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Dossier Blair su Saddam
Paolo Passarini su
La Stampa

Nel presentare ieri l´annunciato dossier del governo su Saddam Hussein, Tony Blair ha sottolineato "l´urgente bisogno di agire". Il primo ministro britannico ha messo in evidenza come "la pubblicazione di un simile documento da parte del governo non abbia precedenti". "Ma - ha spiegato - alla luce del dibattito sull´Iraq e sulle armi di distruzione di massa, volevo condividere con il pubblico britannico le ragioni per cui considero questo problema un´attuale e seria minaccia all´interesse nazionale del nostro Paese". Insomma, dopo essere riuscito a riassorbire lunedì buona parte dei mugugni all´interno del governo sull´ipotesi di un´azione militare contro l´Iraq, Blair ha aperto ieri la sua campagna per conquistare alla causa dell´intervento armato un pubblico che resta ancora molto critico. Un sondaggio realizzato ieri per il "Guardian" dall´Imc ha confermato che il 46% degli inglesi è contro l´azione militare, sostenuta dal 37%. Il rimanente 17% raggruppa gli indecisi. Blair, se non altro, si può consolare del fatto che l´ostilità all´intervento non cresce sebbene se ne avvicini la possibilità. Inoltre la conquista degli indecisi potrebbe consentire di ribaltare la maggioranza, impresa possibile visto il riflesso patriottico che normalmente scatta in Gran Bretagna in caso di guerra. Ma non sembrano poter essere le rivelazioni contenute nel dossier di 50 pagine presentato ieri a far cambiare idea al pubblico. Il dossier non è affatto inconsistente, ma non contiene sostanziali novità. Conferma che Saddam ha cercato di procurarsi (in Africa) il materiale fissile necessario per costruire una bomba atomica e che, se ci riuscisse, potrebbe averla anche in un anno. Conferma che l´Iraq continua la produzione di agenti chimici e biologici, applicandosi anche alla messa a punto di piani per il loro uso. Conferma che, in violazione delle risoluzioni Onu, Saddam conserva almeno 20 missili Al Hussein con una gittata di 650 chilometri. In aggiunta a questi dati, già sostanzialmente anticipati da una ricerca dell´Istituto di Studi Strategici Internazionali di due settimane fa, il dossier governativo sostiene che Saddam ha anche ordinato la costruzione di missili balistici con una gittata di più di 1000 chilometri. Il ministro della Cultura iracheno, Yousif Ummadi, ha definito il dossier "privo di basi" e frutto di "una campagna sionista". Ummadi ha aggiunto che "gli ispettori dell´Onu possono andare dovunque vogliono in Iraq" e ha esteso l´invito a ispettori britannici. Blair ha ripetuto che non si tratta, adesso, di decidere un´azione militare "su due piedi", ma di assicurarsi il disarmo dell´Iraq attraverso l´opera delle Nazioni Unite. Ormai, però, questo ragionamento viene sempre più spesso accompagnato dalla sottolineatura della necessità di agire comunque. Come ha detto ieri il leader conservatore Iain Duncan Smith, salutando la pubblicazione del documento e la determinazione di Blair, "Saddam ha già avuto anche troppe seconde possibilità". Questa, tuttavia, non è l´opinione di tutta la Camera dei Comuni, riunita ieri in una seduta straordinaria che non prevedeva voti. L´ostilità a un intervento armato di una buona fetta del Labour, oltre che dei Liberaldemocratici, si è fatta sentire. Una mozione contro l´intervento militare è stata comunque bloccata. Ma oltre 160 parlamentari, per la maggior parte iscritti al partito laburista, hanno prodotto un documento nel quale si esprime un "profondo disagio" per il favore espresso dal governo all´eventuale attacco sull´Iraq. Ieri sera, poi, Blair si è imbarcato in un delicatissimo lavoro diplomatico di ricucitura, ricevendo a cena l´appena rieletto cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.



