prima pagina pagina precedente salva il testo




La Casa Bianca: "Sarà una guerra fulminante"
Ennio Caretto sul
Corriere della Sera

WASHINGTON - Non è necessario uccidere Saddam Hussein, basta che se ne vada, parola di Donald Rumsfeld. Il ministro della Difesa paragona il raìs al mullah Omar, il leader talebano scomparso sotto i bombardamenti dell'Afghanistan, e tuttora vivo come Bin Laden, a quanto riferito ieri da un suo ex diplomatico negli Emirati Arabi, Nasser Ahmed Roohi: "Se scappasse - dice Rumsfeld - Saddam Hussein non guiderebbe più l'Iraq".
Rumsfeld cerca di rassicurare gli alleati e i democratici che una guerra non significa l'eliminazione fisica del nemico, sebbene il giorno prima il presidente Bush abbia ricordato che "nel '93 Saddam Hussein cercò di assassinare mio padre".
Ma i capi dell'opposizione non si allineano alla Casa Bianca. Anzi: si presentano all'improvviso alla ribalta. Il senatore Ted Kennedy, decano dei parlamentari democratici, Bill Clinton, Al Gore, il leader del Senato Tom Daschle, il capogruppo democratico alla Camera Dick Gephardt. Il ritornello è martellante: guerra soltanto su mandato dell'Onu, e soltanto se falliscono le cruciali ispezioni del disarmo a Bagdad.

Clinton e Gore (che accusa Bush di attentare ai diritti civili con le leggi speciali antiterrorismo), Daschle e Gephardt insistono sugli stessi temi. Tre parlamentari democratici, David Bonior, Jim McDermott e Mike Thompson si recano a Bagdad, discutono con la leadership irachena in un estremo tentativo di evitare il peggio. E' chiaro che la risoluzione richiesta dal presidente al Congresso, un assegno in bianco, verrà modificata e non passerà rapidamente: Bush dovrebbe agire soltanto contro l'Iraq, non in tutta la regione, in sintonia con l'Onu; e presentare periodici rapporti sul conflitto, se scoppierà.
Per la Casa Bianca è una battuta d'arresto, ma l'amministrazione non demorde. Bush, in visita nel "suo" Stato, il Texas, si dice convinto che alla fine piegherà il Congresso, e annuncia un'azione militare "fast and furious", veloce e fulminante.
Il quotidiano Usa Today la riassume così. Bombardamenti a tappeto con missili e bombe intelligenti. Occupazione delle grandi basi militari, coi ranger con lenti a raggi infrarossi per vedere al buio e radio speciali per comunicare senza essere intercettati. Una campagna psicologica a base di manifestini e altoparlanti. Ma il New York Times e il Washington Post mettono in dubbio che questa strategia dia frutti: in due corrispondenze dall'Iraq, ammoniscono che la guerra degenererà più tardi in una guerriglia urbana, a cui le truppe Usa non sono preparate.
E' una prospettiva agghiacciante. Per allontanarla, l'America e la Gran Bretagna continuano a demolire le difese antiaeree irachene. Anche ieri hanno bombardato due postazioni nemiche nella "no fly zone" meridionale, a Qalat Sikur e a Tallil, a 200-250 chilometri da Bagdad, il quarantaduesimo attacco dell'anno. Il Pentagono si è giustificato: "Le antiaeree ci sparano addosso incessantemente".
I caccia alleati avevano da poco colpito Tallil quando sugli schermi della Tv Al-Shabab (Gioventù), da lui diretta, è comparso Uday Hussein, figlio maggiore del raìs. Uday ha accusato l'America di voler fare la guerra all'Iraq per impadronirsi delle sue risorse petrolifere. "L'obiettivo della guerra è il greggio iracheno", ha detto. Il vicepremier Tareq Aziz ha invece ammesso che l'Iraq non sarebbe in grado di attaccare Israele come rappresaglia a un'eventuale offensiva perché non disporrebbe di missili a lunga gittata.


