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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 28 agosto 2005



Quel silenzio complice
Eugenio Scalfari su
la Repubblica 28 agosto

Nel progetto di riforma della Banca dell´Italia che il ministro del Tesoro ha in animo di presentare al Consiglio dei ministri entro il prossimo 8 settembre (data peraltro infausta) gli suggerisco di proporre anche l´abolizione del Comitato per il credito e il risparmio (Cicr), organo quanto mai inutile a tutti gli effetti come si sapeva da tempo e come ha dimostrato di essere nella sua più recente riunione dell´altro ieri.
Quel comitato si compone dello stesso ministro del Tesoro, del governatore della Banca, dei ministri dell´Agricoltura, dell´Industria, dei Lavori pubblici, dei rapporti con la Comunità europea. Eccezionalmente, e a richiesta del governatore, è anche intervenuto questa volta il ministro della Giustizia, presenza del tutto irrituale che tuttavia è stata supinamente accettata dagli altri componenti.
Raccontano le cronache che Antonio Fazio ha parlato per oltre due ore illustrando una sua relazione tecnica di ventiquattro cartelle sulle contestate vicende delle due scalate in forma di Opa (non ancora concluse) rispettivamente sulla Banca Antonveneta e sulla Banca Nazionale del Lavoro. La "performance" oratoria si è conclusa con una autoassoluzione piena dell´operato della Banca.
Tutti i presenti hanno dato atto di quell´autoassoluzione. Uno solo, il ministro dell´Agricoltura, ha timidamente obiettato che sussisteva tuttavia il problema della credibilità della Banca, messo clamorosamente in discussione dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura. Dopodiché ha parlato il ministro del Tesoro in veste di presidente del Comitato. Anche lui si è soffermato sui danni che il comportamento del governatore ha causato al prestigio nazionale e internazionale della Banca e più in generale al credito dell´Italia. A supporto delle sue affermazioni ha citato le opinioni dei dirigenti della Banca Centrale europea da lui consultati, della Commissione economica di Bruxelles, producendo anche una massa di articoli critici, pubblicati da importanti organi di stampa straniera.
Fazio ha ribattuto a quelle contestazioni; Siniscalco è rimasto del suo parere e la seduta si è sciolta con il più totale nulla di fatto. Della eventuale riforma si parlerà in Consiglio dei ministri. Antonio Fazio comunque resterà alla guida dell´istituto fin dopo le elezioni del 2006. Poi si vedrà.
* * *
Fin qui i fatti. Abolitelo quel Cicr. Non serve a niente, non decide niente, non controlla niente. I ministri che vi partecipano si comportano come statuine di gesso e mostrano di non aver neppure letto i documenti dei quali dovrebbero discutere o di non averne capito il loro contenuto. Perciò non tutelano né il credito né il risparmio né la credibilità del sistema e tantomeno quella del governo di cui fanno parte.
Quanto al ministro del Tesoro - il solo che le carte le ha lette e le ha capite - egli rappresenta l´erede eponimo del doroteismo nazionale.
Fabbrica con sapienza l´alibi di aver accolto con riserva l´autoassoluzione di Fazio ma non contesta la sua contestabilissima relazione.
Si nasconde dietro gli articoli del "Financial Times" e dell´ "Economist" come se l´opinione dei giornalisti fosse utilizzabile in un contesto che vede contrapposti importantissimi organi dello Stato.
In realtà tutti gli interessati volevano scongiurare le dimissioni o peggio ancora la revoca di Fazio a pochi mesi dalle elezioni. Siniscalco ha dato un colpo al cerchio e una alla botte, fedele alla consegna ricevuta dal presidente del Consiglio.
La vera e unica soluzione efficace sarebbe stata quella suggerita da Ciampi: autosospensione di Fazio dall´esercizio delle sue funzioni e delega di esse, come previsto dallo statuto della Banca, al direttore generale.
Ma ci voleva l´accordo di Fazio che ovviamente non c´è stato.
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Le contestazioni che i ministri del Cicr avrebbero potuto e anzi dovuto fare al governatore emergevano chiaramente dalle carte a conoscenza di tutti: le ispezioni della Vigilanza della Banca d´Italia, l´ordinanza con la quale il Gip del Tribunale di Milano ha sospeso Fiorani, Gnutti, Ricucci e compagni dall´esercizio delle loro funzioni societarie sequestrando il 40 per cento delle azioni Antonveneta in loro possesso e le plusvalenze realizzate nei vari movimenti azionari.
La storia delle ispezioni alla Banca Popolare Italiana (ex Lodi) non comincia in realtà nella primavera del 2005 ma cinque anni prima e cioè nell´autunno del 2000. Già in quella data infatti la Vigilanza era in allarme per la spregiudicatezza e la campagna-acquisti di Fiorani. Il capo ispettore della Vigilanza, Umberto Proia effettuò una lunga indagine sulla consistenza patrimoniale della Lodi e ne dette conto in un´ampia relazione che fin da allora avrebbe dovuto allarmare seriamente il governatore. Proia era infatti arrivato alla conclusione che la Lodi non disponeva delle risorse patrimoniali necessarie alle scalate a ripetizione con le quali stava conquistando il controllo di numerose banche cooperative e fondazioni bancarie al Nord al Centro e al Sud, "in parte acquistate a bassissimo prezzo perché dissestate, e in parte pagate a prezzo elevato". In realtà Fiorani comprava gli sportelli di quelle banche, acquistava la liquidità dei depositanti e la utilizzava per finanziare la sua campagna-acquisti. Poi decideva aumenti di capitale per ricostituire parzialmente le sue risorse patrimoniali e usava le reti degli sportelli per collocare le nuove azioni Lodi presso i depositanti della medesima.
Secondo la relazione di Proia già nell´autunno del 2000 la Popolare di Lodi era discesa ad una "ratios" del 4 per cento (il minimo previsto dalla Banca d´Italia è l´8) e a quel livello era rimasta per lunghi periodi.
L´ispezione si concludeva con una raccomandazione imperativa: la Lodi non avrebbe dovuto procedere a ulteriori acquisti di banche senza aver predisposto, prima e non dopo, le risorse patrimoniali necessarie. Fiorani disse sì e fece no.
L´attacco all´Antonveneta, in competizione con gli olandesi della Abn Amro, fu organizzato con lo stesso metodo, naturalmente su scala molto più vasta.
Furono concessi fidi a molti clienti della Popolare Italiana affinché comprassero azioni Antonveneta. L´importo di tali fidi è quantificato nella relazione dei capi ispettori della Vigilanza in 1.118 milioni di euro. Era un modo per rastrellare azioni Antonveneta senza gravare sulle risorse patrimoniali della Popolare Italiana. Successivamente quelle azioni furono messe a disposizione di Fiorani a prezzi assai convenienti per chi le aveva acquistate con i prestiti fatti dallo stesso Fiorani.
Altre analoghe operazioni furono fatte con la Deutsche Bank e con le società finanziarie controllate da Gnutti. Altre ancora con vendite fittizie di partecipazioni azionarie della ex Lodi, che poi sarebbero state stornate.
Di qui i provvedimenti cautelari di sequestri azionari disposti dalla Consob e confermati e ampliati dal Gip del Tribunale di Milano.
Mi domando come mai su questi pubblici elementi di fatto non siano state poste domande al governatore durante la riunione del Cicr da parte dei ministri Siniscalco, La Malfa, Alemanno, Lunardi, Scajola. Come e perché Fazio non dette alcun peso a posizioni assunte dalla Popolare Italiana che comportavano rischi elevatissimi configurando altresì veri e propri reati da parte del predetto bancario di Lodi? Perché Fazio dispose la sospensione dell´Opa soltanto dopo l´analoga decisione della Consob mentre l´aveva autorizzata dopo aver ricevuto e letto la relazione dei suoi ispettori che confermavano la pericolosità dei metodi di Fiorani cinque anni dopo analoghe denunce da parte del capo ispettore Umberto Proia? Quei cinque ministri, dopo la scena muta al Cicr del 26 agosto, hanno commesso un peccato di omissione di inaudita gravità, che dal punto di vista della responsabilità politica li colloca sullo stesso piano di Antonio Fazio.
Se c´è una responsabilità del governatore nell´aver recato danni gravi alla credibilità dell´economia italiana (e certamente c´è) la stessa responsabilità incombe ora sui ministri del Cicr che avevano l´occasione di chiarire l´intera vicenda e sanzionarne il principale responsabile mentre hanno platealmente eluso il loro dovere.
* * *
Incombe ora all´opposizione di centrosinistra sollevare il problema in sede parlamentare portandolo all´attenzione dell´opinione pubblica. Le dichiarazioni alle agenzie di stampa non sono sufficienti. Le Camere si riaprono tra pochi giorni ed è lì che l´opposizione deve chiamare a rispondere i responsabili politici di questo malaffare che coinvolge al tempo stesso il governatore e il governo. Ed è lì che gli strombazzati auspici a convergenze "bipartisan" dovrebbero trovare l´occasione di materializzarsi con idonei strumenti di censura politica.
Il caso vuole che, in contemporanea con le vicende di questo vergognoso "risiko" bancario, sia emerso un altro caso che mette a repentaglio la credibilità del governo di fronte all´opinione pubblica internazionale e ai governi di Paesi alleati. Si tratta delle rivelazioni, ad dir poco inopinate, rese dal Commissario della Croce Rossa italiana a proposito della liberazione in Iraq delle "due Simone".
Il predetto commissario ha affermato che tra le condizioni poste dai sequestratori iracheni ci fu anche il ricovero, le terapie necessarie e quindi la fuga di due terroristi, curati nell´ospedale della Croce Rossa di Bagdad, con il benestare del sottosegretario Gianni Letta e del direttore del Sismi, Pollari.
Può darsi che il Commissario della Croce Rossa, Scelli, abbia detto il falso. Non si vede perché, ma non si può escludere. E´ tuttavia evidente che anche questa vicenda non può considerarsi chiusa senza un serio passaggio parlamentare.
Se infatti le affermazioni di Scelli risultassero confermate da opportuni riscontri, il governo nelle persone del presidente del Consiglio, del ministro degli Esteri e del sottosegretario alla Presidenza, avrebbe mentito al Parlamento oltre che ai governi alleati. L´indipendenza e la neutralità della Croce Rossa non sono elementi dirimenti se il nostro governo fu informato e approvò l´operato di Scelli, come successivamente approvò ed anzi determinò l´operato del povero Calipari.
Risiko bancario, politica degli ostaggi in Iraq: due fattispecie lontanissime per argomento l´una dall´altra, ma unificate da un effetto di grave caduta della credibilità del nostro Paese sul mercato finanziario e nella politica estera.
Ho scritto più volte che siamo da quattro anni governati da un gruppo di dilettanti avventuristi.
Purtroppo se ne ha ogni giorno la deprimente conferma.