Al Gore attacca Bush
Franco Pantarelli su
il Manifesto

E' rispuntato Albert Gore e con un discorso contro la campagna di George Bush sull'Iraq perfino più violento di quello famoso che pronunciò al momento di cedere alla Corte Suprema che stava "regalando" la Casa Bianca al suo avversario. Con la sua iniziativa, ha detto, Bush ha operato in modo da "compiacere quella porzione della sua base che occupa l'estrema destra, a scapito della solidarietà fra tutti noi in quanto citadini e a scapito della solidarietà fra il nostro Paese i nostri alleati". L'attacco dell'11 settembre "non è stato ancora vendicato", ma Bush preferisce prendersela con l'Iraq perché "Saddam Hussein è un bersaglio più facile di Al Qaeda". Gore, oltre tutto, ha le carte in regola perché all'epoca della Guerra del Golfo, quando era senatore, fece parte del piccolo drappello di democratici che votò in favore della "Tempesta nel deserto". Non era dunque "il solito pacifista" a ricordare che "è impossibile vincere contro il terrorismo se non si assicura la continua, sostanziale cooperazione di molte altre nazioni". Agendo come Bush, invece, "la nostra capacità di assicurare quel tipo di cooperazione nella guerra contro il terrorismo può essere severamente danneggiata dal modo in cui intraprendiamo un'azione unilaterale contro l'Iraq". E qui Gore ha fatto l'esempio della Germania, quasi a fissare per bene la differenza con un'amministrazione che non è neanche capace di sopportare che un "amico leale e di lunghissima data" abbia un'opinione diversa dalla sua. Ma la stoccata forse più brutale di Gore è stata la sua ricostruzione del post-11 settembre. Immediatamente dopo l'attacco, ha detto, "avevamo un'enorme riserva di buona volontà, di solidarietà e di offerte di aiuto provenienti da tutto il mondo. Tutto questo è stato sperperato nel giro di un anno e sostituito da una grande ansia in tutto il mondo, non più principalmente riguardo a ciò che i terroristi faranno ma riguardo a ciò che noi faremo". Gore parlava al Commonwealth Club si San Francisco, organizzazione "non partisan" esistente dal 1903 dove recentemente ha parlato anche George Bush. Non potrebbe questo discorso pregiudicare la sua campagna presidenziale, sempre che decida di candidarsi?, è stato chiesto a Gore subito dopo. "Non lo so e francamente non mi importa", è stata la sua risposta. "Ho detto solo ciò che mi sembrava giusto dire". Ma il sospetto è che la sua uscita sia stata molto più "calcolata". Le questioni da lui poste, infatti, sono le stesse che da settimane circolano - al di là del patriottismo ignaro - in molti ambienti "qualificati", sicché l'idea è che Gore stia cercando di "coagulare" questi ambienti per scongiurare quello che potrebbe essere un disastro. Era una coincidenza, ma proprio mentre lui parlava a San Francisco, all'altro capo del Paese e cioè a Washington, tre generali che fino a poco tempo fa avevano elevatissime responsabilità (l'ex capo degli stati maggiori riuniti John Shalikashvili, l'ex comandante della Nato Wesley Clark e l'ex capo del comando centrale Joseph Hoar) stavano dicendo più o meno le stesse cose di fronte alla commissione Forze Armate della Camera che ha anche "quantificato" l'eventuale costo dell'avventura irachena. Si va dai 30 ai 60 miliardi di dollari (la stessa somma spesa l'altra volta con una differenza importante: che allora i quattro quinti di quel costo furono coperti dagli alleati, mentre stavolta pagherebbero solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna). Ma la somma di 60 miliardi di dollari prevede un'operazione "mordi e fuggi" di non oltre 30 giorni, mentre molte analisi dicono che per realizzare gli obiettivi di Bush - rovesciamento di Saddam, sostituzione con un governo "democratico", eccetera - comporteranno una presenza prolungata di decine di migliaia di soldati e difficoltà enormi (del tutto ignorate da Bush) provenienti dai forti legami con l'Iran che gli sciiti iracheni mantengono ed anzi hanno incrementato grazie alla "no fly zone" del Sud assicurata da americani e inglesi e la semi-indipendenza da Baghdad di cui i curdi stanno già godendo, grazie alla "no fly zone" del Nord.



