani di cui soltanto 50mila hanno la cittadinanza». E allora? «È come avere un esercito straniero in casa… È un modello di precarietà istituzionalizzato che ti si ritorce contro perché esonera questa massa da un rapporto di fedeltà con lo Stato… Qui non esiste nulla come la carta verde all´americana, il processo di inclusione è lentissimo. E di conseguenza, la rappresentatività degli organi ufficiali islamici è minima. Quelli non sanno nulla della loro gente».
«Il nostro dolore per quei morti è indiscutibile, non so come si possa metterlo in dubbio ma questo non deve impedirci il discernimento. Qualcuno dice: meno integrazione, più apartheid, più sicurezza. Ma noi insistiamo. E´ vero il contrario, è proprio questo che aiuta il terrorismo. Gli estremisti possono dire a noi giovani: vedete? L´Italia vi rifiuta. E qualcuno, che non ha niente da perdere, può imbarcarsi in avventure pericolose. Se lo Stato gioca tutte le sue carte sulla sicurezza, fa il loro gioco. E poi, si sa benissimo che queste perquisizioni servono solo a tranquillizzare gli elettori».

Laura Puppato, sindaco di centrosinistra di Montebelluna, la città dello scarpone, tempo fa si è ritrovata con un´autobomba in piazza (fortunatamente inesplosa) con su scritto «No Islam no Puppato», ma sa benissimo che non esiste alternativa alla convivenza. «Capisco la paura della gente, gliela leggo negli occhi. Non sa come difendersi, né da cosa difendersi. Di fronte a chiunque con la faccia un po´ così, si chiede: chi sarà mai quello lì? Come risponde alla nostra accoglienza? È veramente grato a questa terra che gli offre lavoro? Di fronte a questo timore diffuso le istituzioni, e anche le singole persone, hanno il compito di lavorare ancora di più perché il dialogo aumenti».


POLITICA ECONOMICA
Dpef 2006-2009: tra deficit, debito e crescita zero
Il rientro sotto il 3% del disavanzo dei conti pubblici, oggi al 4% e oltre del Pil, è il primo obiettivo da raggiungere secondo un percorso biennale, che verrà precisato nella prossima Legge finanziaria. Ma c'è anche da sostenere e rilanciare un'economia che ormai da quattro anni ha smesso di crescere. Gli scenari, i temi e le linee guida documento governativo.
Michele De Gaspari su
Il Sole 24 Ore

L'economia italiana potrà rialzare la testa solo con il rigore dei conti pubblici, contenendo il deficit e riducendo gradualmente il debito: è la principale linea guida del Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef) 2006-2009, che nasce nel segno della procedura per deficit eccessivo avviata dalla Commissione europea e approvata nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri economici (Ecofin) della Ue. Diventa, dunque, prioritario il risanamento fiscale, da realizzarsi con un programma di rientro del disavanzo nei prossimi due anni (2006-2007); ciò significa una robusta manovra di correzione dei conti necessaria a riportare il saldo di bilancio, oggi stimato al 4% e oltre, sotto il 3% del Pil.

Lo sfavorevole andamento del ciclo congiunturale ha contribuito in misura rilevante a deteriorare la situazione dei conti pubblici: nel 2003 e nel 2004 è stato, infatti, superato il tetto del 3% - la revisione Istat, in linea con le recenti riclassificazioni di Eurostat, lo ha fissato al 3,2% nei due anni - con un livello di deficit che non risulta essere né temporaneo o eccezionale, ma nemmeno esclusivamente determinato da una grave recessione economica. Il rapporto tra debito e Pil rimane, poi, molto elevato (a fine dello scorso anno era ancora vicino al 107%) e dopo il 2000 è sceso solo in modesta misura, a fronte di una progressiva contrazione del saldo primario, il cui basso livello toccato nel 2004 (1,8% del Pil) non è certo sufficiente a garantire la riduzione del debito.