Amo l'America ma non voglio la guerra
Edward M. Kennedy su
La Stampa

Il dibattito sull'attacco all'Iraq è diventata una questione di vita o di morte, troppo importante per essere lasciata alla politica.
Non sono d'accordo con chi suggerisce che questa impostazione non possa essere contestata vigorosamente e pubblicamente in tutta l'America.
Quando sono i figli e le figlie di questa nazione a rischiare di perdere la vita, la gente deve parlare ed essere ascoltata. C'è tuttavia una differenza fra onesto dialogo pubblico e appelli di parte.
Ci sono repubblicani e democratici che sostengono l'uso immediato della forza, ma anche altri che hanno sollevato dubbi e dissentito.
In questi gravi tempi per l'America nessuno dovrebbe avvelenare il dibattito pubblico mettendo in dubbio il patriottismo dei rivali o aggredendo chi fa proposte diverse con l'accusa di essere più interessato alla causa della politica che alle proprie tesi.
Io respingo queste accuse. Tutti dovremmo farlo.
E' possibile amare l'America pur concludendo che non è saggio, ora, andare in guerra.
Il principio che ci deve guidare è particolarmente chiaro quando ci sono vite in gioco: dobbiamo domandarci che cosa sia giusto per il paese, non per il proprio partito.
Sono convinto che usare la forza contro l'Iraq prima di sperimentare altri mezzi metterà a dura prova l'integrità e l'efficacia della coalizione internazionale che ora combatte con noi il terrorismo.
A un anno dall'avvio della campagna contro Al Qaeda, l'Amministrazione devia concentrazioni, risorse ed energie verso l'Iraq.
Questo cambiamento di priorità si verifica prima che sia stata del tutto eliminata la minaccia di Al Qaeda, prima che si sappia se Osama bin Laden è vivo o morto e prima che ci sia la certezza di un consolidamento d'autorità del governo post-taleban in Afghanistan.
Nessuno dubita che l'America abbia duraturi e importanti interessi nel Golfo, o che il regime di Saddam Hussein rappresenti un grave pericolo, che egli sia un tiranno e che la sua ricerca di armi mortali di distruzione di massa non possa essere tollerata. Saddam deve essere disarmato.
Ma come possiamo raggiungere questo obiettivo minimizzando i rischi per il nostro paese? Come possiamo ignorare i pericoli per i nostri ragazzi in divisa, il nostro alleato Israele, la stabilità regionale, la comunità internazionale, la vittoria contro il terrorismo?
C'è chiaramente una minaccia dall'Iraq, ma l'Amministrazione non ha dimostrato in modo convincente che siamo di fronte a una minaccia imminente per la nostra sicurezza nazionale e che un attacco americano unilaterale e preventivo, quindi una guerra immediata, sia necessario.
Quando quarant'anni fa si scoprirono missili a Cuba - missili molto più pericolosi per noi di quelli che Saddam ha oggi - alcuni esponenti al più alto livello di governo spinsero per un immediato attacco unilaterale.
Invece gli Stati Uniti portarono il loro caso all'Onu, ottennero il sostegno dell'Organizzazione degli Stati americani e conquistarono persino i nostri alleati più scettici. Imponemmo un blocco, esigemmo un'ispezione e insistemmo sull'eliminazione dei missili.
Quando il Presidente di allora illustrò quella scelta agli americani e al mondo, ne parlò in termini realistici: non nel senso che il primo passo sarebbe stato necessariamente il passo finale, ma con la certezza che si dovesse provare.
Come disse allora, "è necessario agire... e queste azioni possono essere solo l'inizio. Non correremo prematuramente e senza necessità il rischio di una guerra, ma neppure lo eviteremo se in qualsiasi momento lo dovessimo affrontare".
Nel 2002 anche noi possiamo e dobbiamo essere risoluti e misurati. Ora, per l'Iraq, costruiamo un sostegno internazionale, tentiamo con le Nazioni Unite, perseguiamo il disarmo prima di ricorrere al conflitto armato.


Cofferati in piazza contro la guerra
Maria Teresa Meli su
La Stampa

Sempre un passo avanti agli attuali dirigenti dell´Ulivo. Per aspettarli al varco. O sul fiume che sia, da buon Cinese. E´ stato così quando, tra le perplessità dei vertici della Quercia e lo stupore della Margherita, convocò il primo sciopero generale della sola Cgil, costringendo poi Cisl e Uil a venirgli dietro. E´ stato così quando, sfidando il tabù dell´unità sindacale e le resistenze del duo Fassino-D´Alema, nonché quelle di Francesco Rutelli, non ha firmato il Patto per l´Italia, scommettendo sulle difficoltà economiche del governo Berlusconi. E´ così di nuovo, adesso, sulla guerra. Sergio Cofferati scende in campo sostenendo la campagna di Emergency contro il "conflitto preventivo" voluto dagli Usa di George W. Bush e partecipa, in Campidoglio, a una conferenza stampa con Gino Strada per pubblicizzare l´iniziativa, che ha già raggiunto la quota di 141 mila adesioni e che culminerà, il dieci dicembre - anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell´Uomo, con una fiaccolata in molte città italiane. Questo non significa, sia ben chiaro, che l´ex leader della Cgil, si faccia condizionare in queste cose dalle contingenze della politica. Cofferati è da tempi non sospetti contrario alla guerra. Lo era anche all´epoca dell´invasione dell´Afghanistan, quando rassicurò i parlamentari del "correntone", che si apprestavano a votare in difformità alle indicazioni date dal partito, con queste parole: "Non vi preoccupate, andate avanti, vi coprirò io". Fatto sta che il caso - che in politica, però, difficilmente è solo tale - pone ancora una volta Cofferati al centro della scena politica, impegnato in una battaglia che rischia di mettere in non poche difficoltà i vertici del centrosinistra, che solo l´altro ieri, sul conflitto, sono riusciti, dopo travagli, litigi e trattative, a scrivere un documento sufficientemente generico, che riesce a mettere insieme Rutelli e Pecoraro Scanio. "Non c´è nessuna ragione - dice Cofferati in Campidoglio, prima di incontrare e abbracciare Walter Veltroni - perché un Paese come il nostro sia al fianco di chi vuole scatenare la guerra senza costrutto, senza ragione, mettendo a repentaglio milioni di vite umane". E ancora: "La politica e la diplomazia - osserva il Cinese - devono essere sempre in campo. Se si superano gli squilibri che ci sono nel mondo, è logico ed evidente che ci saranno meno tensioni. Se invece non si fa nulla è chiaro che le tensioni aumenteranno". Il "no" di Cofferati alla guerra è un "no" a 360 gradi: ci sia o non ci sia una qualche forma di avallo dell´Onu poco importa.