Le riforme al centro
Mario Monti sul
Corriere della Sera 28 agosto

"Forse un Centro, se esistesse, avrebbe una più credibile affinità con un progetto del genere (lo sviluppo in Italia di una moderna economia di mercato), ma una simile ipotesi sembra sollevare una serie di altri problemi (che superano la mia capacità di comprensione)". Questa frase sul Corriere della Sera del 12 agosto, brevemente sviluppata in un'intervista sulla Stampa del 21 agosto, ha dato luogo a un dibattito molto ampio. E' impossibile riprendere qui i numerosi commenti. A questo stadio vorrei limitarmi ad alcune considerazioni.
E' sorprendente che un'ottantina di righe in tutto, formulate in modo problematico e da un osservatore che non è una personalità politica, possano avere suscitato reazioni così numerose e vivaci nel mondo politico e tra i cultori di scienza della politica. Mi hanno anche colpito, devo dire, le tante manifestazioni di interesse da parte di privati cittadini. Il problema dell'adeguatezza del sistema politico italiano a produrre le riforme necessarie per ridare slancio all'economia sembra essere molto più sentito di quanto fosse finora apparso nel dibattito pubblico.
Non ho indicato formule politiche o costituzionali. Non mi sfuggono i meriti del bipolarismo. In particolare dopo i lucidi interventi su queste colonne di Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Piero Ostellino, Michele Salvati, Giovanni Sartori e Paolo Franchi, è chiaro che il sistema bipolare rappresenta comunque, a giudizio dei competenti, un passo avanti, anche se ognuno di loro individua la necessità di migliorarlo e ha idee in proposito. Forse i miglioramenti necessari non sono marginali se, come scrive Giovanni Sartori, "siamo riusciti a trasformare il nostro bipolarismo in una grande frittata che non funziona e che non può funzionare".
Sotto il profilo della capacità di governare l'economia, mi sembra particolarmente penalizzante una caratteristica del bi-pseudopolarismo come l'abbiamo visto all' opera in Italia. In un Paese nel quale la cultura politica non attribuisce alle visioni in materia economica un ruolo "polarizzante", i poli si formano prevalentemente sulla base di altri, pur importanti, criteri ordinatori di natura politica e ideologica. Contengono, sia l'uno che l'altro polo, partiti con visioni economiche eterogenee e talora antitetiche. Su rilevanti questioni economiche, è frequente che vi siano impostazioni più simili tra i due poli che entro ciascun polo. Come si può riuscire a mettere in campo tutta la determinazione che occorre per superare le resistenze corporative di ogni tipo, se non si può coinvolgere l'appoggio dei "simili dell'altro polo" e si deve fare i conti con i "diversi del proprio polo"? Non so — altri avranno certamente le loro idee — se a questa situazione paralizzante si possa rimediare con un solido partito di Centro liberale, che l'Italia non ha mai avuto, o con una Grande Coalizione temporanea per rilanciare l'economia, o con un governo di uno dei due poli, capace però di ricercare e ottenere, su decisioni necessarie a tale scopo, l'appoggio di una parte del polo antagonista anche contro l'opposizione di una parte del proprio polo.
E' una diagnosi troppo pessimistica, osservano alcuni. Dopo tutto, il governo Prodi del 1996, con il decisivo apporto di Carlo Azeglio Ciampi, riuscì a imprimere un'accelerazione al risanamento finanziario e a condurre l'Italia nell'euro.
E' vero. E si trattò di un risultato di grande importanza, verso il quale il governo riuscì a mobilitare gli sforzi di larga parte del mondo politico, sindacale, imprenditoriale.
Ma allora c'erano circostanze eccezionali: l'obiettivo (l'euro), la scadenza (i conti del 1997), la sanzione in caso di insuccesso (l'esclusione dall'Europa della moneta), il giudice (l'Unione europea).
Ciò è tanto vero che, appena conseguito il successo e perciò al venir meno di questo sistema di pressioni, il governo Prodi venne messo in difficoltà da alcune componenti del suo stesso polo.
Nei prossimi anni, la capacità dell' Unione europea di indicare obiettivi, suscitare slanci, sanzionare ritardi sarà — temo — sensibilmente minore. Ancor più necessario sarà perciò, per le classi dirigenti e in particolare per il governo, trovare al proprio interno, nei propri convincimenti, la determinazione per prospettare un disegno per il rilancio dell'economia e la forza per realizzarlo. Se il sistema politico entro il quale l'Italia dovrà produrre questo sforzo deve essere il bipolarismo, speriamo che i suoi difetti vengano emendati rapidamente.
Credo risulti chiaro da queste considerazioni che non ho "nostalgia" del vecchio Centro, dell'era pre-bi-polare.
Quel Centro, che pure non ha prodotto solo danni, era dedito al consociativismo più che alla costruzione di una ordinata economia sociale di mercato. A quel consociativismo partecipavano, dal governo e dall' opposizione, anche uomini politici che oggi guardano sdegnati a chi dia l'impressione di mettere in dubbio il bipolarismo.
Consociativismo che, da queste colonne, ho cercato di mettere in luce nei suoi vari aspetti e di denunciare a partire dagli anni Settanta in numerosi articoli (raccolti in "Il governo dell'economia e della moneta: contributi per un'Italia europea (1970-1992)", Longanesi, 1992).
E i poteri forti? Me ne stavo quasi dimenticando! Secondo Franco Giordano, di Rifondazione comunista, con le mie riflessioni di queste settimane starei "tramando a favore dei poteri forti, preoccupati di perdere privilegi e profitti". E La Padania scrive: "Sembrava che non aspettassero altro che l'ordine dei poteri forti. Appena Mario Monti, a nome dei padroni del vapore, ha espresso il bisogno del grande centro per "fare le riforme", ecc. ecc.". Devo deludere, ma anche tranquillizzare, questi fantasiosi osservatori. Di "poteri forti" mi sono molto occupato, è vero. Poteri forti italiani, europei e mondiali.
Me ne sono occupato nelle mie funzioni di commissario europeo per la concorrenza. Non credo di averli aiutati a mantenere privilegi.


I DS, mediani in crisi del centro-sinistra
Ilvo Diamanti su
la Repubblica 28 agosto