Ciampi: "Onu e Ue per risolvere le crisi"
Vincenzo Vasile su
l'Unità

L'indomani del fallimento del vertice di Copenaghen, alla vigilia dell'intervento di Berlusconi in Parlamento, Carlo Azeglio Ciampi al fianco del suo collega austriaco, Thomas Klestil, fissa i paletti di una posizione italiana antitetica rispetto alla manfrina dello scontro - smentito ma non troppo - del premier italiano con Chirac sulla politica del "primo colpo" di Bush.
Dal Quirinale, nel primo giorno della visita di Stato del rappresentante di Vienna in Italia, viene diffuso, infatti, un catalogo stringente di questioni, che partono dalla "estrema preoccupazione", comune ai due presidenti, "per la situazione in Medio Oriente e per le tensioni internazionali".
1) A Bush e a Sharon: "In Medio Oriente non sono ammesse soluzioni di forza a problemi squisitamente politici", scandisce Ciampi, riassumendo così davanti ai giornalisti il contenuto dei colloqui con cui si è inaugurata la "tre giorni" di Klestil nel nostro paese.
2) Ai dirigenti d'Israele, in particolare: "Privare della libertà di movimento e di relazioni il presidente Arafat non aiuta né la causa della pace, né quella della sicurezza di Israele".
3) Alla comunità internazionale, si fa presente, poi, che affermare tutto ciò non implica per nulla un'attenuazione della "lotta al terrorismo criminale, che condanniamo fermamente". E semmai comporta una valorizzazione e un rafforzamento del ruolo delle "istituzioni internazionali, in particolare le Nazioni Unite". Che devono far la loro parte, sviluppando un'azione "stringente" che non consenta di invalidare le decisioni dell'Onu.

Da Parigi, nelle stesse ore ha riecheggiato queste posizioni, che sembrano voler riequilibrare la posizione e l'immagine dell'Italia nel consesso europeo, il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini.
E la sua sintonia col Quirinale torna anche stavolta a saltare agli occhi: "Guai a pensare il futuro dell'umanità - dice - senza gli organismi internazionali". Niente atti unilaterali, né "first strike" bush-berlusconiani, insomma, lascia intuire: l'Onu deve avere un ruolo cruciale nella crisi con l'Iraq, anche se è vero che questo ruolo "deve meritarselo" facendo rispettare le sue risoluzioni.
Il che, letto in chiave di politica interna, significa un altro brusco strattonamento per il premier da parte di un alleato della coalizione di maggioranza giusto a poche ore dal dibattito in Parlamento.
In vista di questa scadenza - in accordo con la sotterranea "moral suasion" di Ciampi - Casini raccomanda, se non un improbabile esito bipartisan ("Non si saprebbe su che cosa votare"), una volontà comune di evitare asprezze.
Ma non si sa come tutte queste raccomandazioni si accordino con le simpatie, ripetutamente confessate dal presidente del Consiglio, per le guerre preventive.