Una parte del correntone, facendosi forte della posizione di Cofferati, infatti potrebbe andare via. Per scongiurare un´eventuale prospettiva e la rottura con l´ex segretario della Cgil, i ds, però, potrebbero essere costretti a pagare un altro prezzo: quello di differenziarsi dalla Margherita, giacché Francesco Rutelli, è contrario alla "guerra preventiva" di Bush ma non ha lo stesso pregiudizio negativo nei confronti di un eventuale conflitto con l´appoggio dell´Onu. Ma non è finita qui. Il cuneo Cofferati potrebbe dividere la Margherita stessa, dove di pacifisti, ce ne sono, e non pochi, come ci sono simpatizzanti del Cinese (a iniziare, per esempio, da Rosy Bindi). "E´ necessario organizzare azioni di contrasto per opporsi a certe scelte dissennate della politica", dice oggi Cofferati. E lo ripeterà nei prossimi giorni. Insieme ai suoi nuovi "compagni di viaggio" - da Strada a Don Luigi Ciotti, e a padre Zanotelli - con cui finora sembra trovarsi in perfetta sintonia. Nemmeno l´aver declinato l´offerta di diventare vicepresidente di Emergency, fattagli da Strada, ha incrinato questi rapporti. Dopo quel "no" (ma sarà definitivo?), Cofferati e il chirurgo sono amici come prima: si sono visti, rivisti e organizzano iniziative insieme. Al contrario di quanto è avvenuto con Fassino, il quale, di proposte, al Cinese, ne ha fatte più d´una, per coinvolgerlo nei ds e nell´Ulivo, ma che non ha avuto ancora il bene di riuscire a incontrarlo, dal momento che il previsto faccia faccia tra i due è slittato ormai a data da destinarsi.