Mentre si assiste alla riscoperta delle identità politiche, mentre il richiamo alle virtù taumaturgiche "del-centro-che-non c´è" echeggia sempre più forte, stupisce l´afasia dei Ds. Un partito che appare spaesato, dopo l´eclissi dell´Ulivo. Più degli alleati.
Più dello stesso Prodi, che si è adeguato - per ora - a interpretare la parte dell´amministratore di condominio, nell´attesa (non del tutto scontata) che le primarie gli permettano di acquistare più potere, nella coalizione. I DS, invece, stentano. Proprio loro, che un´identità ce l´hanno, dotata di memoria, simboli e organizzazione. Proprio loro, che, più degli altri partiti, occupano il centro, sono il centro. Dell´Unione. Ma, proprio per questo, soffrono. Perché si tratta di un´identità per molti versi subita, che vorrebbero lasciarsi alle spalle. E perché il centro di una coalizione di partiti impegnati a competere fra loro è posizione scomoda. E vulnerabile.
D´altra parte, Fassino, dopo la sconfitta elettorale del 2001 (pesante per i DS ancor più che per l´Ulivo) aveva dedicato molta cura a ri-definire l´identità e l´organizzazione del partito. Per legittimarlo come forza politica e come classe di governo. Per sottrarlo al pregiudizio anticomunista, che, come stigma e come slogan, ha continuato a funzionare, anche dopo la caduta del muro e la fine del comunismo. I post-comunisti. Obbligati, dal loro passato, a cambiare - più volte - il nome e l´etichetta. A proporre, alla guida del centrosinistra, candidati di altra e diversa tradizione politica. Pur essendo il partito più forte della coalizione. Da ciò la scelta dell´Ulivo unitario, sancita dal congresso dello scorso gennaio. Dove i dirigenti e i militanti dei DS hanno applaudito, quanto e più dei loro leader, Romano Prodi. Accompagnando con calore i richiami, nella relazione del segretario e negli interventi degli altri dirigenti, dedicati a De Gasperi, ai radicali. E, soprattutto, a Craxi. I DS di Fassino. Al congresso si erano proposti come l´asse del "soggetto politico unitario di centrosinistra". Riassunto della cultura laica e cattolico-democratica. E avevano rivendicato, per sé, uno spazio specifico della tradizione socialista italiana. Rivalutando Craxi, considerato fino a ieri (e da molti, nel partito e nella sinistra, ancora oggi) come il nemico. La scelta a favore della federazione unitaria dell´Ulivo, sancita dal congresso, indeboliva l´eredità del partito. Ma, al contempo, alleggeriva anche il peso del passato. Per questo, la sospensione del progetto unitario, decretata dalla maggioranza della Margherita, guidata da Rutelli, ha spiazzato soprattutto i DS. Che, negli ultimi mesi, sono divenuti il trattino del centro-sinistra. Soggetto di congiunzione e di mediazione. Il ponte fra i diversi partiti, fra i diversi soggetti. Ma anche la "base" elettorale. Insomma il (bari) centro (instabile) dell´Unione (instabile) di centro-sinistra. Piero Fassino, in particolare, è divenuto il centro del centro. Il "mediano". Che cuce lo strappo fra i Democratici di Prodi e Parisi e la Margherita di Rutelli. Che, per questo, propone le primarie di coalizione (metodo inedito e singolare, per legittimare, attraverso il voto dei sostenitori, un candidato già designato dai partiti), anche se le considera poco utili e, persino, dannose. Stare al centro dell´Unione. E´ rischioso, per i DS. E per Fassino. Come, in parte, hanno rivelato gli avvenimenti delle ultime settimane.
1. Perché, nel dibattito politico che attraversa l´Unione, i DS non riescono a specificarsi. E, per questo, appaiono afasici. Mentre gli alleati esprimono orientamenti strategici, se non progetti politici, chiari. La Margherita di Rutelli: punta al centro dello spazio politico. Dialoga con i moderati della CdL. Li affianca in alcune questioni importanti: dall´etica all´economia alla politica estera. Rifondazione Comunista e gli altri partiti della sinistra: continuano ad affermare rivendicazioni non negoziabili. Ieri come oggi. Come - promettono - anche domani. Tanto che Prodi stesso ha rinunciato a proporre, in vista delle primarie, un programma definito. Per non rendere ulteriormente visibili le divisioni interne. Per non riprodurre la difficoltà, sua, di garantire una sintesi coerente. I DS, invece, stentano a caratterizzarsi, a promuovere idee che li rendano riconoscibili. Perché al loro interno si colgono le stesse divisioni, le stesse differenze che emergono fra i partiti. Fra liberali e radicali, fra riformisti e massimalisti, fra realisti e pacifisti. Così Fassino sconta il doppio "stiramento", di chi sta al centro di una coalizione divisa e di un partito, a sua volta, distinto e distante, su molte, importanti questioni.
2. La stessa "via socialista", rilanciata a tutto tondo al congresso di gennaio, oggi appare problematica e complicata. Perché i diversi pezzi della diaspora socialista italiana stanno cercando di ricomporsi, di fondersi in un nuovo Partito Socialista. Esterno e concorrente, rispetto ai DS. Dopo che, negli ultimi anni, i socialisti, nel centrosinistra, si erano presentati perlopiù "nei" DS; oppure insieme a loro, nella Fed.
3. Da ciò il disagio, la difficoltà, lo spaesamento, di un partito e di una leadership sospinti in un terreno che non hanno scelto. Nel quale la sfida più insidiosa, per loro, sembra provenire dagli altri inquilini dell´Unione. In vista delle prossime elezioni (che nel centro-sinistra vengono considerate sostanzialmente - e pericolosamente - già vinte), infatti, i DS appaiono l´alleato da indebolire oppure da battere. Così li vede la Margherita di Rutelli, che, in fondo, alle prossime elezioni punta a diventare il soggetto più forte della coalizione. Se non da sola, magari insieme all´Udeur. E - perché no? - all´UdC (tanto più se si presentasse autonomamente). Spostando decisamente il centro dell´Unione verso il centro. Anche Rifondazione, peraltro, mira ad attrarre quella parte di elettori che vivono con disagio il distacco dalla tradizione di sinistra e il richiamo alla moderazione. Gli stessi Democratici della Margherita (guidati da Parisi) hanno sempre visto, nei DS, un ostacolo alla costruzione di un soggetto politico nuovo e unitario. Liberato dal peso di un´ideologia e di un´organizzazione ingombranti. Infine, i neosocialisti (alleati con i Radicali), per quanto la loro capacità di attrazione possa apparire limitata, contendono, comunque, un elettorato importante, per i DS, soprattutto dal punto di vista simbolico.
4. Non è un caso che proprio i DS, negli ultimi mesi, siano divenuti bersaglio di polemiche sollevate, almeno in parte, da ambienti politici "amici" (?). La "questione morale", denunciata 25 anni fa da Berlinguer, e oggi rivolta contro di loro, per stigmatizzarne le presunte interferenze nella scalata di Unipol a BnL. La "questione mediale", evocata per contestare la nomina dei vertici della RAI. Al di là di altre valutazioni, hanno l´effetto di acuire le sofferenze dei DS. Di porli in conflitto con se stessi. Perché hanno perduto il gancio dell´Ulivo, a cui avevano "appeso" l´identità futura. E si vedono inseguiti dalle ombre dell´identità passata, da cui vorrebbero distanziarsi: il collateralismo (di affari) con le associazioni rosse; lo scambio consociativo con la maggioranza.
Da ciò, da tutto ciò, il futuro difficile che, nei prossimi mesi, attende i DS e la loro leadership. Costretti a sostenere la logica della coalizione quando gli alleati pensano soprattutto a se stessi. A sostenere Prodi alle primarie, dove gli altri partiti cercano la massima visibilità. A presidiare il centro dell´Unione, mentre la Margherita di Rutelli mira a trascinare il (bari) centro dell´Unione verso il centro. I DS. Già post-comunisti, oggi post-ulivisti. Senza essere, nel frattempo, divenuti socialisti. I DS. Alla ricerca di una"cosa" che ancora non c´è; per garantire "l´unità dell´Unione", attorno alla leadership di Prodi: rischiano di apparire un post-partito, dall´identità incompiuta. Non conviene: né a loro, né al centro-sinistra. Che i DS si riducano a fare il ponte. Il partito di Prodi. Che rinuncino a dire le loro parole, a sostenere le loro ragioni e i loro leader, a tutelare i loro legami sociali e il loro mercato elettorale; in modo visibile e aperto. Oggi, alle primarie, in campagna elettorale. Meglio che i DS promuovano le loro idee e i loro uomini. Senza timore di competere - e di misurarsi - con gli alleati.
In attesa dell´Ulivo che verrà, meglio tutelare il partito che già c´è. Anche perché non è detto (anzi: è molto dubbio) che, diversamente, l´Ulivo troverà terreno fertile per radicarsi e crescere.


