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Contro l'attacco non contro gli USA
Gian Enrico Rusconi su
La Stampa

Vedremo un cancelliere tedesco antiamericano? Quindi una Germania "assenteista" di fronte alle sue responsabilità internazionali? No. Vedremo un cancelliere tedesco che, sostenuto dal suo abile ministro degli Esteri, tenterà la difficile operazione di far coesistere l'indiscussa amicizia per l'America con un ragionato dissenso verso la posizione attuale della amministrazione Bush sull'Iraq. Se riescono, Schroeder e Fischer acquisteranno la statura di autentici leader europei, di fronte agli imbarazzi e agli ammiccamenti degli altri politici europei. E' una grossa scommessa. Ma i due tedeschi non possono tirarsi indietro, perché la carta della presa di distanza da Washington è stata giocata nelle elezioni dell'altro ieri in modo significativo. Importante politicamente prima ancora che redditizia in termini elettorali. Adesso Schroeder e Fischer dovranno convincere che la loro contrarietà alla annunciata guerra contro l'Iraq non ha nulla a che vedere con un astratto pacifismo di principio. Neppure con "l'antiamericanismo" di cui parla continuamente la pubblicistica, seguendo uno stantio riflesso ideologico. Il dissenso tedesco esprime invece una nuova fase di corresponsabilità degli europei nella alleanza con gli Usa e più in generale nella questione dell'uso della forza militare nei conflitti internazionali, anche nel contesto del terrorismo. Schroeder è antipatico a moltissimi commentatori europei e americani. Insistendo ed estrapolando alcune sue dichiarazioni degli ultimi giorni, molti gli attribuiscono un tasso di opportunismo e di provincialismo nazionalistico assai superiore a qualunque altro politico europeo. Ma chi guarda sospettoso l'atteggiamento critico del Cancelliere verso la programmazione della guerra a Saddam, dovrebbe ricordare le motivazioni per cui a suo tempo il suo governo aveva mandato, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, soldati tedeschi in Kosovo; aveva messo a disposizione uomini e mezzi per le operazioni militari in Afghanistan. Non dovrebbe dimenticare la sincerità con cui Berlino ha partecipato alla tragedia di New York dell'11 settembre e ha riconosciuto la necessità della lotta comune al terrorismo internazionale. Rispetto a tutto questo, l'attuale critica a proposito del necessario attacco contro l'Iraq non è una marcia indietro, ma una fase ulteriore. Dubitare del nesso diretto e provato tra l'organizzazione del terrore internazionale e la (pre)potenza militare irachena; sconsigliare la "guerra preventiva" per l' effetto imitativo che provocherà in altre aree; temere una destabilizzazione incontrollabile dell'intero Medio Oriente a seguito di un'azione militare disapprovata da tutti i paesi arabi; attendere in ogni caso le iniziative dell'Onu, con i suoi tempi e ritmi - tutte queste preoccupazioni non hanno nulla a che vedere con l'antiamericanismo.