Il pedalò del Cavaliere
Curzio Maltese su
la Repubblica

Negli ultimi mesi, Indro Montanelli azzardò una previsione che si sta rivelando una profezia. L´unico vaccino contro Berlusconi è lasciarlo governare per un paio d´anni: gli italiani capiranno. E il segnale della fine, aggiungeva il grande Indro, arriverà quando Berlusconi sarà costretto a pronunciare la parola "sacrifici". Chissà se è davvero cominciata la fine del berlusconismo, se gli italiani hanno capito. Certo è che ieri Berlusconi ha pronunciato la parola fatidica: "sacrifici". Per la prima volta da quando è premier, anzi da quando è in politica e forse anche da quando è Berlusconi. Il "Discorso dei Sacrifici", chi non ricorda?, è stato un rito autunnale dei governi democristiani degli anni Settanta, alla vigilia dell´ennesima stangata. Rimanda a quei tempi penitenti di austerità, anni di crisi e di piombo.
Nessuno, a parte Montanelli, avrebbe mai immaginato di sentirla pronunciare un giorno da Berlusconi, sua opulenza in persona, per giunta ad appena un anno e mezzo dalla più spensierata e sognante campagna elettorale della storia, popolata di slogan ottimisti, visioni di miracoli e tanta abbondanza per tutti, come un paese dei balocchi. Di tanta speme questo oggi resta, "bisogna fare i sacrifici".
Le categorie chiamate a "tirare la cinghia" dall´uomo più ricco d´Europa sono molte e l´elenco riserva qualche sorpresa. Anzitutto gli "industriali". Berlusconi torna a chiamarli così, come appunto negli anni Settanta, accantonando termini più suadenti come "imprenditori", "mondo creativo dell´impresa". Si scopre infatti oggi che il mondo creativo dell´impresa, valore supremo del berlusconismo elettorale e minacciato dal "pericolo comunista", altro non era che una banda di parassiti industriali "favoriti in ogni modo dai regali fiscali della sinistra". Un´altra categoria destinata a fare sacrifici sono gli enti locali, comuni e regioni, alla faccia del federalismo che "comunque è in marcia". Poi verrà il turno dei pensionati, che hanno votato in massa a destra e sono giustamente ricambiati dal leader: "Non si può mantenere gente che smette di lavorare e poi campa altri decenni". Qui, più che di tirare la cinghia, si tratta di tirare le cuoia, ha commentato qualcuno. Con lo stesso humour macabro Berlusconi avrebbe più tardi liquidato la questione dei clandestini morti in mare e raccolti cadaveri con i pedalò: "I pedalò vanno bene, nessuno si è lamentato...". Una battuta che ha raggelato i presenti e che in altre nazioni civili avrebbe comportato uno scandalo inaudito. Qui è soltanto la riprova che il Cavaliere è molto stressato.
Berlusconi sembra aver perso il polso del pubblico, come dice la gente di spettacolo. Annaspa, si contraddice, proclama un ottimismo incrollabile che è smentito non soltanto dagli atti di governo ma anche dal linguaggio del premier, che comunica disperazione e impotenza. Attacca l´opposizione perché "non sa far altro che criticare" e intanto a un anno e mezzo dalla vittoria è ancora lì a lamentarsi dei governi dell´Ulivo. Nega divisioni nella maggioranza ma poi lui stesso smentisce i suoi ministri, Castelli sulle carceri, Marzano sul Mezzogiorno, Lunardi sulle opere pubbliche, mentre trascorre le giornate ad evitare che mezzo governo faccia fuori Tremonti o che Bossi e Tremonti facciano fuori mezzo governo. Declama la mattina alla Camera fedeltà e obbedienza all´America di Bush ma la sera al Senato si spaventa per i sondaggi che danno tre italiani su quattro contrari a una guerra all´Iraq. Censura con sdegno il memoriale di Mancuso, che lo accusa di essere ricattato e quasi in balia di Previti, e poi gioca tutto per tutto nella partita della legge Cirami, sfidando il Quirinale, pur di strappare Previti al suo giudice.



Berlusconi ammette la fine dei sogni
Marcella Ciarnelli su
l'Unità

Il governo è "stabile", la squadra è "affiatata", la maggioranza è "coesa". Peccato che questo clima gioioso che il presidente del Consiglio descrive convinto, contraddicendo innanzitutto quanto riportato dai giornali, ammalati a suo dire di una grave forma di "fantasia collettiva", non corrisponda alla realtà. Che problemi ci siano nella maggioranza, e tanti, lo deve ammettere lui stesso nella sala Verde di Palazzo Chigi, aperta alla stampa per un spot pubblicitario sulla sicurezza, con il ministro Pisanu a far da spalla.
Il vertice dell'altro giorno a casa sua sulla Finanziaria? Sarà stata anche una riunione tra amici ma alla fine il ministro Marzano lo hanno “segato” egualmente. Lui è uscito da Palazzo Grazioli convinto di essere il presidente del Comitato di indirizzo sui fondi per il Mezzogiorno. E Fini, rimasto qualche minuto in più a colloquio con Berlusconi, lo ha fatto fuori. Il premier non ha opposto resistenza. Anzi lancia un messaggio al suo ministro che è una pugnalata. "Capisco che Marzano pensi di poter essere lui il presidente...ma non è stata ancora presa nessuna decisione". Tutto rinviato, dunque, ad un'altra riunione di fratelli-coltelli.
Ora c'è da pensare alla Finanziaria che il 30 volente o nolente dovrà essere presentata in Consiglio dei ministri. Il premier che prima di essere eletto prometteva mari e monti è costretto ad ammettere che "non ci sono risorse", che non c'è "nessuna disponibilità" e che "la situazione è difficile". Addio sogni di gloria. Bisogna tagliare. Non si può dare. Invece chiedere. "Tutti dobbiamo fare sacrifici" insiste il premier mandando un messaggio chiaro alle Regioni che protestano per i tagli. "I contrasti saranno risolti visto che in tutte le situazioni ci sono strategie e tattiche" assicura il premier. E a tutti quelli che sono contrari alla manovra "industriali, presidenti di Regioni e sindaci" ricorda che "se bisogna incidere sulla spesa pubblica, non ci sono riforme senza toccare gli interessi di qualcuno". Hanno voglia di far la voce grossa, i sacrifici li devono fare tutti e "margini di risparmi ci sono ovunque, quindi dobbiamo responsabilizzare tutti nelle diverse situazioni". Stessero bene attenti, gli amministratori regionali. Il premier vigila. "Noi -ammonisce- intendiamo ridurre la pressione fiscale: abbiamo annunciato, per i redditi fino a 50 milioni, per le fasce più deboli, interventi per la riduzione delle aliquote. Ma se noi riduciamo le aliquote e le regioni le rialzano con l'addizionale, questo è un gioco poco serio che non si può accettare".