Elogio della divisione
Barbara Spinelli su
La Stampa 21 agosto

Per molti ebrei d'Israele, le immagini che si sono viste in questi giorni sull'evacuazione dei territori occupati a Gaza sono un nuovo inizio per il loro Stato, per la loro stessa religione, e per i rapporti che la loro politica ha con la religione. L'ebreo israeliano in questi giorni non combatte solo il male esterno, che minaccia di sommergerlo e annientarlo. Non vive passivamente la storia, di volta in volta come vittima assoluta o come padrone assoluto che entra in azione ma trascurando il volubile divenire umano di cui pretende impadronirsi.
Combatte anche i propri fratelli, quando questi deviano dalla legge dello Stato e privilegiano la presunta legge di Dio. Combatte contro se stesso, visto che i fratelli che sottopone a coercizione sono una parte di sé. Abbiamo visto le immagini che ritraggono il soldato di Tsahàl nel momento in cui versa lacrime sulle spalle del colono che egli stesso sta evacuando con violenza non sanguinosa, ma pur sempre con violenza: sono immagini che cambiano la storia d'Israele, che ricominciano l'incessante sua interrogazione sull'identità ebraica.
Siamo ebrei come nazione o religione? Siamo israeliani perché possediamo una terra data da Dio o perché rispettiamo le leggi del nostro Stato e le sue regole? Perché siamo uniti come popolo o perché sappiamo dividerci in quanto individui liberi? Perché siamo in attesa del messia che confermerà la nostra elezione o perché siamo una nazione con responsabilità simili alle responsabilità di altri popoli?
Tutte queste domande non sono nuove nella storia ebraica. Ma qui, ora, proprio a Gaza dove nel '600 nacquero nell'ebraismo correnti messianiche sovvertitrici della legge, l'interrogarsi riprende, con il travaglio di una creazione. Lo scrittore Amos Oz dice: "Assistiamo alla prima battaglia tra Sinagoga e Stato nella storia d'Israele, la prima occasione di fare chiarezza sul significato dell'ebraicità dell'unico Stato ebraico". La questione sollevata dallo scrittore è: quali dovrebbero essere ruolo e peso di religione e clero nella guida di un paese? "Alcuni Stati hanno trovato la soluzione secoli fa. Altri non hanno mai smesso di cercarla. I paesi musulmani, ad eccezione della Turchia, non hanno neanche iniziato" (Amos Oz, Corriere della Sera 20-8-05).
Tutti siamo di fronte a quest'avvenimento che trasforma il modo israeliano-ebraico di stare nella storia, che sostituisce alla passività la responsabilità, che separa il sacro dal profano, e che di conseguenza cambia anche l'idea che il mondo esterno si fa d'Israele: il mondo esterno rappresentato dall'occidente ma soprattutto dall'islam, in particolare arabo e palestinese.
Può darsi che i governi d'Israele smetteranno di correggersi: può darsi che non evacueranno gli altri territori occupati e che hanno sacrificato Gaza pur di preservare Giudea e Samaria in Cisgiordania, i quartieri arabi a Gerusalemme. Ma Gaza crea un precedente ed è ormai un modello pratico: è così, dubitando della propria infallibilità e delle presunte parole di Dio, che lo Stato d'Israele ha pensato di poter vincere mali che voleva immaginare tutti esterni, e tutti estirpabili con guerre mai interrotte.
Lo stereotipo che ritrae un Israele impermeabile al dubbio e dominatore, aggrappato a diritti e verità che non derivano da questa terra ma delle sacre scritture (la verità di Eretz Israel, di un Grande Israele che include i territori divinamente garantiti di Gaza, Giudea, Samaria) è sempre di nuovo usato ma ora s'infrange, e l'islam dovrà prenderne atto. Finora islam e ebraismo erano fratelli siamesi, come più volte ha detto Oz, erano abbarbicati l'uno all'altro in una perversa simbiosi.
Il palestinese costruiva una propria mitica narrativa di persecuzione e redenzione apocalittica imitando la narrazione dell'integralista religioso israeliano (narrazione che in fondo impregna anche il sionismo laico, secondo lo studioso dell'ebraismo Gershom Scholem).
Gli ebrei vedono nella shoah l'evento fondatore, i palestinesi lo scorgono nella nakhba, la catastrofe della loro cacciata dalla Palestina nel '48. Anche i palestinesi hanno falsi profeti che promettono redentrici riconquiste di una Grande Palestina. Anche in loro la passività tende a prevalere sulla responsabilità, sul realismo.
La passività, nei messianesimi politici, può esprimersi in due modi: con l'attesa nell'inerzia, o affrettando il compirsi dei tempi violando le leggi terrene, dunque con l'anomia di violenti gesti rivoluzionari. Questa simbiosi ora si spezza, e l'islam è di fronte a sé con nuovi compiti: non solo in Palestina, ma ovunque.
Il primo tra questi compiti, fin qui congelato, è la questione Stato-religione. Il cristianesimo ha trovato la soluzione secoli fa. L'ebraismo "non ha mai smesso di cercarla", e in questi giorni accentua la ricerca. I paesi musulmani ancora devono cominciare, il più delle volte. Per questo sono imbarazzati e si dividono, sugli accadimenti di Gaza.
Solo Mubarak e i re di Giordania e Marocco elogiano il coraggio di Sharon. Altri politici musulmani, affezionati allo stereotipo, negano l'importanza dei fatti. La chiave della svolta è racchiusa in una parola: divisione. In democrazia divisione è lievito, premessa della sua forza, del suo successo. Per giungere alla verità bisogna sapersi dividere: fratello contro fratello, parte dell'anima contro parte dell'anima. Bisogna uscire dai recinti dei gruppi d'appartenenza, esporsi al rischio di cambiare idea o precisarla meglio. Bisogna rinascere come individui.
Pagine di grande bellezza, tutte da rileggere, sono state scritte in Italia da uno spirito liberale, Luigi Einaudi, alla vigilia del fascismo. Nel 1920 scrive un saggio contro il filosofo Giuseppe Rensi (Verso la Città Divina), che poi riapparirà nel Buongoverno. È uno spavaldo e attualissimo elogio della divisione, della disunione degli spiriti, della discordia: "Il bello, il perfetto, non è l'uniformità, non è l'unità, ma la varietà e il contrasto. L'idea forte nasce dal contrasto", ogni unità imposta è "morte spirituale".
Possono unirci solo lo Stato-limite, l'impero della legge come "condizione per l'anarchia degli spiriti". L'unità ristretta alle forme e condizioni di vita, sì; "ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire: lotta continua, pertinace, ognora risorgente".
Gli israeliani hanno dato un esempio, di questa discordia che elude la morte spirituale e prepara gli uomini alle forme della politica. I palestinesi e l'islam hanno bisogno di scoprire il valore della divisione, dunque dell'agorà. È una divisione che timidamente fa apparizione, nei movimenti di liberazione. Comincia con la questione centrale di questi giorni: il ritiro degli israeliani da Gaza è una vittoria del terrorismo palestinese e islamico? In parte certamente lo è, come sostengono alcuni israeliani tra cui Abraham Yehoshua: "Estremisti islamici, kamikaze, militanti della lotta dura: avete vinto. Israele per causa vostra si ritira da Gaza. Ma adesso sta a voi cogliere l'occasione e costruire la pace".
Gli estremisti palestinesi hanno vinto, ai punti: ma da questa vittoria possono apprendere lezioni contrastanti, distruttive o costruttive. Possono glorificare questa vittoria, e prepararsi a una successione di Intifade contro le popolazioni civili israeliane: è la linea Hamas, che in questi giorni canta vittoria. Oppure possono ascoltare Mahmud Abbas, presidente palestinese, che constata l'"evento storico" ma si dichiara insoddisfatto, desideroso di ulteriori rapidi progressi. Paradossalmente sono gli insoddisfatti che hanno più realismo responsabile, perché s'oppongono alla spirale intifade-concessioni israeliane unilaterali. Vogliono non unilateralismi ma negoziati, per separare davvero i fratelli siamesi e anche per sconfiggere Hamas.
Anche qui c'è nuovo inizio, vivificato dalla divisione degli animi. Con le divisioni finisce il messianesimo politico, viene inaugurata la politica senza messia. Con la disillusione ha inizio la saggezza, per l'individuo e le nazioni; compresa la saggezza di sopravvivere e durare. Ma anche i dirigenti occidentali sono di fronte agli eventi con la responsabilità d'imparare da essi, per meglio pensare la lotta al terrorismo.
Vale la pena leggere la dichiarazione di Sharon alla vigilia dello sgombero, il 15 agosto: "Insieme a tanti altri, avevo creduto e sperato che potessimo restare (nelle colonie di) Netzarim e Kfar Darom per sempre. Le trasformazioni intervenute nella realtà del paese, della regione, del mondo, hanno però reso necessarie una revisione e modifica delle mie posizioni. Non possiamo tenere la Striscia per sempre. Vi abita oltre un milione di palestinesi e il loro numero raddoppia ad ogni generazione. Essi vivono ammassati in campi profughi sovraffollati, in condizioni di povertà e sofferenza, in focolai di crescente odio, senza alcuna speranza all'orizzonte".
Il che vuol dire per Israele: non possiamo salvare la natura ebraica del nostro Stato-nazione (di per sé già un anacronismo, considerata l'evoluzione multietnica degli Stati-nazione), se nei territori attizziamo l'odio d'un popolo che demograficamente già ora ci supera. E per tutti significa: esistono radici obiettive e locali, nel terrorismo odierno, oltre alla distruzione fine a se stessa. Esso non è solo antisemita, antioccidentale: non è rivolto solo verso quel che l'ebreo e l'occidentale sono, ma anche verso quello che essi fanno o non fanno. Il terrorismo lo si combatte restando se stessi, s'è detto forse con troppa fretta.
Ma forse lo si combatte anche mutando se stessi e non temendo le nostre interne divisioni, sempre che mutare e dividersi non sia compromettersi col male. Non per emarginare la religione, ma per restituirle la spiritualità che essa perde quando si mescola alla politica e comanda su di essa. Per ridare anche a noi l'orizzonte di speranza che con gli attentati s'appanna. Ritrovarlo richiede spirito di resistenza, a volte armata altre no ma in ogni circostanza razionale, affilata dal tornio della politica. E ogni razionalità politica comincia con una disillusione ("anch'io credevo..."), succeduta da dissensi interni che sfociano in azioni autocorrettive. Aver capito questo è forza, non debolezza d'Israele. Chissà se gli estremisti palestinesi lo comprendono, senza farsi ubriacare da una vittoria - quella loro attribuita - che è solo militare o criminosa.


Il centro corporativo
Michele Salvati sul
Corriere della Sera 25 agosto

Che morale possiamo cavare dalla polemica sul "centro" innescata dall'intervista di Mario Monti sulla Stampa?
Partiamo da Monti, che riassumo con parole mie. Il prossimo governo ha un compito prioritario: riavviare il processo di sviluppo. Se questo compito non è assolto, qualsiasi altro obiettivo, di destra o di sinistra che sia, non può essere raggiunto. Riavviare lo sviluppo è però politicamente costoso: esige un progetto di riforme liberali che né il centrodestra, né il centrosinistra sembrano in grado di imporre, soprattutto per il condizionamento che esercitano su di essi le ali estreme. Di qui l'affermazione più controversa: "Forse un centro, se esistesse, avrebbe una più credibile affinità con un progetto di questo genere".
Apriti cielo, il bipolarismo non si tocca, anche se tutti convengono che il nostro, finora, ha funzionato abbastanza male. Perché? Sicuramente per la presenza di ali estreme. Ma siamo sicuri che le resistenze al "Progetto Monti" derivino solo da loro? Non derivano anche da forze politiche che più centriste e moderate non potrebbero essere? Chiunque abbia seguito la discussione della legge sulla riforma del risparmio o le prese di posizione sulle due Opa bancarie in corso e sugli interventi di Bankitalia — ci limitiamo solo ai casi più recenti e macroscopici — si può rendere facilmente conto che gli ostacoli al progetto riformista liberale non sono certo venuti da forze estremistiche. La realtà è che posizioni antiriformistiche e antiliberali sono ampiamente rappresentate nelle componenti più centriste e più moderate dei due schieramenti. Per ripetermi: in entrambi i poli di centri ce ne sono due, un centro riformista e liberale (piccolo) e un centro corporativo e che chiede protezioni, non riforme (grande). Mettendoli tutti insieme, ammesso che sia possibile, siamo sicuri che otterremmo l'effetto sperato da Monti?
Le difficoltà che incontra il Progetto Monti stanno nella società più che nella politica. In una società corporativa per storia antica, e per di più in declino — situazione nella quale molti si aggrappano con più forza a povere certezze e non pochi a ingiustificati privilegi — i partiti sono indotti dalla logica della competizione politica a soddisfare le domande che provengono dagli elettori. Non si vede dunque perché un grande centro dovrebbe disattenderle e imporre un programma severo e impopolare. E allora teniamoci il bipolarismo — un grande progresso rispetto alla democrazia bloccata della Prima Repubblica — che quantomeno consente di mettere a confronto due diversi progetti per contemperare riforme liberali e protezioni, innovazione e sicurezza.
Conclusioni e morale. Una riflessione sui motivi dello scarso rendimento nel nostro bipolarismo è sempre benvenuta. Alle prossime elezioni si andrà però col bipolarismo che abbiamo e non credo sia utile indulgere più che tanto in giochi di fantapolitica. Poiché i due schieramenti si presenteranno con diversi progetti di innovazioni strategiche (per rianimare lo sviluppo) e di protezioni selettive (perché è soprattutto sicurezza e protezione che chiedono molti elettori), cerchiamo di far capire quali siano le innovazioni proposte e le protezioni concesse. In che cosa differiscano. Se siano efficaci, le prime, e giustificate, le seconde. Questo sarebbe un buon servizio reso all'opinione pubblica.