Una scorciatoia chiamata Germania
Paolo Franchi sul
Corriere della Sera

La sinistra che in questi anni ha governato in Europa perde dappertutto, si diceva fino a qualche settimana fa: dove ha fatto le 35 ore come in Francia e dove ha alzato la bandiera della flessibilità come in Olanda, non solo nell'Italia della Bicamerale. Poi è arrivato il successo socialdemocratico in Svezia: un segnale in controtendenza, non c'è dubbio, ma troppo flebile, troppo solitario, troppo lontano per riscaldare più di tanto i cuori. Domenica, però, è capitato qualcosa di molto, ma molto più significativo. Sia pure di un soffio (ma questa, in democrazia, non è una stranezza) la coalizione rossoverde si è imposta in Germania, capovolgendo le previsioni più accreditate nei mesi scorsi, tutte favorevoli a Edmund Stoiber. Ce n'è abbastanza, ovviamente, perché anche il centrosinistra italiano, un po' come tutte le sinistre europee, tiri il fiato, e saluti in Gerard Schröder e Joschka Fischer i leader che si sono dimostrati capaci, per dirla con Massimo D'Alema, di "fermare il vento di destra, restituendo speranza ai socialisti e a tutti i riformisti". Fin qui, ci mancherebbe, niente di strano: in politica, proprio come nel calcio, le vittorie, tutte le vittorie, fanno morale. Le cose, però, cominciano a ingarbugliarsi quando si tratta di interpretarle, e di stabilire quale insegnamento trarne. I giudizi più sensati, sinora, li abbiamo letti in due interviste pubblicate dall' Unità , la prima a Daniel Cohn-Bendit, la seconda al politologo Angelo Bolaffi. Dice l'ex leader del Maggio francese, che oggi è un maturo europarlamentare verde: "La coalizione rossoverde ha vinto perché ha funzionato come un'alleanza, mentre in altri Paesi le forze della sinistra perdono la metà del loro tempo a criticarsi l'un l'altra". Sostiene Bolaffi: è vero, Schröder non è riuscito a ridurre la disoccupazione a tre milioni e mezzo di persone, ma la coalizione ha vinto ugualmente perché la maggioranza si è riconosciuta soprattutto nei valori di cui la coalizione è portatrice. Che sono, in sintesi estrema, la solidarietà, l'ambientalismo, il pacifismo.
Banalità? Mica tanto. Una sinistra e un centrosinistra che volessero trarre partito dalla lezione tedesca potrebbero, magari, prendere le mosse proprio da un paio di domande all'apparenza elementari, ma in realtà assai puntute.
La prima: è possibile, e come, ridurre un tasso di litigiosità interno così elevato, così autodistruttivo e, diciamo la verità, così incomprensibile e così insopportabilmente tedioso per l'elettorato che si dovrebbe mobilitare?
La seconda: è possibile, e come, mettere in campo, più che un dettagliato programma o un ambizioso progetto (se ne sono scritti a migliaia e non hanno mai entusiasmato nessuno) un sistema di valori o, più prosaicamente, un pensiero, un'idea di Paese condivisibili dalla maggioranza degli italiani?
Non interessa, in questa sede, analizzare la proposta politica sulla cui scorta Schröder è tornato cancelliere. Interessa piuttosto mettere in rilievo che proprio nella mancata risposta in Italia a questi interrogativi risiede il motivo principale sia di una sconfitta elettorale scontata nonostante il centrosinistra non avesse malgovernato sia delle persistenti difficoltà a ritrovare, dall'opposizione, il bandolo della matassa.
Che si tratti di risposte difficili, non c'è dubbio. Ma non c'è dubbio neanche sul fatto che se non le trova (in Italia, non in Germania), e se anzi non le cerca nemmeno, il centrosinistra ben difficilmente verrà a capo dei suoi guai.
La sinistra italiana di un tempo concludeva assai poco, per tanti motivi, ma nutriva (sin troppo) l'orgoglio di pensare in grande, e dispensava lezioni un po' a tutti. Nessun rimpianto per il passato, ci mancherebbe. Non sarebbe male, però, se ritrovasse almeno un pizzico delle antiche ambizioni. E, per cominciare, smettesse di credere che, per vincere, basti mobilitare il proprio mondo contro Berlusconi, e incrociare le dita nella speranza che qualcuno, da qualche altra parte d'Europa, abbia finalmente trovato la scorciatoia giusta.