Governare è difficile. Berlusconi lo sta scoprendo. Specialmente quando si sono fatte tante promesse ed ora bisogna rimangiarsele. Si lamenta il premier. Delle lentezze burocratiche della pubblica amministrazione che "certe volte dico: non è possibile, ci metto del mio e lo faccio fuori dalle capacità dello Stato". Ci sono tutti quegli enti inutili, che non producono niente, dove c'è "gente che non lavora e viene pagata lo stesso". E poi c'è quell'obbiettivo di far scendere al 33 per cento del Pil il costo dello Stato, difficile da raggiungere sempre per colpa della montagna di debiti che ha avuto in eredità. Per non parlare della marcia indietro che è costretto ad ordinare a tutti i suoi ministri tecnici perché di grandi opere e di informatizzazione non è proprio il caso di parlare con i tempi che corrono.
Dice di essersi svegliato male il premier. E nega anche di essere uno a cui piace raccontare barzellette. "Io non ne racconto, anzi disistimo coloro che le raccontano. Io uso degli apologhi per scolpire meglio dei concetti". Emerge l'animo del venditore: "Lo spirito serve affinché il concetto non venga dimenticato. È una vecchia tecnica che uso da quando cercavo di entusiasmare gli uomini che collaboravano alla mia attività d'imprenditore". Gli italiani sono avvertiti.


L´inflazione sale al 2,6%, la produzione è "ancora piatta"
Gian Carlo Fossi su
La Stampa

L´inflazione sale a settembre dello 0,2% su base mensile e del 2,6% su base annua (contro il 2,4% ad agosto) toccando il livello più alto da gennaio 2002, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti aumentano ad agosto rispetto a luglio del 2,5% in linea con l´andamento dei prezzi, il numero delle ore di lavoro perdute per scioperi negli ultimi otto mesi schizza a 25 milioni con un incremento del 475% rispetto allo stesso periodo dell´anno precedente. E´ lo scenario, per alcuni aspetti non poco inquietante, che emerge dai principali dati della nota congiunturale resa nota ieri dall´Istat, mentre dall´ufficio studi di Confindustria arriva un´altro segnale d´allarme: la produzione industriale a settembre risulta "ancora piatta", con un indice stazionario rispetto ad agosto (+0,1%), nonostante che i preconsuntivi della stessa ricerca indicavano un incremento congiunturale dello 0,8%. Per l´inflazione i dati dell´Istat, calcolati sul 71% delle città e sull´80% della popolazione, confermano le stime delle metropoli campione, aggiungendo che a fronte di un aumento tendenziale su base annua del 2,6% nel nostro Paese l´indice armonizzato europeo registra un balzo in sù del 2,8% sempre su base annua. I rialzi mensili maggiori rilevati su territorio nazionale si riscontrano nell´istruzione (+1,9%), nell´abbigliamento e nelle calzature (+0,5%), nei prodotti alimentari e nelle bevande alcoliche (+0,3%) e nel capitolo abitazione-acqua-elettricità-combustibili. Gli incrementi più contenuti si rilevano nelle bevande alcoliche e nei tabacchi, nei mobili, negli articoli e servizi per casa e ricreazione, negli spettacoli e nella cultura, tutti con +0,1%. Crescita zero per le comunicazioni, unica flessione nei trasporti con -0,5%. A livello tendenziale gli aumenti maggiori si hanno negli alberghi-ristoranti-pubblici esercizi (+4,8%)), nell´istruzione (+3,7%), negli altri beni e servizi (+3,3%), nella ricreazione e negli spettacoli (+3,2%). Ad agosto l´indice delle retribuzioni contrattuali orarie dei lavoratori dipendenti cresce dello 0,3% su base mensile e del 2,5% su base annua, ma l´incremento registrato nel periodo gennaio-agosto, rispetto al corrispondente periodo dell´anno precedente, è invece pari al 2,6%. L´aumento congiunturale deriva, spiega l´Istat, dall´applicazione dell´istituto di vacanza contrattuale per i dipendenti regolati dal contratto delle assicurazioni e dall´entrata in vigore di alcuni nuovi accordi come quelli degli operai del´agricoltura, delle forze armate e di polizia, deel personale delle scuole private religiose. Alla fine di agosto erano in attesa di rinnnovo 32 accordi collettivi nazionali, che rappresentano in termini di monte retributivo il 37,8% di quelli osservati e riguardano 4,1 milioni di dipendenti. L´aumento del 475% delle ore perdute (25 milioni) per conflitti di lavoro nei primi otto mesi dell´anno è dovuto per il 91,2% a vertenze non originate dal rapporto di lavoro, che invece sono concentrate nei mesi di gennaio per 3,5 milioni di ore e di aprile per 16,1 milioni di ore. Le ore perse per motivi originati dal rapporto di lavoro (2,2 milioni) sono state determinate prevalentemente da rivendicazioni economico-normative (827 mila) e da vertenze per rinnovi contrattuali (424 mila), ma comunque risultano diminuite del 48,9% in confronto allo stesso periodo del 2001. Il maggior numero di ore perdute per conflitti di lavoro si riscontra nel settore metallurgico-meccanico e in quello del credito.