Elezioni tedesche l'Ulivo esulta
Giuseppe Vittori su
l'Unità

"Un evento di straordinaria importanza per tutta l'Europa". Così Massimo D'Alema commenta il risultato delle elezioni tedesche. "Il vostro successo - scrive il presidente Ds in un messaggio inviato a Gerhard Schröder - ha fermato la spinta a destra nel nostro continente, restituendo speranza ai socialisti e a tutti i riformisti". Per questo, conclude D'Alema nella lettera, anche se "ci aspettano prove difficili e non solo in Germania", ora è possibile "affrontarle con rinnovata fiducia, incoraggiati dal vostro risultato elettorale".
La vittoria della coalizione rosso-verde è un segnale incoraggiante anche secondo Piero Fassino. "Prima la Svezia, poi la Germania: l'onda neoliberista perde forza e gli elettori tornano a guardare a chi propone una società nella quale la modernità non sia separata dai diritti e dalle sicurezze sociali". Quello tedesco è per il segretario della Quercia "un voto importante, che anche in Italia incoraggia il centrosinistra ad accelerare la costruzione di una credibile proposta di governo alternativa al centrodestra". L'esito elettorale è infatti per gli esponenti del centrosinistra non solo motivo di soddisfazione, ma anche stimolo alla riflessione. È per il capogruppo Ds alla Camera Luciano Violante "un segno chiaro che l'unità delle forze democratiche e di progresso può sconfiggere anche le più forti tendenze, politiche e culturali, conservatrici e reazionarie del nostro continente", mentre per Gavino Angius, capogruppo della Quercia al Senato, è la dimostrazione che non può che essere premiata "una politica che unisce il valore della coesione sociale alla scelta e al coraggio delle riforme". Il "vento di destra" è stato interrotto, dice Angius: "Cercheremo come Ds e come Ulivo di far tesoro" di questa esperienza.
Secondo Francesco Rutelli Schröder e Fischer sono in Germania e in Europa "protagonisti di un riformismo che vince, quello di una coalizione che unisce alla forza dei socialdemocratici il realismo creativo dei Verdi". Il leader della Margherita sottolinea che la loro vittoria è stata costruita "non sull'antiamericanismo, ma sulla giusta rivendicazione dell'Europa nelle grandi decisioni mondiali".

E nel centrodestra? Si cerca di nascondere la delusione. C'è chi, come il ministro Maurizio Gasparri, si concentra sulla risalita della Cdu, o chi, come Ignazio la Russa, individua nel sistema elettorale tedesco la causa principale della sconfitta della coalizione guidata da Stoiber. "I risultati tedeschi - dice il capogruppo di An alla Camera - mostrano che il loro tanto decantato sistema elettorale non è poi migliore del nostro". Se quanto avvenuto in Germania avvenisse in Italia, sostiene, "si darebbe vita ad una incertezza totale e ad una vera e propria instabilità". Sulla stessa linea un altro esponente di An, Gustavo Selva, che prevede per la Germania "un periodo di incertezza, soprattutto per quanto riguarda i problemi interni politici, economici e sociali".