Il realismo dell'Europa
Massimi Giannini su
la Repubblica

"SE l'Italia non raggiunge il pareggio di bilancio nel 2003 mi dimetto", aveva promesso un euforico Giulio Tremonti dopo il trionfo alle elezioni di un anno fa. Ora il ministro del Tesoro può tirare un sospiro di sollievo. L'Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio, ma lui non sarà obbligato a dimettersi. Ci ha pensato la Commissione europea, a lanciargli una ciambella di salvataggio. Proprio al culmine di una delle settimane più agitate per l'economia e per la finanza pubblica. I Quindici hanno ottenuto una "proroga": per azzerare i deficit pubblici hanno tempo, tutti, fino al 2006.
Quella che arriva da Bruxelles è prima di tutto una novità positiva per l'Europa. Concedendo agli Stati membri uno "sconto" di altri due anni sull'obbligo del pareggio di bilancio, Romano Prodi e Pedro Solbes danno un segnale di realismo politico e di buonsenso economico. Ancora una volta, le tanto esecrate "tecnocrazie", autoreferenziali e nemiche dei popoli, si dimostrano più lungimiranti di altri organismi "elettivi". Il realismo politico nasce da una previsione. La vittoria stentata di Schroeder alle elezioni tedesche renderà più instabili le prospettive della governabilità e quindi più incerte le aspettative sull'economia.
Questo rafforzerà le pressioni congiunte dei giganti malati, Germania, Francia e Italia, per esigere una modifica del Patto di stabilità. In queste condizioni, mollare su uno degli atti fondativi dell'Europa di Maastricht sarà un colpo mortale all'Unione. Con la mossa di ieri, Prodi e Solbes giocano d'anticipo e scongiurano questo pericolo. Lo spiega bene il presidente della Commissione: "Abbiamo voluto dare un'interpretazione autentica e oggettiva del Patto, per non trovarci il quadro progressivamente "smangiato", un brandello alla volta, fino all'esaurimento". Detto in modo ancora più chiaro, l'accordo implicito che Prodi e Solbes offrono ai partner è questo: la Commissione tiene conto del ciclo negativo, e concede di attenuare nel tempo la morsa del risanamento, ma gli Stati membri rispettino il Patto, e d'ora in poi evitino di rimetterlo quotidianamente in discussione.
Il buonsenso economico nasce da una constatazione. Nel mondo non c'è traccia di ripresa. Ad agosto l'economia americana ha accusato la terza caduta consecutiva. L'Europa quest'anno avrà una crescita media inferiore all'1%. Almeno quattro Stati membri viaggiano sul crinale di un rapporto deficit/Pil al 3%. In questo scenario, il pareggio di bilancio imposto nel 2003 all'Italia, e nel 2004 a Germania, Francia e Portogallo, diventa un obiettivo irrealistico. Mantenerlo comunque, senza tener conto della congiuntura, diventerebbe un "accanimento terapeutico" inutile e insensato. Questa Europa ha bisogno di regole certe e condivise, non di feticci formali e dogmatici. Di qui, la decisione di rinviare per tutti, al 2006, il traguardo con l'azzeramento del deficit.
Il saldo finale dell'operazione è attivo. L'Europa politica ci guadagna in stabilità, ottenendo dai partner un nuovo ed implicito "voto di fiducia" su un vincolo pattizio fondamentale per il futuro dell'Unione. L'Europa economica ci guadagna in crescita, potendo contare su una "lettura" flessibile degli effetti del ciclo sui bilanci dello Stato. Una strategia che, se non libera enormi risorse aggiuntive per lo sviluppo, quanto meno non ne sottrae. Non a caso Carlo Azeglio Ciampi, uno dei padri fondatori dell'Unione monetaria, è soddisfatto. E a chi gli chiede un giudizio sulla scelta di Bruxelles ricorda un aneddoto: "Quando trattammo la nascita della Uem, una delle mie battaglie più convinte fu proprio quella di far aggiungere, alla sigla "Patto di stabilità", anche la postilla "e di crescita"". Lo sconto sul close to balance annunciato da Prodi oggi, in fondo, è un passo coerente con quella battaglia che Ciampi aveva vinto ieri.
Quella che arriva da Bruxelles è anche una notizia due volte buona per l'Italia. Non perché salva la poltrona di Tremonti. Ma perché dà al Paese una boccata d'ossigeno in una delle fasi più disastrose e confuse di questi ultimi anni. È vero, come dice il ministro del Tesoro, che il governo italiano stava preparando una Finanziaria in linea con le indicazioni della Ue, prevedendo un intervento correttivo sui conti che porterebbe il rapporto deficit/Pil all'1,4% nel 2003. Ma è anche vero che l'Italia avrebbe potuto meritare per l'ennesima volta un trattamento speciale. La Commissione avrebbe potuto pretendere da Roma il close to balance con un anno d'anticipo, e cioè nel 2005, invece che nel 2006 come per gli altri partner. Anche nel nuovo scenario della proroga, e come già accadde nel '98, la Commissione avrebbe potuto esigere un maggior rigore finanziario, vista la preoccupante e persistente "anomalia italiana": il debito pubblico è al 109,8% del Pil. Il rapporto non solo è doppio rispetto agli altri Paesi dell'Unione, ma dopo un calo continuo negli ultimi quattro anni, dal 2002 ha ricominciato a crescere.