Abolire la destra
Furio Colombo su
l'Unità 27 agosto

Non lo stanno chiedendo fanatici di sinistra. Lo stanno facendo loro. Anzi lo fanno già da un pezzo. Non c'è più destra, ve ne siete accorti? Ci sono i moderati, che comprendono persino Calderoli e Castelli. C'è il Centro che rigorosamente sostiene la guerra e denigra i pacifisti. Ci sono i liberali-liberisti, che, sia pure con un po' di confusione di parole, vogliono sempre la stessa cosa: il mercato, invocato su tutto, Costa d'Avorio e Sudan inclusi, come la grande risposta, anzi il miracolo che non fallisce mai. Questa è la parte buona della bipartizione politica.
Poi c'è una sinistra colpevole di tutto. Se è cattolica, si tratta dei “cattolici adulti” cui dedica il suo umore sprezzante il presidente del Senato Pera. Se è moderata, ha due sole scelte. O non è abbastanza moderata da coincidere con una delle categorie “buone” descritte prima ("Coraggio, un po' più di innovazione, di modernità, di licenziamenti, di mercato") o si tratta di un camuffamento non riuscito, una striminzita pelle di pecora su un lupo così famelico da voler ancora difendere i sindacati.
Se qualcuno si azzarda a criticare in modo netto e deciso la “parte buona” della vita politica, per qualsiasi ragione (mettiamo clamorose illegalità, mettiamo vergognose leggi, mettiamo processi evitati e risolti attraverso la Commissione Giustizia del Parlamento che è anche il collegio di avvocati personali del Premier) allora è senza dubbio estremista.
Non riconoscete in questa descrizione l'immagine della politica italiana secondo la grande stampa e i più autorevoli talk show?
Guardate bene. In questo quadro la destra non esiste. Esiste solo la sinistra, che è infida, forse amica del terrorismo. Deve sempre pentirsi di qualcosa, e che abbia una buona volta il coraggio di farlo, forte e chiaro, davanti a tutti.
L'operazione è astuta perché conta sui mezzi di comunicazione di massa che stanno al gioco.
Funziona perché, una volta ridotto il quadro di ciò che si vede alle nuove dimensioni (o meglio: spostata la scena), la destra, che pure è rimasta più che mai rigorosamente destra e non ha rinunciato proprio a nulla dei suoi programmi più estremi, appare “moderata”. E la sinistra, per quanto si limiti, si autocontrolli, si comporti bene per farsi accettare, rivela, sempre, con qualche lapsus, di non avere abbandonato alcune follie, come l'idea fissa di uguaglianza, il mito della legalità, l'ossessione, che viene fatta apparire sempre più torva e sospetta, di difendere il lavoro come diritto fondamentale del cittadino.
Alla sinistra viene imposto uno stivaletto malese nel quale, se vuole un minimo di rispetto, deve restringere le sue aspirazioni e i suoi programmi.
Vengono anche assegnati dei leader. Se non apprezzate Tony Blair e il suo fanciullesco entusiasmo per la guerra fondata su carte false e corredata di centomila morti, a cui se ne aggiungono, da due anni, trenta al giorno, siete un poco di buono, certamente privo di cultura di governo.
Quanto agli ideali, ci viene detto di non far ridere la nostra austera controparte che è la parte buona, moderata e affidabile della società moderna. Vorrei ricordare un passaggio esemplare del tristemente memorabile discorso di Marcello Pera a Rimini. Per bollare l'iniquità morale di coloro che non stanno con lui ha detto che "si nascondono dietro gli ideali".
“Ideali” diventa una parola a luci rosse per coloro che dicono - con virile realismo - che la guerra è guerra, il mercato è mercato, il potere è potere. E se non capisci che ti conviene stare dalla parte giusta, sei sciocco o pericoloso.
Questo è il momento di rafforzare il recinto con la balaustra della religione. Se avete la vostra idea di verità, di libertà, di decenza, di giustizia, siete relativisti. Il relativismo, che secondo qualunque voce filosofica, in qualunque dizionario, è il legame che unisce la libertà alla democrazia, in questa nuova versione della vita politica diventa un pericolo mortale perché scardina l'identità (vi immaginate la mia identità insieme a quella di Borghezio?) e mette in pericolo la verità. È possibile che un solo ragazzo o ragazza credente del meeting di Comunione e Liberazione voglia vivere con la "fede fai da te" (citazione di Papa Ratzinger) di Marcello Pera, che era un laico arrabbiato poco prima della sua conversione politica, dunque predicatore di una verità raccolta per convenienza?
Da molti anni non mi invitano a Rimini, non so immaginare i cambiamenti. Eppure non credo che di Pera abbiano apprezzato l'invocazione alla guerra, da fare adesso, qui e subito, anche se non si sa contro chi. E l'appello alla caccia contro gli infedeli.
Ma il nuovo recinto rafforza l'altro, quello della finzione politica, che vuole i moderati da un lato (niente destra) e tutta la sinistra, più o meno “estremista”, dall'altro. E dunque se sei di “sinistra” e se per giunta insisti nell'essere relativista, nel senso che continui a rispettare l'identità e la verità degli altri, allora sei davvero un pericolo. E per fortuna che ci sono ancora dei bravi rivoluzionari di una volta che invece accettano il gioco dei talk show, contestano le “testate omicide” (lo ricordate? Lo dicevano, e lo lasciavano dire, de l'Unità senza alcun imbarazzo), conversano bonari con i “moderati” della grande mascherata di destra, e non si fanno trovare mai nel luogo o nell'atteggiamento sbagliato.
* * *
Come molti lettori avranno già pensato, questo espediente profondamente disonesto però efficace e ben pensato, non è solo italiano. Anzi, sono le destre di casa nostra (comprese quelle che una volta erano orgogliose di essere destre) ad avere rapidamente indossato il trucco “moderato e di centro” unico baluardo al pericolo della sinistra (leggi: chiunque si oppone).
Prendete per esempio Pat Robertson. È un predicatore evangelico americano legato anima e corpo (sopratutto anima, visto che è uomo di Dio) a George W. Bush che, come è noto, e come ci fa sapere, parla solo e direttamente con Dio, ("il mio vero, unico consulente") dunque è uomo di moderazione e di centro.
Pat Robertson dispone di una sua rete televisiva. L'ha usata, il giorno 22 agosto, per invocare l'assassinio del Presidente del Venezuela. Hugo Chavez (quel presidente) non è un personaggio particolarmente simpatico. Ciò che adesso attira i fulmini, però, non è il suo modo berlusconiano di gestire (sia pure da sinistra) il potere, ma l'aver stretto un legame con la Cuba di Castro.
In un editoriale durissimo, il New York Times del 26 agosto fa notare che "le parole incredibili di un uomo molto vicino al Presidente degli Stati Uniti, sono state accolte, in genere, con mite tolleranza dai media". Dopo tutto Robertson è ben radicato in posizione “moderata e centrista”.
"Immaginate - scrive il New York Times - se una frase del genere fosse stata detta da un Mullah alla televisione Al Jazeera! Si sarebbe levato un urlo di furore e condanna". Invece, osserva il Times, "solo un tiepido comunicato del Dipartimento di Stato ha definito l'invito all'assassinio di un capo di Stato “inappropriato”.
* * *
Prendiamo adesso un esempio europeo, quello di Angela Merkel, candidata moderata, cristiana, centrista come nessuno al mondo, che si batte contro quel bolscevico del cancelliere Schröder. Tutti sanno il male che Schröder ha fatto al suo Paese e al mondo decidendosi così tardi (e in modo così parziale) a smontare la solida protezione di cui godono i lavoratori tedeschi. A quanto pare è colpa loro e delle leggi che proteggono il sindacato se la Volkswagen ha avuto un management così poco esemplare, se la BMW non è più frizzante di brio e di eleganza esclusiva, se alcune banche tedesche hanno sminuito nel mondo l'immagine della integrità senza ombre di quel Paese.
Schröder e il suo alleato, il ministro degli esteri Fischer, sono sotto continua osservazione. Al minimo accenno di ritorno allo Stato sociale vengono aspramente sgridati da pattuglie di esperti e di vigilantes del mercato. Del loro ex compagno di partito Lafontaine, che ha osato dare vita a una coalizione più di sinistra, i media insinuano che gli piacciono la bella vita e i vini di qualità. Insomma, un parassita.
Angela Merkel ha scelto come futuro ministro delle Finanze (se vincerà) un certo Paul Kirchhof che il “columnist” americano Richard Bernstein definisce “famoso radicale di destra”.
Perché lo dice? Perché Kirchhof propone per tutti i cittadini, ricchi e poveri, la famosa “flat tax”, 25 per cento imponibile per tutti, miliardari e precari, disoccupati ed ereditieri. La Merkel, da parte sua, propone un deciso aumento dell'IVA (che in Germania si chiama VAT). Le due proposte, insieme, formano un programma di destra brutale, una spinta violenta contro i redditi da lavoro, una vera condanna alla povertà di molti, e licenza di libero arricchimento per altri, molto più radicale delle circospette discussioni intorno alla tassa sul capitale che hanno attraversato la politica italiana a sinistra, e creato subito costernazione, condanna e scandalo.
In altre parole Angela Merkel fa apparire mite e gradualista la signora Thatcher.
Eppure lei resta di centro, il suo è un partito moderato, la sua vittoria verrebbe celebrata come un prevalere del buon senso, e una sola parola di riscatto a sinistra di Schröder e Lafontaine verrebbero definiti estremismo.
Per completare la messa in scena (lei stessa, a differenza di Pera, vede il suo gioco e un po' si diverte) la Merkel usa come inno della sua campagna elettorale la canzone Angie dei Rolling Stones. Pare che i Rolling Stones abbiano intenzione di farle causa, ma la Merkel non si scompone. Se lo faranno, saranno dei teppisti della sinistra radicale che si permettono di attaccare una brava signora di centro che, con lo smantellamento totale del Welfare tedesco (il suo programma economico fa tabula rasa di ogni margine di assistenza o sostegno a chiunque non sia ricco di rendita o di impresa, nel suo Paese) propone mitezza e moderazione.
"Forse non sarà una rivoluzionaria - ha osato scrivere di lei Richard Bernstein sull'Herald Tribune (26 agosto) - ma non si era mai visto prima un così radicale programma elettorale".
Ecco svelato il gioco. La nuova destra - da quella violenta della guerra dovunque, a quella del radere al suolo ogni residua difesa non solo del lavoro ma anche della decenza e della responsabilità delle imprese - si presenta come il centro ragionevole della modernità. Ogni spostamento, un passo più in là, è rivoluzione.
Opporsi a questo gioco vuol dire che "quelli di sinistra hanno perso il pelo ma non il vizio". Per questo detestano Romano Prodi. Ha esperienza, conoscenza, mitezza, non viene a patti, non fa salotto. E non accetta le loro condizioni. Vede che la destra è destra. A volte estrema destra. E lo dice.