La tendenza in atto della finanza pubblica è, pertanto, orientata all'ulteriore deterioramento. Il disavanzo si assesterà quest'anno sopra il 4% del Pil e il prossimo punterà verso il 5% in mancanza di correzioni, secondo le ultime stime e proiezioni dei principali centri di ricerca e della stessa Banca d'Italia, che lo collocano ben sopra il valore di riferimento (3%) anche se la nostra economia tornasse rapidamente alla sua crescita potenziale (2% circa).

Debito, risanamento e manovra correttiva

La manovra contabile complessiva, necessaria per realizzare nei prossimi due anni gli obiettivi indicati, appare notevole, nell'ordine di tre punti percentuali di Pil senza misure una tantum, di cui circa un punto nel 2006, equivalente ad almeno 15 miliardi di euro di correzione effettiva. Occorre, infatti, tenere conto anche delle risorse destinate a finanziare i provvedimenti di sostegno allo sviluppo, come il taglio dell'Irap e i nuovi progetti di investimento in infrastrutture e ricerca. Le misure di riduzione del deficit, finora messe in atto, sono state per lo più a carattere temporaneo e l'andamento tendenziale è chiaramente a rischio per la sostenibilità della finanza pubblica nel medio e lungo termine.

Il risanamento deve essere, quindi, un dato strutturale, al netto degli interventi una tantum e delle fluttuazioni del ciclo economico. La correzione necessaria richiede in particolare, per le sue cospicue dimensioni, riforme strutturali in grado di mettere un freno alla crescita della spesa corrente nei suoi più rilevanti comparti (previdenza, sanità, pubblico impiego).


Dal Dpef alla Legge finanziaria

Il Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef) per gli anni 2006-2009, presentato dal ministro dell'Economia e approvato dal Governo, contiene le linee guida (programmatiche) della politica economica a medio termine, affiancandosi agli altri documenti ufficiali governativi, a cura del ministero dell'Economia e delle Finanze , dell'Istat e dell'Isae , che illustrano invece, attraverso statistiche e analisi, la situazione economica del Paese. Dopo le descrizioni, il Governo indica, dunque, anche gli impegni politici da tradurre in atti concreti nella Legge finanziaria per l'anno successivo (il 2006), essendo quest'ultima la parte del Dpef formalmente vincolante per l'azione futura.

Le legge istitutiva del Dpef (la 362) risale al 1988 e ne prevedeva la scadenza di presentazione il 15 maggio di ogni anno, insieme all'orizzonte triennale di competenza. Nel 1999 una successiva legge (la 208) ne ha spostato il termine al 30 giugno, allungandone la durata a quattro anni. La scadenza di legge non è stata, peraltro, quasi mai rispettata, anche a causa delle coincidenze elettorali o delle crisi di governo, con il relativo cambio di guida nella politica economica. Unica rilevante eccezione il 1998, quando il Dpef ha visto la luce a metà aprile; ma era in gioco, allora, l'ingresso nell'euro, con la decisione di ammissione dell'Italia alla moneta unica, prevista all'inizio di maggio.

Il Documento di programmazione è, in particolare, un'anteprima della Finanziaria, che illustra l'evoluzione dei conti pubblici per il prossimo quadriennio, delinea gli interventi correttivi sui principali aggregati di entrata e di spesa nel periodo, individua le grandi riforme da attuare nel corso della legislatura. I temi di breve periodo in altre parole, come l'andamento della congiuntura economica e gli equilibri della finanza pubblica, sono inseriti in una prospettiva di medio e lungo termine.

- DPEF 2006-2009 (testo integrale)
- Conti pubblici, lo stretto sentiero dell'Europa


Correzione di rotta
Mario Deraglio su
La Stampa

Le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla nuova priorità che sarà data alla lotta all'evasione segnano un marcato cambiamento nella strategia fiscale del governo, impegnato nella stesura finale del Dpef. Un anno e mezzo fa, infatti, lo stesso presidente del Consiglio aveva fornito un'implicita giustificazione all'evasione, dichiarando che, quando il carico fiscale è elevato, non è immorale evadere le imposte. Nel frattempo la pressione fiscale non è diminuita, ma anzi è leggermente aumentata, eppure l'evasione, ieri definita «non immorale», oggi viene ritenuta «intollerabile».