Conti, il sospiro di sollievo del Quirinale:
Marzio Breda sul
Corriere della Sera

Due anni in più, per raggiungere il pareggio di bilancio, offre il presidente della Commissione europea Prodi. E, davanti al prolungamento del calendario di Maastricht, al Quirinale si tira un sospiro di sollievo perché si tratta di "una riserva d'ossigeno importante pure per l'Italia, a patto di lavorare bene". Ora, se è vero che l'orizzonte del governo per aggiustare il deficit si allarga fino al 2006 (in coerenza con alcune "flessibilità" previste dal Patto di stabilità di cui lo stesso presidente Ciampi è stato uno degli autori), è anche vero che l'Unione europea indicherà percorsi più stringenti ai Paesi in difficoltà. Perciò, ragionano sul Colle, prima si comincia a rimettere mano al risanamento economico, meglio è. Vale a dire: subito, già da questa Finanziaria.
Ecco, è con questo spirito - di stimolo e di vigilanza - che il presidente della Repubblica riceve ieri il ministro dell'Economia, salito a illustrargli i capitoli della "manovra" proprio poche ore prima che Bruxelles indichi la nuova strategia dell'Unione.
Giulio Tremonti, che si presenta accompagnato dal ragioniere generale dello Stato, Grilli, e dal direttore generale del Tesoro, Siniscalco, spiega le misure che l'esecutivo ha aggiornato sino all'ultimo e si preoccupa di rassicurare sulla loro efficacia "di rigore e di sviluppo insieme". Siamo "in linea con quel che ci chiede l'Europa" dice alla fine. A quanto pare, il presidente della Repubblica più che interloquire ascolta, mentre i consiglieri che lo assistono, Sechi e Marchetta, prendono appunti.
Certo, domanda spiegazioni tecniche su qualche provvedimento (e viene da pensare che ciò accada specie per quello fiscale, del quale è controversa l'immediata applicazione), ma non può spingersi oltre le raccomandazioni di fondo. Si sa: la politica economica rientra tra le responsabilità del governo e del Parlamento e a lui spetta solo verificarne la copertura finanziaria.
Tuttavia l'anteprima di ieri, così al di fuori delle consuetudini, dato che di solito queste presentazioni avvengono dopo che la manovra è stata discussa in Consiglio dei ministri, dimostra una doppia attenzione. Da un lato è un atto di sensibilità verso l'ex governatore di Bankitalia ed ex ministro del Tesoro, che padroneggia queste materie.
Dall'altro intende dimostrare che le sue preoccupazioni sull'economia sono state raccolte, anche se sarà il documento finale a dirci fino a che punto. Comunque, basta ricordare i due ultimi interventi quirinalizi su inflazione, debito pubblico, Sud, vincoli europei, concertazione, per avere il senso dell'allarme di Ciampi. Soltanto dopo è venuta "l'operazione verità" di Palazzo Chigi.