Più candidati meglio è
Adriano Sofri su
la Repubblica 25 agosto

Cari Piero Fassino e Vannino Chiti, vorrei riassumere alcune opinioni sulle primarie e i candidati, confidando nel puro buon senso. Il fatto è che l'idea stessa delle primarie non si accomoda facilmente col buon senso. Almeno se pensiamo davvero –io lo penso, e pressoché tutti dicono di pensarlo- che alla guida del centrosinistra sia e debba essere Romano Prodi. E' perfino imbarazzante ripetere che una consultazione che dà per scontato, lealmente o ipocritamente, il risultato, mette a dura prova il buon senso. Si è detto che le primarie sono uno stimolo alla discussione e alla partecipazione attiva degli elettori: magra giustificazione, a confronto con l'indebolimento di uno strumento altrimenti prezioso per la partecipazione democratica, quando davvero serva a scegliere, com'è stato in Puglia, come potrà essere in futuro. Magrissima giustificazione, a confronto con la moltiplicazione di candidati che, escludendo a priori di correre per vincere, corrono evidentemente per farsi propaganda e per guadagnarsi le quote di minoranza più forti, da far pesare domani nella formulazione degli obiettivi di governo, per dirla cortesemente, o nella vertenza sui posti, per dirla bruscamente. Se, nonostante questa nitida evidenza, si è deciso comunque di tenere le primarie, bisogna almeno, mi pare, limitare una comprensibile irritazione degli elettori volontari nei confronti della superfluità del voto e della composizione decisamente burocratica delle candidature. Nelle quali, altra osservazione imbarazzante da ripetere, non figura una donna: non una su trenta milioni di cittadine italiane, in età o no. Una mia amica mi ha detto: noi donne abbiamo un senso della realtà e della misura. Senz'altro: ma tutte Non ce n'è una irrealista, matta, smodata, che abbia voglia di pungere il palloncino con uno spillo Non c'è: il che forse depone davvero a favore di ragionevolezza e dignità delle donne, ma troppa grazia. Mi piace che Bertinotti esiga che nelle circostanze a venire si riservino alle donne la metà di candidature e incarichi, lo direi anch'io, se avessi voce in qualche capitolo: però Bertinotti e io e tutti i bravi maschi che ribadiscono questa bella intenzione somigliano a bravi maschi che sul tram restino seduti al loro posto invece di far accomodare le signore, ma promettendo che al ritorno… Ora, sono candidati alle primarie parecchi segretari dei partiti dell'Unione, con l'eccezione della Margherita, che però ha, più o meno limpidamente, Romano Prodi, dello Sdi, partito sobrio, e dei Ds, partito tuttora grosso, e portatore decisivo della investitura di Prodi. Non è un gran paesaggio, dal punto di vista della vivacità democratica. Oltretutto, un tal paesaggio sembra fatto apposta per incoraggiare i voti più militanti e di bandiera, e scoraggiare quelli di opinione e di buona volontà, a cominciare dall'elettorato Ds, nel quale può allignare uno stato d'animo da bue paziente punzecchiato da mosche cocchiere. Non trovo alcun motivo, una volta che si siano volute così ostinatamente indire le primarie, per obiettare alle candidature dei segretari di partito dell'opposizione –tutt'al più obiezioni di gusto. Però trovo che a maggior ragione bisogni accettare, e anzi auspicare che a questo punto ci siano altre candidature, meno ovviamente legate alla distribuzione dei partiti dell'alleanza e alle spartizioni future di responsabilità e posti (pelle dell'orso, oltretutto, ancora). Ricordo molto a malincuore che sono privato del diritto di voto, e dunque anche di un voto alle primarie: se ne disponessi, voterei senz'altro per Romano Prodi, per ridurre i danni possibili di una consultazione che non avrei voluto, e investire chi dovrà guidare la campagna elettorale della maggior autorevolezza e serenità. Per la stessa ragione spero che gli elettori Ds vogliano far prevalere sulla eventuale renitenza a tirare la carretta, il giudizio sull'opportunità che Prodi riceva il sostegno più largo ed esplicito. Ma per le stesse ragioni penso che bisogni favorire le candidature spontanee, quando non siano provocazioni goliardiche, magari eccitate dal capriccio di primarie dall'esito scontato, come la trovata di elettori di destra che vadano a votare per candidati anti-Prodi e simili piacevolezze. Appoggio il desiderio di partecipazione di Ivan Scalfarotto, che è, mi pare, persona seria, e abbastanza sconosciuta, due buone condizioni per partecipare: indipendentemente dal suo programma politico e dalla sua tempra personale, di cui il futuro dirà, e tanti auguri. Per la stessa ragione trovo che la sua candidatura –cioè la raccolta delle 10 mila firme autenticate da eletti dell'Unione, sensatamente previste per lo svolgimento delle primarie- debba essere benvenuta e favorita da Romano Prodi, da voi, e da qualunque dirigente responsabile dell'Unione che voglia contribuire all'apertura e la pluralità di facce e voci nelle primarie. Aggiungo che terrei la stessa posizione per altre e diverse candidature, di cui già si parli, come quella di don Gallo, o di là da venire. Questo mi pare dettare il buon senso e una sensibilità democratica. Scrivo a voi per dissipare, se c'è, un equivoco, e perché apprezzo la vostra pazienza. Non so perché si è inventata quella formulaccia del popolo bue: ammirevoli sono i buoi, e largo lo spazio alle mosche cocchiere.


Con o senza Fazio
Tito Boeri su
La Stampa 26 agosto

Invece di portare subito la crisi Banca d'Italia in Parlamento, il governo ha preferito convocare e poi rinviare a fine agosto una riunione del Comitato interministeriale per il credito e risparmio (Cicr). Oggi sapremo se, come temiamo, è stato solo uno stratagemma per prendere tempo e poi lasciare tutto come prima, anziché sfruttare il senso d'urgenza suscitato dalla crisi per forzare una riforma comunque necessaria.
Banca d'Italia va riformata con o senza Fazio. Perché la struttura di governo dell'istituto, le sue competenze, e il suo modo di rispondere (meglio, di non rispondere) del proprio operato di fronte al Paese sono anacronistici, non a caso unici nell'ambito dell'Unione monetaria europea. Questi aspetti sono apparsi chiari a tutti nelle ultime settimane quando abbiamo saputo fino a che punto il governatore abbia potuto agire in splendido isolamento, potendo ignorare il parere di tutti, dentro e fuori l'istituto.