Formiche e cicale
Luigi Pintor su
il Manifesto

Chi era Luigi Einaudi? Un economista stimato che fu anche un presidente della Repubblica discutibile, il quale mi pare sostenesse che bisogna risparmiare e che il risparmio, il piccolo risparmio in specie, è la molla dell'economia. Magari perché i governi e le banche lo rastrellavano e lo reinvestivano felicemente per il bene comune. Chi è Silvio Berlusconi? Un economista stimato soprattutto per quel che riguarda gli affari suoi, che è anche un presidente del consiglio discutibile e speriamo non sia mai un presidente della Repubblica discutibile, il quale sostiene che non bisogna risparmiare bensì spendere e consumare, essendo il consumo la molla dell'economia in quanto la domanda sostiene l'offerta e viceversa ed entrambe congiurano al bene comune.
Vorrei che gli esperti di macro e micro economia mi spiegassero questo divario di opinioni, magari Galapagos, o un altro premio Nobel, il prof. Modigliani o il governatore Fazio, o il signor Schumpeter che però forse non è più in vita. Certo il mondo è in rapidissima evoluzione, gli spiriti animali del capitalismo non hanno requie, come si vede anche dall'andamento delle borse, perfino Carlo Marx si troverebbe in serio imbarazzo. Anche la matematica è un'opinione, del resto, figuriamoci l'economia.
Ma che cosa vorrà mai dire, non risparmiate ma spendete e consumate? Capisco che venga detto da un mercante in fiera, in un suq, a porta portese, da un venditore di almanacchi, da un petroliere che si guadagna da vivere. Ma cosa devo comprare e perché? E tu cosa mi vendi e perché? Devo comprare un pedalino al giorno, un'automobile di cilindrata superiore, la quinta casa? Devo fare indigestione di caviale? Così pare. Quando sono crollate le due torri la preoccupazione principale è stata che lo shopping continuasse con maggior lena di prima anche tra le macerie per tenere alto il morale, ossia i consumi e la produzione, ovvero la produzione e i consumi, questa fantastica macchina autopropulsiva che se si ferma tutto è perduto. Dove va nessuno lo sa, salvo i bidoni della spazzatura.
Non mi persuade. Essendo di poco appetito, quando ceno in una trattoria spreco una quantità di cibo che moltiplicata per alcuni milioni di commensali abituali basterebbe a una generazione. Non c'è dubbio che ognuno ha diritto alla felicità e che questo spreco glorioso, questa libertà duratura dal bisogno e dalla nausea, appaga esercenti, clienti, agricoltori, gastroenterologi e molta umanità. E se giova all'economia non può essere considerato immorale, perché l'homo è sapiens in quanto faber ed oeconomicus.
Però non è tanto bello, non funziona già tanto bene e non si sa come andrà a finire. A occhio e croce, preferisco la parsimonia di Luigi Einaudi alla crapula di Silvio Berlusconi anche perché il primo non faceva un'orrenda televisione ma un buon vino. Ma è inutile scegliere, il difetto è nel manico. Un direttore del giornale dove lavoravo da ragazzo scrisse un articolo che finiva così: è pur bello essere comunista! Sbagliato, non è così chiaro. Ma quant'è brutto essere capitalista.