Gerhard Schröder reste chancelier grâce aux Verts
Georges Marion su
Le Monde

Cette fois, les sondages ne s'étaient pas trompés en annonçant, depuis des semaines, un résultat serré. Et serré, le résultat l'a été. Entre 18 heures, dimanche 22 septembre, au moment des premières projections à la sortie des urnes, et 1 heure, lundi 23, lorsque se sont dessinés les résultats définitifs, chrétiens-démocrates de la CDU/CSU et sociaux-démocrates du SPD se sont crus tour à tour vainqueurs et vaincus. Ce n'est que petit à petit que le mouvement de pendule a fait place à une tendance qui allait devenir résultat : la reconduction de la coalition sortante "rouge-verte". A ce moment, le candidat de la droite, Edmund Stoiber, a compris qu'il ne serait pas chancelier.
Durant cette folle nuit, il a cru longtemps que son parti constituerait le groupe parlementaire le plus important du Bundestag, ce qui lui en aurait garanti la présidence. Même cela, pourtant, ne lui a pas été donné. Avec 251 sièges, le SPD devance de trois petits sièges les 248 de la CDU/CSU. Les Verts obtiennent 55 sièges et les libéraux du FDP 47. Quant aux néocommunistes du PDS, ils n'ont plus que deux députés.
La reconduction de la majorité "rouge-verte" doit beaucoup aux écologistes, qui ont obtenu 8,6 % des suffrages, soit 1,9 % de plus qu'en 1998. Sans leur score, le chancelier aurait été incapable de reconduire la coalition, un pari qui n'était pas sans risque, eu égard aux échecs subis par les Verts au cours des élections dans les Lãnder ces dernières années. Mais le pari a finalement été le bon. Dimanche soir, Gerhard Schröder et Joschka Fischer, épuisés mais hilares, sont allés saluer, bras dessus-bras dessous, ceux qui, devant le siège du SPD, avaient bravé la pluie battante pour suivre le dépouillement.
ÉCHEC RELATIF
Bien qu'elle ne prête pas à discussion, la défaite de la droite ne constitue pourtant qu'un échec relatif. Edmund Stoiber restera en Bavière dont il est le ministre-président, mais avec 38,5 % des suffrages exprimés, la CDU/CSU gagne 3,4 points, revenant peu à peu au niveau qui était le sien avant la défaite du chancelier Kohl en 1998.
Si Edmund Stoiber manque de peu la chancellerie, c'est que son allié dans l'aventure, le Parti libéral (FDP), n'a pas réussi à jouer au bénéfice de la droite le rôle tenu par les Verts au profit du SPD. Le parti que dirige Guido Westerwelle clamait son ambition de faire 18 % des suffrages. Ce qui, à l'évidence, relevait plus de la méthode Coué que du réalisme politique. Il a finalement atteint 7,4 % et 47 sièges. Humiliation supplémentaire, les Verts, pour la seconde fois, devancent le FDP, relégué en quatrième position, devant les néocommunistes.
Dès dimanche soir, un fumet insistant de règlement de comptes régnait chez les libéraux qui rendent responsable de leur échec leur vice-président, Jürgen Möllemann, candidat en Rhénanie du Nord-Westphalie, dont les sorties antisémites, il y a quelques mois, ont été relayées en fin de campagne par un tract électoral attaquant le premier ministre israélien, Ariel Sharon, et ceux qui le soutiennent, dont Michel Friedmann, l'un des dirigeants de la communauté juive d'Allemagne.
TASSEMENT DU PDS
Les néocommunistes du PDS sont les seconds grands perdants. Ils disposaient de 36 députés dans l'assemblée sortante ; n'ayant pas réussi à dépasser le seuil des 5 % des suffrages exprimés, ils n'en auront, cette fois, que deux, élus au suffrage direct dans leurs bastions berlinois de Marzahn et de Lichtenberg. Ce score médiocre reflète le tassement du PDS dans ses terres traditionnelles de l'ancienne Allemagne de l'Est. Il n'a jamais réussi à percer à l'Ouest. Dès dimanche, plusieurs observateurs estimaient que ce recul exprimait une "normalisation"politique des Lãnder de l'ancienne RDA.
L'entrée en fonctions du nouveau gouvernement ne devrait pas intervenir avant deux ou trois semaines. Le chancelier Schröder va devoir récompenser les Verts au détriment de ministres sociaux-démocrates, ce qui augure quelques changements. Les Verts disposaient jusque-là de trois grands ministères : affaires étrangères, environnement, agriculture. La ministre sociale-démocrate de la justice, Herta Daübler-Gmelin, accusée d'avoir maladroitement comparé George Bush à Adolf Hitler au cours d'une réunion électorale, ce qui a créé un incident avec Washington, ne fera sans doute pas partie de la prochaine équipe. On prête au ministre de l'intérieur Otto Schily, qui a été un des ministres clés du gouvernement sortant, et qui vient de fêter ses 70 ans, l'intention de ne pas rester très longtemps.
L'étroite majorité du nouveau gouvernement ne devrait pas lui faciliter la tâche. Avec 11 sièges d'avance seulement sur ses adversaires, la coalition "rouge-verte" ne peut se permettre aucun faux pas, aucune absence ni aucune défection lorsqu'il s'agira de voter un texte. C'est la seule consolation d'Edmund Stoiber. A peine battu, ce dernier s'est dit convaincu que ses adversaires ne tiendraient pas longtemps avant d'être acculés à organiser de nouvelles élections.