Lo hanno saputo, e anche questo è indicativo, grazie all'operato della magistratura. Abbiamo anche toccato con mano il fatto che questa governance impedisce a Banca d'Italia di correggere i propri errori. Nonostante il capitale umano concentrato in via Nazionale, l'istituzione non ha reagito ai danni per la sua immagine e per quella del Paese causati dall'azione del governatore. Meno evidente è forse risultata ai più la posta in gioco nel conflitto sulle competenze sull'antitrust bancario. Il nostro Paese ha bisogno, per uscire dal declino economico cui sembra destinato, di un sistema bancario efficiente, in grado di facilitare l'accesso al credito da parte di chi è in grado di investire nel futuro. Oggi i neolaureati della Bocconi, accettati nelle migliori università straniere, non riescono a farsi concedere un prestito dalle banche per finanziare i propri studi. Chi ha un ottimo curriculum e ottime opportunità di carriera ma, per sua sfortuna, non ha ancora un contratto di lavoro permanente, fatica ad accedere ai mutui per comprarsi una casa. Abbiamo costi dei servizi bancari, anche quando aggiustati per tenere conto delle specificità di ciascun Paese, tra i più alti d'Europa, senza che questi più alti costi siano compensati da una remunerazione più alta dei depositi per un dato tasso attivo. Al contrario, l'Italia ha, dopo la Germania, lo spread più alto fra tassi attivi e passivi nell'ambito dei maggiori Paesi industrializzati. Secondo le indagini della Commissione europea, siamo anche il Paese i cui cittadini sono maggiormente critici rispetto alla trasparenza delle informazioni fornite loro dalle banche. Sono tutti mali che possono essere curati mediante iniezioni di concorrenza, facendo dipendere l'autorizzazione alle fusioni bancarie intra e internazionali dall'impatto competitivo di queste aggregazioni, spezzando i cartelli collusivi, limitando la concentrazione delle partecipazioni di industriali nelle banche e aumentando la trasparenza nell'operato delle banche, a partire dal sottoporre le obbligazioni bancarie alle regole del mercato. Ci vuole chi si batta per garantire questo bene pubblico che è la concorrenza, nel sistema bancario. Non è certo via Nazionale, chi governa le banche o è da queste governato, a spingere per una maggiore concorrenza, che ridurrebbe i loro margini di profitto.

Se la riforma va fatta anche senza Fazio, non si può delegare a Fazio il compito di varare la riforma. Ha dato ampia prova in questi anni, a partire dalla sua opposizione all'ingresso dell'Italia nell'euro, di opporsi con decisione a qualsiasi riduzione dei propri poteri. E non è certo l'Europa a imporci la strada dell'autoriforma. Come spiegato da Francesco Vella sul sito www.lavoce.info, la Banca centrale europea non si opporrebbe certo ad una riforma votata dal Parlamento che applicasse a via Nazionale il modello della Bce in termini di collegialità, accountability e assenza di competenze sull'antitrust bancario. Non solo l'Europa non riduce i poteri (e dunque neanche i doveri) della nostra classe politica nel varare una riforma improrogabile, ma anzi è proprio l'Europa a chiedercela. Non soltanto l'opinione pubblica e la stampa internazionale che hanno dato ampio risalto alle vicende di via Nazionale.
E' la stessa Banca centrale europea a chiederci di intervenire. Perché non solo il suo modello di governance, ma anche i suoi pronunciamenti sull'accountability delle banche centrali e le sue regole di condotta interne sono antitetici rispetto alla gestione monocratica di Banca d'Italia e al suo operato nella vicenda Antonveneta. E non è possibile che nell'ambito di ciò che si definisce come il sistema di banche centrali europeo possano coesistere regole così diverse e banche centrali coinvolte in crisi che possono incrinare la credibilità dell'intero sistema e governatori che, anche dopo l'ingresso del proprio Paese nell'Unione monetaria, definiscono l'euro come un purgatorio.


I veri problemi della politica
Fausto Bertinotti su
Liberazione 24 agosto

Un'estate anomala, turbolenta, rumorosa, quella che sta finendo, dove l'hanno fatta da protagonisti mediatici nuovi rentiers e vecchi contenziosi. In tanto rumore della politica, c'è un'Italia "maggioritaria" pochissimo raccontata e quasi ancor meno rappresentata: essa ci rinvia alla spaccatura verticale della nostra società, alla disuguaglianza che cresce, ad una vera e propria emergenza salariale. E' l'Italia del "meno": meno lavoro, salario, pensioni. Meno diritti - e quest'anno anche meno ferie. Era stata, la conquista delle vacanze, di un tempo continuativo "liberato" dal lavoro, una grande conquista del movimento operaio, e anche un simbolo di civiltà: oggi, non per caso, è drasticamente ridotta, ridimensionata - oppure, all'opposto, allargata a dismisura per chi un lavoro non ce l'ha, o si deve accontentare di una condizione precaria. Ecco, alla vigilia della consueta ripresa d'autunno, è da questo Paese reale, da questa lotta di classe occultata e permanente, che bisogna ricominciare, se si vuole dare un senso alla politica.
Ancor più che nel passato, del resto, la nuova stagione appare densa di annunci preoccupanti: come la stangata sulle tariffe e su alcuni servizi essenziali, dal gas ai libri scolastici, dopo il petrolio e la benzina che sono già schizzati alle stelle. Spie della più generale, e drammatica, questione sociale che ci riguarda, indotta da quella gigantesca crescita della rendita, che costituisce tanta parte dell'"anomalia" italiana - l'Italia "minoritaria" del "più", dei profitti che aumentano senza produrre né sviluppo né lavoro, del valore aggiunto delle imprese che premia solo gli azionisti.
In questo Paese reale così declinante e così distorto, il padronato manifesta un'arroganza ormai illimitata. Come gli imprenditori metalmeccanici, che annunciano la loro indisponibilità a discutere davvero del rinnovo del contratto - e anzi pretendono, come condizione dirimente per una trattativa degna di questo nome, la flessibilità totale sugli orari dei lavoratori: pretendono, in sostanza, la resa preventiva, la dismissione da parte dei sindacati di ogni soggettività. O come l'Alitalia, che pur si regge sul contributo dello Stato, che interrompe ogni rapporto con il Sult - un atto senza precedenti di puro arbitrio padronale.
C'entra tutto questo con ciò che chiamiamo politica? C'entra al punto che ne determina una conseguenza di prima grandezza. Questa è l'agenda vera dell'autunno. Questa è la discussione programmatica che va avviata subito, anticipando le scadenze in programma, costruendo una piattaforma dell'opposizione, mettendo in campo una mobilitazione vera, non solo parlamentare, contro la finanziaria del centrodestra. Come è sempre accaduto, il contratto dei metalmeccanici assume un valore generale: è il vero banco di prova di una politica alternativa, che non si limita a contrastare le scelte del governo, ma comincia a far avanzare, nelle proposte e negli obiettivi, la rottura con gli schemi neoliberisti. Una pratica di redistribuzione della ricchezza a vantaggio del lavoro e dei lavoratori. Una capacità concreta di aggredire i meccanismi di rendita. Un passo significativo in avanti nella costruzione di un nuovo blocco sociale.
Questa proposta politica non nasce solo dalle nostre persuasioni soggettive, o dal nostro pur organico legame con il movimento operaio. Ovvero, a noi pare la proposta più efficace - e "realistica", se mi si consente l'aggettivo - dal punto di vista dell'alternativa al governo delle destre. Battere Berlusconi, certo, è un passaggio ineludibile della politica attuale, una priorità cioè da cui non si può prescindere. Ma quasi altrettanto ineludibile è la battaglia contro ciò che nel capitalismo ha generato l'era berlusconiana: la quale non solo non è riducibile a una mera anomalia, o arretratezza italiane, ma è in buona misura l'espressione "estrema" di una crisi di sistema - la crisi organica del capitalismo nella sua era neoliberista. Non la vediamo emblematicamente rappresentata, pressoché ogni giorno, nel declino delle grandi famiglie, nell'ascesa incontrollata dei rentiers, insomma nel progressivo disseccarsi della borghesia e di ogni sua energia innovativa? Non ci parla di essa il ritorno planetario della guerra come unica e tragica chance di "crescita" economica?
Ma se è così, non possiamo pensare di farcela soltanto sulla base di un programma di breve periodo: essenziale è la riapertura contestuale di un orizzonte di trasformazione, quel che un tempo si declinava come "nuovo modello di sviluppo", quel che oggi possiamo definire come alternativa di società. Né si tratta di rieditare l'antica tattica detta dei "due tempi" - oggi il governo, domani, chissà, l'avvio di un processo più avanzato di trasformazione. Si tratta, per un verso, di non assumere l'accesso al governo nella chiave della governabilità, o come una prigione impediente di ogni battaglia di trasformazione; e per l'altro verso di immettere nella pratica concreta della politica, anche della politica quotidiana, un elemento di rottura, uno squilibrio, una connessione non ideologica con quell'orizzonte generale.
Utopia? Ma se guardiamo alle altre risposte in campo, scopriamo che, forse, sono loro a rasentare l'utopismo. Il neocentrismo, intanto, che quest'estate ha riproposto la sua "sfida" con rilevante immagine dinamica. Esso muove, in parte, dalla nostra stessa analisi: vede una crisi organica e offre una via d'uscita "compatibilista", ovvero l'alleanza con le forze "migliori" del capitalismo, di cui assume fino in fondo la piattaforma. Solo che non vede la fragilità di queste forze e finisce per cavalcare una prospettiva tutta ideologica - il mercato, la "competitività" senza progetto, ovvero senza un progetto che non si riduca alla compressione ulteriore dei diritti e del lavoro.
Poi ci sono i riformisti, il "riformismo". Ed è il caso di dire: se ci sono, battano un colpo. Come ci dice anche, fuori da ogni polemica manichea, la vicenda Unipol-Bnl: se è chiaro che essa non attiene alla questione morale, è chiaro altresì che, invece, a un'idea della politica attiene da vicino. Qual è il blocco sociale di riferimento dei riformisti? Qual è la loro Italia? Qual è la loro strategia di riforme per il Paese?
Di fronte a questi interrogativi, il campo riformista appare dubbioso e oscillante. Un'incertezza che non aiuta la politica. Ma che ci conferma la necessità vitale della sinistra, di un progetto di sinistra, di una politica alternativa.
Noi, come Rifondazione comunista, siamo ben consapevoli dei nostri limiti, così come della nostra non autosufficienza. Non ci pare, tuttavia, che possa essere inscritto tra questi limiti un insufficiente impegno pacifista: diversamente dagli altri partiti, anche dai partiti della sinistra che oggi partecipano all'Unione, siamo stati risolutamente contrari ad ogni guerra, a cominciare da quella del Kosovo, ci siamo battuti perché l'Italia non fosse in essa coinvolta, abbiamo fatto della difesa dell'articolo 11 della Costituzione uno degli assi portanti della nostra lotta.
Questo impegno, per noi, resta centrale, "assoluto". Ed è centralità della pace, non solo opposizione alla guerra: è l'assunzione di una prospettiva, nient'affatto tranquillizzante, contro la catastrofe che incombe sulla civiltà. Contro la barbarie - per un'idea di politica che ridiventi capace di svolgere un ruolo attivo nei processi storici.
Anche le drammatiche vicende del Medio oriente e della Palestina sono per noi parte integrante di questa sfida strategica per la Pace. Per questo, non certo per schieramento ideologico, siamo sempre stati a fianco del popolo palestinese e abbiamo militato - militiamo - per la parola d'ordine "due popoli, due Stati". Per questo, non certo perché contrari all'esistenza dello stato d'Israele, abbiamo sempre avversato la politica di Ariel Sharon: non solo l'uomo delle stragi di Sabra e Shatila, ma del Muro - del non riconoscimento e dell'oppressione violenta dell'altro, del diritto dei palestinesi all'esistenza. Ma come valutare, in questo quadro, l'iniziativa di sgombero dei coloni israeliani dal territorio di Gaza che il premier israeliano ha portato a termine proprio in questi giorni? A noi - ne sono profondamente persuaso - è richiesta la capacità di vedere ciò che muta, ciò che si muove: perciò dobbiamo apprezzare ciò che ha fatto Sharon. Per un verso, non dobbiamo commettere l'errore di identificarlo, ora e sempre, ora e comunque, con le sue scelte del passato. Per l'altro verso, dobbiamo sapere che questo evento ha un grande valore di rottura simbolica. Non è certo una soluzione del problema palestinese, e non ne è neppure l'avvio politico - anche perché non comprende la dimensione essenziale di una trattativa vera, compiuta, con i rappresentanti del popolo palestinese. Esso tuttavia implica, appunto sul terreno simbolico, la rottura di uno schema che fino ad oggi pareva impenetrabile - lo schema della Grande Israele, della quale i coloni erano l'avamposto. Lo schema, in fondo, che sta alla radice della parola d'ordine del sionismo "un popolo senza terra, una terra senza popolo" e che ha condizionato l'intera politica israeliana, fondandola sul non riconoscimento - sostanziale - dell'esistenza, e dei diritti, dei palestinesi. Ora, questo fattore storico, che si è rivelato impediente di ogni processo di pace, è incrinato, è messo in causa - e in Israele, nella società israeliana, questo equivale a un trauma che può rivelarsi salutare e denso di conseguenze.
Non siamo alla pace, tutt'altro, ma solo ad una sua premessa, all'implicita ammissione della sua necessità, alla conquista di una condizione che prima non c'era. Nulla che garantisca un processo che sarà durissimo, faticato, pericoloso - e che ha in Ginevra il suo modello fondamentale di riferimento. Ma quando l'avversario si muove, dobbiamo avere l'intelligenza politica di cogliere, anche nei suoi limitati movimenti, il segno della possibile nostra egemonia. Alla fin fine, un tranquillo governo imperiale del mondo non sarà mai davvero possibile.