Veneto bloccato, unità di crisi per la tangenziale
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

Prendete nota: 386 milioni di euro. Pari a 747.400.220.000 di vecchie lire. Ecco quanto costa ogni anno in soldoni, secondo uno studio degli industriali di Treviso, l'ingorgo cronico sulla Tangenziale di Mestre. Dieci anni di ciacole: settemila miliardi persi. Potevano farci un passante largo, uno stretto, due tunnel, una sopraelevata e ingentilire tutto con aiuole, tulipani e ficus beniaminus. Invece siamo sempre lì: in coda. Una coda ogni giorno più grande, asfissiante, disperata. Al punto che il sindaco veneziano Paolo Costa, ieri, è arrivato a proporre una "sala crisi" come premessa all'estremo gesto: la richiesta al governo dello stato di emergenza per calamità naturale. Calamità sì. Ma naturale... Erano anni che quelle quattro striminzite corsie su cui si sovrappongono ogni giorno il traffico locale dei mestrini, quello dei viaggiatori in transito sull'asse Torino-Trieste e gran parte del traffico di camion che regge il sistema industriale del Nordest, davano crescenti segni di collasso. Anni. Durante i quali la corrente ininterrotta di auto e di tir si è gonfiata fino a sfondare ogni previsione: oltre 120 mila mezzi al giorno con punte di 180 mila.
Una marea montante. Di smog, imprecazioni, polvere. Che come tutte le maree tracima nelle strade vicine e via via allaga di lamiere, bestemmie e puzza di cherosene tutta l'area. E come l'acqua alta, che una volta invadeva piazza San Marco 7 volte l'anno e oggi lo fa una quarantina con punte di ottanta, anche questa puzzolente marea si è fatta di anno in anno più gonfia. Basta un tamponamento, un battibecco tra automobilisti, una strozzatura per lavori ed è la paralisi.

Eppure, a parte il rattoppo rappresentato dalla decisione di allargare il più possibile le carreggiate esistenti abolendo la corsia d'emergenza (auguri, dicono i grilli parlanti: chissà cosa succederà al primo incidente grave...) non si è ancora visto un solo colpo di badile, un solo secchio riempito di cemento, un solo cavalletto a righe biancorosse. "Ci siamo, ci siamo", giura il presidente regionale forzista Giancarlo Galan. Il 9 agosto 2001, spiegando ai cronisti che per le opere venete c'erano a disposizione "18 mila miliardi di lire", Berlusconi era stato ultimativo: "Aspetto le dimissioni di Lunardi e Galan se entro un anno non riusciranno a dare il via ai lavori". Un anno e due mesi dopo, tutto pare sospeso.
Falso, ha tuonato il governatore: "Abbiamo fatto più noi in un anno che l'Ulivo in cinque". "Ciacole, ciacole, ciacole", gli ha risposto il sindaco ulivista Paolo Costa: "Non c'è una promessa che sia stata mantenuta". Replica: "Chi mi attacca su questo tema ha la faccia come il c...". Controreplica: "La verità è che siamo tornati alle scelte già fatte nel 1998. Parliamoci chiaro: qui non si salva nessuno. Nes-su-no. E' impantanato oggi il governo berlusconiano, era impantanato ieri il nostro. Resta il fatto che, per tutti questi lavori, non c'è un cent. E non c'è traccia di un cantiere aperto".
Qual è il guaio supplementare? Il tempo rumina dubbi. E mentre boccheggia la doppia scelta del passante largo e del tunnel (doppia scelta in cui i nemici vedono una spaccatura nella Casa delle Libertà) s'assiste al quotidiano rilancio delle opzioni accantonate. E c'è chi ripropone la tangenziale aerea che dovrebbe correre nel cielo sopra quella attuale. Chi chiede il recupero del progetto dei "bivi" e cioè del raccordo lungo i binari di una ferrovia semi-abbandonata. Chi invoca il doppio tunnel che i norvegesi sono così sicuri di poter fare in tre anni secchi (ad un prezzo nettamente inferiore a quello della bretella) da offrirsi di pagare 150 mila euro (300 milioni di vecchie lire) per ogni giorno di ritardo.
Come andrà a finire? Qualcosa di più si saprà oggi. Dopo l'incontro di Giancarlo Galan e Rocco Buttiglione con il commissario europeo al mercato interno Frits Bolkestein. Tema: una bretella di 32 chilometri è "una semplice variante" della rete autostradale esistente o un pezzo di autostrada nuovo? I nostri sono per la prima ipotesi, Bruxelles per la seconda. E dunque chiede una gara europea al posto della concessione a trattativa privata. Vada come vada, nel migliore dei casi il nuovo tracciato sarà pronto fra otto anni. Ma i pessimisti la vedono ancora più nera. Passerà lento, tutto questo tempo. Molto lento.