Schiaffo alla mediazione del capo dello Stato
Giuseppe D'Avanzo su
la Repubblica

I cinque consiglieri laici della Casa delle Libertà escono dall'aula, fanno mancare il numero legale a un "plenum" che avrebbe voluto accertare le conseguenze della "legge Cirami" sull'organizzazione giudiziaria. Il Consiglio superiore della magistratura si trova paralizzato, prigioniero, impotente. Il vicepresidente Virginio Rognoni ne deve prendere atto e scioglie la seduta. Ridotti all'osso, sono questi i fatti consumati con stupefatto clamore a Palazzo dei Marescialli. Se si riducono all'essenziale, le ragioni di questa mossa avvelenata della Casa delle Libertà non sono poi misteriose. Il centro-destra ha fortissimamente voluto e rapidissimamente approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura. L'obiettivo era il ridimensionamento dell'autonomia del Consiglio. Si voleva trasformare il Consiglio - la maggioranza non lo ha mai negato né lo nega, nelle sue accaldate orazioni, Nicola Buccico, leader del Polo nel Csm - in una sorta di assemblea condominiale, in una specie di consiglio d'amministrazione dove prevalenti avrebbero dovuto essere le sole esigenze burocratico-amministrative (assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari dei magistrati).

La storia è questa. Una commissione (la sesta) del Consiglio superiore della magistratura affronta il disegno di "legge Cirami" che (re)introduce il "legittimo sospetto" nella procedura penale. E' un "parere" severo, come si sa. E soprattutto legittimo. Nelle attribuzioni del Consiglio superiore, la legge elenca: "... Dà pareri al ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente all predette materie".
In sette paragrafi, il "parere" rileva i profili incostituzionali della "Cirami", l'ambiguità di una formula che non protegge il dibattimento dagli abusi, l'inevitabile irragionevole durata a cui sarebbero condannati i processi. Da ultimo, alla voce "G", osserva che la nuova legge "potrebbe avere effetti negativi sulla stessa credibilità della giurisdizione, minando quella fiducia che ne costituisce il presupposto indefettibile e la funzionalità del processo, che è una delle condizioni della stessa legittimazione del giudice".
Quel che non si sa (ma che i laici del centro-destra sanno benissimo), è che queste poche e significative righe sono state, rispetto al testo originario licenziato dalla commissione, corrette e limate al Quirinale. Se ne può concludere che non solo il capo dello Stato e presidente del Csm ha approvato l'ordine del giorno (come ha confermato in plenum Virginio Rognoni), ma ha direttamente collaborato a moderare i toni di quel testo. Ritenendo legittimo e costituzionale che il Consiglio lo discutesse, lo emendasse, nel caso, infine lo approvasse. Questo iter è stato ritenuto "arbitrario" e "non costituzionale" dal centro-destra. Con accenti di sfida, Nicola Buccico ha voluto far sapere che "rispetta il ruolo di Ciampi e il modo in cui il presidente assolve alla sua missione, ma egualmente rispetto la mia opinione. E la mia opinione è che il Consiglio si deve occupare soltanto di amministrazione perché è soltanto un organo amministrativo".
Anche al Csm si prepara dunque un paralizzante muro contro muro? Il primo presidente della Cassazione Nicola Marvulli lascia Palazzo del Marescialli scuotendo il capo, quasi obbligato per ruolo all'ottimismo: "Credo che sia la prima e l'ultima volta che il dissenso troverà forme di espressione così anomale. Se si dovesse ripetere, se ne dovrebbero trarre le conseguenze". Le conseguenze? Quali? "Lo scioglimento del Consiglio da parte del Capo dello Stato". E' questo il destino che attende il Csm?