Pur nella brevità di una dichiarazione estemporanea, il messaggio che deriva da questo cambiamento di giudizi è molto chiaro: le imposte potranno essere ridotte (uno dei punti chiave del programma del governo) solo se gli italiani smetteranno di autoridursele con l'evasione, il che è come dire che un'eventuale riduzione di aliquote deve essere compensata dall'aumento della base imponibile. Nel loro complesso, quindi, i contribuenti pagherebbero una cifra analoga a quella di prima, il che implica l'accantonamento del progetto di un rilancio dei consumi basato sullo stimolo derivante da una riduzione dei tributi.
Se dai contribuenti nel loro complesso si passa alle singole categorie, è chiaro che la riduzione dell'evasione deve essere ottenuta mettendo sotto indagine soprattutto i lavoratori autonomi, e in particolare i liberi professionisti, e certi settori di piccola impresa, che hanno le maggiori possibilità (accentuate da vari provvedimenti adottati fino a circa un anno fa) di sottrarre parti cospicue dei loro redditi allo sguardo del fisco. Su questi redditi deve compiersi gran parte dell'aggiustamento richiesto dall'Europa.

Il governo viene in sostanza gradualmente spinto, dagli sforamenti del patto di stabilità e dalle pressioni europee, a politiche che non gli sono congeniali - il che pone un problema di credibilità - e il cui disegno complessivo non appare ben definito. Occorre inoltre considerare che la lotta all'evasione, se può avere significato nel Dpef - ossia nel quadro di una programmazione triennale - non può, da sola, modificare le prospettive della prossima legge finanziaria. La lotta all'evasione, infatti, richiede tempi piuttosto lunghi per essere veramente efficace, e non basta un arco di dodici mesi; pur rappresentando un filone importante di azione pubblica, non è la bacchetta magica che risana istantaneamente i conti dello Stato.



“Legge Carnevale”, bocciato il Csm
Reintegro dei giudici assolti, la Consulta: inammissibile il conflitto tra poteri dello Stato
sommari de
Il Messaggero

ROMA - La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione che era stato sollevato dal Csm contro il Parlamento e il governo a proposito della legge che, tra le altre cose, consente al giudice Corrado Carnevale di rientrare in servizio. L'ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, pronto a rientrare nei ruoli, ha commentato: «Sapevo di essere nel giusto». Intanto in tutta Italia lo sciopero dei magistrati ha avuto una grande adesione: l'85 per cento per l'Anm. Per il ministero della Giustizia, invece, ha incrociato le braccia meno del 70 per cento delle toghe.


Giustizia, la grande protesta
Toghe in sciopero. Castelli attacca, esposto di Calderoni. Il ministro delle Riforme va dalla polizia: "Questa è una serrata". Di Pietro lo denuncia per abuso
Liana Milella su
la Repubblica