Ma la rete non risolve i guai della democrazia
Giovanni Valentini su
la Repubblica

Scoppiata ormai la bolla speculativa sulla "new economy", cadute le aspettative sulla crescita esponenziale delle cosiddette "dot-com", si ridimensionano anche le speranze sulla portata rivoluzionaria di Internet, sulla sua capacità di innescare e alimentare una nuova forma di "democrazia elettronica" attraverso l´ampliamento dell´informazione, della comunicazione e quindi della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Quello che sembrava destinato a diventare un grande strumento di emancipazione civile, al limite del caos o dell´anarchia, rischia ora di apparire una gabbia, una camicia di forza, con la minaccia di riprodurre schemi, vincoli e limiti del vecchio sistema mediatico. Dalla Rete che libera, insomma, stiamo passando alla rete che cattura?
Probabilmente, le delusioni di oggi sono eccessive e sbagliate come lo erano le illusioni di ieri. Né la crisi delle Borse mondiali né le resistenze di certe élites culturali riusciranno a fermare lo sviluppo di Internet nel futuro prossimo dell´umanità. E soprattutto per i Paesi più poveri, penalizzati dal gap economico, sociale e tecnologico, la Rete continuerà a rappresentare uno straordinario volano di progresso per ridurre le distanze dai Paesi più ricchi del mondo.
Ciò non toglie, tuttavia, che sia giusto adesso riflettere sulle prospettive della rivoluzione digitale, se non altro per non ripetere gli errori del passato e magari anche per individuare rimedi o correttivi. E allora: "Internet fa bene alla democrazia. O no?". Per cercare di rispondere a questo interrogativo, formulato in termini volutamente provocatori da Karina Laterza, si sono ritrovati nei giorni scorsi intorno al tavolo dell´Arel politici e giuristi, come Giuliano Amato e Stefano Rodotà; parlamentari e imprenditori, come Enrico Letta, Luigi Abete e Francesco Merloni; giornalisti e uomini di cultura, come Giancarlo Bosetti e Paolo Franchi.
L´occasione era offerta dalla pubblicazione di un libro di Sara Bentivegna, intitolato "Politica e nuove tecnologie della comunicazione", edito recentemente da Laterza. E per chi voglia approfondire le questioni aperte nel campo della cyberpolitica, si tratta di un volume che esamina l´uso effettivo della Rete da parte degli elettori, dei movimenti e dei governi, con un ampio corredo di dati, grafici e tabelle. Il quadro che ne emerge riflette un´immagine della politica che, approdata nel mondo di Internet, non sembra averne compreso pienamente i codici né tantomeno la portata innovativa, con la tendenza anzi a replicare le sue abitudini e i suoi vizi in versione digitale: basti dire che, nelle ultime elezioni italiane del 2001, soltanto 552 candidati avevano approntato un sito, pari a un modesto 13,1 per cento, ma per lo più in forma di vetrina o di bacheca senza nessun interesse e funzionalità per gli elettori.
Ora è certamente vero, come avverte Amato, che "bisogna guardare più al futuro che al presente", nel senso che occorre superare gli scetticismi iniziali sulla democrazia elettronica per fare uno sforzo di fantasia. E quindi, immaginare che cosa può significare la diffusione di Internet in Paesi dominati da regimi autoritari come per esempio la Cina, l´Iran o l´Iraq: non è un caso, del resto, che proprio qui la Rete venga sottoposta a censura o sia addirittura vietata.
Ma, senza andare troppo lontano, basta osservare quello che succede a casa nostra, sotto i nostri occhi, con i nostri figli che non sentono il bisogno di iscriversi ai partiti e ancor meno di frequentare le loro sedi, per rendersi conto che le nuove generazioni vivranno sempre più la loro dimensione politica o civile proprio sulla Rete, on line, in tempo reale, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. Dalla protesta dei no-gobal ai girotondi di Nanni Moretti, Internet è nel bene e nel male il motore dei movimenti; il canale privilegiato di comunicazione, aggregazione e mobilitazione; l´equivalente virtuale delle vecchie sezioni di partito e forse anche delle parrocchie. Con questa nuova realtà, piaccia o non piaccia, la politica dovrà fare i conti.
Il fatto è che la Rete rappresenta, per sua natura, un circuito alternativo rispetto a quelli tradizionali, con un suo codice, un suo linguaggio e un suo sistema di valori. E´, per così dire, uno strumento individuale di comunicazione di massa. Implica necessariamente l´interattività e quindi presuppone, da parte dell´uomo politico, una maggiore disponibilità al dialogo, al confronto, alla critica. Ed è perciò che il rapporto digitale, come osserva acutamente Rodotà, "rimette in discussione ogni giorno la delega sul piano della rappresentanza".
Se la politica riuscirà a interpretare correttamente questo spirito di Internet, avrà senz´altro tutto da guadagnarne in termini di trasparenza e di vitalità. Più circolazione delle idee, più partecipazione e dunque più democrazia. Ma la condizione fondamentale è che la responsabilità pubblica, a cominciare dal mandato parlamentare, ritrovi la propria funzione più autentica: la politica al servizio del cittadino e non il cittadino al servizio della politica.



   28 settembre 2002