Il centrosinistra trova l´accordo: "Mozione unica sull'Iraq"
Andrea di Robilant su
La Stampa

Galvanizzati dalla vittoria di Gerhard Schroeder in Germania, i partiti dell´Ulivo si presentano al dibattito di oggi alla Camera e al Senato con una mozione unica sull´Iraq. E´ già un risultato. Ma il testo concordato è ancora assai "scheletrico", e adesso che la discussione entra nel vivo, le diverse anime dell´Ulivo metteranno comunque alla prova la capacità di tenuta dell´alleanza. Il testo della mozione è volutamente semplice e si muove attorno a tre punti-chiave: rifiuto di un´azione militare fuori dall´Onu, ricerca di una posizione europea unitaria, dialogo aperto con i Paesi arabi moderati. Attorno a questa posizione i partiti della coalizione - Ds, Margherita, Verdi, socialisti e comunisti italiani - non hanno fatto troppa fatica a trovare un accordo. Per la Margherita è importante che in questo momento il no alla guerra non diventi "un pretesto per dare fuoco alle polveri dell´anti-americanismo", per dirla con il responsabile Esteri Lapo Pistelli. E Piero Fassino, alla fine della riunione dei deputati diessini, ha sottolineato che non è ancora il momento di schierarsi a favore o contro la guerra. "Oggi il problema è scongiurare un´eventuale azione militare. E´ sbagliato che la discussione si concentri sull´opzione guerra sì o no, dando per scontato che ci sarà e quindi se l´Italia parteciperà o meno". Insomma, fintanto che la comunità internazionale ha ancora spazio per cercare di scongiurare la guerra, l´Ulivo riesce a serrare i ranghi e mantenersi compatto. Del resto la decisione di non andare al voto sulla mozione di oggi è stata presa anche per evitare contrapposizioni più nette in questa fase interlocutoria. Ma già ora c´è chi vuole imprimere una maggiore fermezza alla posizione ulivista. Le dissonanze all´interno della compagine diessina sono già affiorate. Fabio Mussi, vice presidente della Camera: "Sarebbe meglio se il dibattito parlamentare sulla crisi irachena si concludesse con un voto, al quale bisognerà comunque arrivare. E´ indispensabile che il Parlamento si esprima con un indirizzo chiaro". E i mugugni non vengono soltanto dall´interno dei Ds. "Noi chiederemo che ci sia al più presto un voto che impegni il governo", ha insistito il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. "L´Ulivo deve presentare una mozione chiara contro la guerra. La dottrina Bush sulla guerra preventiva danneggia l´occidente e gli Stati Uniti. Non possiamo avere esitazioni nel dire con chiarezza le stesse cose che dice Al Gore". Gli esponenti della Margherita, il partito più centrista della coalizione, per ora non si preoccupano più di tanto. "E´ vero che c´è da parte di alcuni la tentazione di andare oltre la mozione che presentiamo oggi", riconosce Pistelli. "Di affermare un no etico, un no di principio alla guerra". Ma per il momento il fronte ulivista regge. Poi si vedrà. Sulla posizione del non intervento si è schierato anche un "battitore libero" come Cossiga: "Come cittadino italiano - ha detto l´ex presidente" sono fermamente contro ogni forma di adesione a ogni iniziativa militare angloamericana ancorché disposta o autorizzata dall´Onu. La nostra situazione politica, economica e industriale è già abbastanza pesante per aggravarla con spaccature per inutili e pompose iniziative italiane".


   25 settembre 2002