US snubs conciliatory Schröder
Minister's departure fails to placate angry White House
John Hooper e Kate Connolly su
The Guardian

Relations between America and Germany were last night facing the deepest crisis for half a century after the US administration abrasively dismissed a sacrificial offering from the newly re-elected chancellor, Gerhard Schröder.
Fresh from Sunday's narrow general election victory, Mr Schröder announced the resignation of his justice minister whose reported comments last week turned simmering US irritation over the chancellor's opposition to a war in Iraq into outright fury. But the move appeared to cut no ice with the American defence secretary, Donald Rumsfeld.
He snubbed his German counterpart by refusing a meeting on the sidelines of an informal Nato defence ministers meeting.
"I have no comment on the German election's outcome. But I would have to say that the way it was conducted was notably unhelpful and, as the White House indicated, has had the effect of poisoning the relationship [with the US]," he said after a meeting with the Polish president, Aleksander Kwasniewski, in Warsaw.
A German newspaper quoted the minister, Herta Däubler Gmelin, as saying President Bush was using Iraq to distract attention from domestic problems in the way Adolf Hitler had done. Mr Schröder soon afterwards wrote to the president with what some media described as an apology.
Asked about the letter, White House spokesman Ari Fleischer said yesterday: "It really didn't read like an apology. It read more like an attempt at an explanation."
Mr Schröder, meanwhile, stood by an anti-war stance that pollsters said may have delivered him a second, four-year term.
"We want to make clear that our position on how to proceed in the Middle East is unchanged as a result of the election," he said.
Indeed, the chancellor's room for manoeuvre has - if anything - been limited by the outcome. He was returned to office thanks entirely to a surge in backing for the pacifist Greens.
But the chancellor insisted that the friendship between Germany and the US could withstand differences on Iraq and in other areas, such as the way to combat global warming.
"I think this difference of opinion will remain," Mr Schröder said. "We will have it out in a fair and open way without in any way endangering the basis of German-American relations. That is my firm intention."
The defeated conservative candidate, Edmund Stoiber told a press conference that in the next few weeks, he would fly to the US to talk to members of Congress and other American leaders "to assure them that everything that has recently travelled across the Atlantic from Germany is not the real Germany".
He added later that Germany's position on Iraq was "untenable" when one considered the "blood spilled by US soldiers to help free Germany from the Nazis".
Mr Stoiber repeated a prediction he made on election night that the new government would not survive a full term in office. The vote delivered the centre-left a majority of just nine seats in the lower house of parliament - the slimmest majority in postwar Germany.
Official results gave the Social Democrats and Christian Democrats 38.5% of the vote, the Greens a record 8.6% and the neo-liberal Free Democrats 7.4%. The Social Democrats and the Greens will have 251 and 55 seats respectively in the new parliament; the Christian Democrats 248 and the Free Democrats 47.
The ex-communist Party of Social Democracy won two seats on a first-past-the-post basis but was excluded from the main distribution of seats, based on proportional representation, after failing to win 5% of the vote.
Several economic commentators expressed concern that the new government's tiny majority would prevent it from taking painful measures to reform and revive Germany's sluggish economy.