ROMA - Per la quarta volta contro la stessa riforma - le toghe la chiamano «la controriforma della giustizia», per il Guardasigilli Castelli è «la riforma dell´ordinamento giudiziario attesa da 50 anni» - l´Anm ferma tutti i palazzi di giustizia d´Italia. «Nonostante le ferie», annuncia alle 16 e 45 il presidente Riviezzo, «lo sciopero è perfettamente riuscito, l´85% dei colleghi ha aderito». Un paio d´ore dopo via Arenula tenta la guerra di cifre, fa calare la percentuale al 70%, ma Riviezzo fa il signore e commenta: «Non c´è niente da fare, l´adesione è stata massiccia». Capi degli uffici in prima fila, processi fermi, assicurati solo quelli urgentissimi. Per i giudici è una «grande vittoria», per il ministro della Giustizia è un segnale «molto preoccupante perché quattro scioperi contro la stessa riforma e il preannuncio che la battaglia proseguirà anche dopo vuol dire che il Parlamento non viene rispettato».
Ma Castelli non ha dubbi. Lo ripete lungo tutta la giornata, ad ogni intervista, «lo sciopero è legittimo». Il suo collega di partito e di governo, il ministro per le Riforme Calderoli non la pensa allo stesso modo. Mantiene la parola che aveva dato una settimana fa. Al Senato, nell´ufficio della polizia, Calderoli presenta un esposto contro tutti i magistrati perché sono scesi in sciopero non per una rivendicazione economica, «per fini contrattuali», ma per «contestare le linee guida del disegno normativo dell´ordinamento giudiziario». Quella dei giudici può configurarsi addirittura come una possibile «serrata», comunque è un´astensione dal lavoro che ha una finalità «politica». Anche l´ex pm Antonio Di Pietro è di parola, risponde con una denuncia per calunnia e abuso d´ufficio. Ma Calderoli gli ammannisce una lezione di diritto giocando sull´equivoco tra esposto e denuncia. Il fatto resta.



«Geni o criminali?». Duello sugli hackers
Usa: provocazione del «New York Times»: ci vorrebbero pene peggiori della morte
sul
Corriere della Sera

C'è chi li vorrebbe morti o, se proprio questo non fosse possibile, condannati dalla legge del contrappasso a pene talmente orribili da far sembrare i gironi danteschi un villaggio vacanze sulla Costa Azzurra. E c'è, invece, chi vorrebbe accoglierli a braccia aperte, spalancandogli le porte dei templi dell'hi tech, dalla Apple alla Nintendo. Per adesso loro, gli hackers, se ne stanno a guardare. Mentre gli altri, i «profani», si schierano su due fronti inconciliabili: da un lato i giustizialisti (con ironia), dall'altro i pragmatici (altrimenti detti «vorrei anch'io ma non posso»). Da un lato il New York Times, dall'altro il Wall Street Journal.
Spiritelli della Rete, inafferrabili surfisti dell'onda informatica, i sabotatori virtuali sanno mandare in tilt il mondo con un arpeggio sulla tastiera: e questo, scrive John Tierney sul NYT, non è affatto divertente. Soprattutto se si calcolano i costi dei «bachi» sguinzagliati all'arrembaggio dei pc di privati cittadini e aeroporti, servizi di intelligence e multinazionali. Cinquanta miliardi di dollari l'anno, spicciolo più spicciolo meno. La teoria di Tierney è semplice: urge un deterrente. Bisogna impedire a questi scavezzacollo tecnologici di commettere ulteriori danni. Il problema è quale punizione adottare. Subito scartata l'«espiazione» nei servizi sociali, la reclusione, il divieto ad avvicinare qualsivoglia computer: possono portare al pentimento del reo, ma difficilmente dissuaderanno altri dal seguirne la strada.
Ci sarebbe, butta là Tierney, la pena di morte. A sentire Steven Landsburg, economista all'università di Rochester, il rapporto costi-benefici è straordinario: un hacker condannato alla sedia elettrica sarebbe un ottimo deterrente per almeno un sabotatore ogni 500, con un risparmio per la società di 100 milioni di dollari l'anno. Ma, ahimè, «molti hackers abitano in luoghi dove la pena capitale è illegale e, in maggioranza, sono teenager, una categoria che non è rinomata per la sua paura della morte». La soluzione è un'altra: gli spammers, ad esempio, potrebbero essere obbligati a testare davanti a tutti gli articoli pubblicizzati dalle loro email infestanti, a partire da quell'«organ enlarger» ormai ben noto a chiunque abbia una casella di posta elettronica. La vecchia gogna in versione cyberpunk.
Gli hackers per contro potrebbero essere condannati a rimuovere per tutta la vita virus dai pc altrui o a usare sistemi informatici obsoleti e connessioni Internet a velocità da lumaca. Insomma, «qualcosa di peggio della morte».



  15 luglio 2005