Il tranello del Grande Fratello
Claudio Rinaldi su
L'espresso

Di solito il bla bla politico dell'estate si dimentica in fretta. Per fortuna. Quest'anno tuttavia c'è una frase che va salvata dall'oblio, perché racchiude in sé le peggiori motivazioni di una stupidaggine annunciata. L'ha proferita il 15 agosto Silvio Berlusconi, nelle more di una passeggiatina fra i suoi gorilla in quel di Porto Rotondo. Rileggiamola: "Credo che tutti preferiscano avere in circolazione tre truffatori, o anche un omicida, piuttosto che sentirsi tutti prigionieri del Grande Fratello che ci sorveglia e ci può ricattare". È stata la conferma del carattere di autentica ossessione, di incubo che le intercettazioni telefoniche ormai rivestono per il premier.
Parole, le sue, dal senso fin troppo chiaro. In sintesi: 1. Le intercettazioni sono un male in sé, benché vengano autorizzate e gestite da giudici; 2. Il fenomeno ha un'estensione intollerabile, nessuno ne è al riparo ("Tutti prigionieri"); 3. Ogni magistrato, ogni poliziotto è in potenza un bieco ricattatore; 4. Le odiose, anzi "barbare" violazioni della privacy suscitano più allarme di delitti anche gravissimi, ed è salutare che sia così. Ecco la filosofia che sta ispirando l'ultima crociata di Palazzo Chigi.

Ebbene, si può capire la rabbia di Berlusconi per essere stato menzionato in alcuni colloqui, finiti sui giornali, fra affaristi senza scrupoli; si può sorridere del suo tentativo di minimizzare l'importanza di reati come le truffe, che sotto il suo governo (luglio 2001-giugno 2005) sono state ben 349 mila contro le 206 mila del quadriennio precedente. Ma nulla può giustificare la sua voglia sconsiderata di distruggere, limitandone l'uso alle sole inchieste su fatti di mafia e di terrorismo, uno strumento di indagine giudiziaria che è prezioso come pochi altri.
Non è vero, infatti, che l'obiettivo principale della campagna berlusconiana sia impedire la pubblicazione selvaggia dei testi di conversazioni intercettate. Se così fosse, accordarsi in Parlamento su una nuova legge sarebbe facile: anche il centro-sinistra, per esempio, ritiene opportuno che rimangano segretati i materiali privi di rilevanza processuale, e che quelli interessanti siano divulgati soltanto all'apertura dei dibattimenti. Ma la priorità assoluta di Berlusconi è, puramente e semplicemente, ottenere che le intercettazioni diventino pressoché impossibili. Occorre che il grossolano disegno venga sventato, giacché per risolvere un problema che non esiste rischia di crearne molti, e molto seri, alla già scassata macchina della giustizia.

Anzitutto, è falso che gli italiani siano un disgraziato popolo di spiati cronici. I dati ufficiali parlano di 183 mila intercettazioni negli ultimi cinque anni, 36.600 all'anno: una ogni 0,063 abitanti. Tutto qui. Analoga la stima dell'Istituto Max Planck, secondo cui in Italia vengono effettuate 72 intercettazioni ogni 100 mila persone. Certo in Olanda la media scende a 62 su 100 mila, in Svizzera a 32, in Austria addirittura a 9; ma soltanto da noi imperversano, oltre ai vari terrorismi, quattro grandi organizzazioni criminali (mafia, camorra, 'ndrangheta, Sacra corona unita) e una corruzione sciaguratamente diffusa. Sia come sia, la percentuale degli intercettati è tanto bassa da rendere ridicoli i toni superallarmistici di Berlusconi. Il suo è il trucchetto di sempre, misure pensate a beneficio di pochi intimi (la vipperia politico-imprenditoriale) ma spacciate per utili alle vaste masse. L'archetipo resta il decreto salva-ladri del 13 luglio 1994. Stavolta però l'inganno è davvero palese.

In secondo luogo, appare folle l'idea del premier di ridurre drasticamente il numero delle ipotesi di reato per le quali si possono disporre intercettazioni. L'elenco che oggi fa testo, dettato dall'articolo 266 del Codice di procedura penale, è estremamente ragionevole: include i reati puniti con una pena massima di oltre 5 anni, i reati contro la pubblica amministrazione con una pena massima di almeno 5 anni, i traffici di droga, armi ed esplosivi, l'ingiuria, la minaccia, la molestia, l'usura. Tutti delitti che avrebbero ottime probabilità di restare impuniti se agli inquirenti fosse proibito di intercettare qualche utenza.
È paradossale, infine, che a scatenare l'ira funesta di Berlusconi siano state le intercettazioni di chiacchierate fra uomini di banca e di finanza: Gianpiero Fiorani, Chicco Gnutti, Ubaldo Livolsi, su su fino ad Antonio Fazio. A renderle possibili, infatti, sono stati i gruppi parlamentari del centro-destra, che varando la legge 62 del 18 aprile 2005 hanno recepito una direttiva europea sulla repressione di varie forme di abuso del mercato. Come mai? Forse non si poteva dire di no a Bruxelles. O forse il presidente del Consiglio, come spesso gli accade, non sapeva su che cosa esattamente si stesse votando. Oppure lo sapeva ma se ne fregava, perché per il vituperato Grande Fratello provava ancora un'inconfessabile ammirazione: la mostruosa entità, oltre a terrorizzare 58 milioni di inermi cittadini, non dava anche il nome a un lucroso reality show di Canale 5?


   28 agosto 2005