El hombre que cambió a Los Verdes
Hermann Tertsch su
el Pais

Días antes de las elecciones, en una entrevista televisiva, Joschka Fischer, hoy el gran triunfador de las elecciones federales alemanas, se mostraba conmovido cuando le recordaban que lo único que esperaba su madre de él es que tuviera 'un empleo fijo con derecho a jubilación'.
Las gafas pequeñas, que esconden unos ojos de brillante inteligencia y marcan la cara prematuramente envejecida del eterno animal político y en su adolescencia gamberro, hijo de alemanes expulsados después de la guerra de Hungría, no ocultaban la emoción de este hombre aún joven que en la década de los ochenta tenía infinitas posibilidades de acabar siendo 'carne de beneficencia' en la estación central de Francfort. Hoy es probablemente una de las cabezas más brillantes de la política activa.
'No estamos pidiendo nada aún. Hablaremos con nuestros socios socialdemócratas y el canciller Schröder como siempre lo hicimos, con lealtad. No somos de los que se hunden en los reveses. Ni de los que se inflaman de arrogancia y exigencias en la victoria'. Pero Fischer sabe ya que tiene más posibilidades que nunca de exigir, cargos e influencia, a un canciller que seguirá siéndolo no ya gracias a su partido el SPD, sino a él, a Joschka Fischer, personalmente.
Ya se habla de nuevos ministerios para Los Verdes en un Gabinete en el que en todo caso su peso aumentará considerablemente. Los conceptos políticos de un partido ecologista y pacifista, que surgió como movimiento asambleario han ido cristalizando en opciones políticas muy realistas bajo la batuta de un ministro de Asuntos Exteriores que hoy tiene autoridad y control en el partido para neutralizar todas las veleidades irrazonables y reconducir actitudes y postulados hacia posiciones cada vez más fácilmente asumibles por parte del partido mayoritario de los socialdemócratas.
Por otra parte, están las relaciones políticas y personales entre los dos líderes, que podrían dar contenido a un libro o tratado. Fischer y Schröder, tan diferentes el uno del otro, han logrado cultivar una simbiosis que ha acabado dándoles el rédito de otra legislatura cuando nadie podía esperarlo hace semanas y desde luego muchos descartaban. Fischer ha salvado a Schröder en estas elecciones, éste lo sabe y no deja de decirlo en cuanto puede, ayer mismo tras las elecciones.
Schröder asumió en 1998 un riesgo nada desdeñable al integrar en su Gobierno a Los Verdes, un partido que entonces era todo menos calculable. Las cuentas salieron bien, según se ha visto en estas elecciones, pero también valorando la actuación de unos ministros de Los Verdes, Fischer por supuesto, pero también Jürgen Trittin, ministro del Medio Ambiente, y Barbara Künast, que han solventado muy difíciles retos con seguridad y sin un ápice de la irresponsabilidad que algunos observadores les adjudicaban.
Todos saben que Fischer será exigente en la defensa de los principios ecopacifistas de su partido, pero ante todo los propios. Lo que también parece claro es que Fischer es cada vez más la conciencia de Schröder y que sus intereses, ambiciones y principios van uniéndose en identidad. En este sentido, las frecuentes apariciones públicas de los dos dirigentes juntos, en un mitin a punto de terminar la campaña, pero también en la propia noche electoral, revelan lo que supone la generación de un tándem político que va a determinar en los próximos años la política alemana y, por tanto, en gran medida, la política europea.


Chirac e Berlusconi divisi sulla guerra all'Iraq
Prodi: Ue senza una posizione comune
Maurizio Caprara sul
Corriere della Sera

COPENAGHEN - "Ma io a un mondo che va così non ci sto". La voce di Jacques Chirac è diventata sferzante. A renderla tagliente è stata l'idea di dover accondiscendere alla dottrina del "colpo preventivo" avanzata da George W. Bush per giustificare un attacco all'Iraq. Silvio Berlusconi, il bersaglio del presidente francese, ha chiesto di nuovo la parola per sostenere: ma io non stavo spiegando la mia posizione, stavo riferendo quella degli americani che ho incontrato di recente, senza alcuna voglia di rompere con l'Europa. Ognuno ha avuto i suoi "ma". Ma la principale cosa certa è che ancora una volta, in un vertice internazionale, l'uomo di destra più votato in Francia e l'uomo di centrodestra più votato in Italia si sono trovati in rotta di collisione.
Ieri è successo a Copenaghen, davanti agli altri 13 capi di Stato e di governo dell'Ue riuniti con dieci colleghi d'Oriente nel quarto summit dell'Asem, sigla di "Asia-Europe Meeting". Chirac era vicino all'ambasciatore tedesco in Danimarca Johannes Dohmes, mandato a rappresentare il cancelliere Gerhard Schröder, e Berlusconi a fianco di Junichiro Koizumi, il premier giapponese. In quello che dietro le porte chiuse è diventato il pubblico del match, c'erano posti per personaggi assai diversi tra loro. Dal sultano del Brunei, sua altezza reale Haji Hassanal Bolkiah, al primo ministro della Cina popolare, Zhu Rongji.
Tutto è cominciato quando il premier danese Anders Fogh Rasmussen ha indicato come minimo denominatore comune sull'Iraq, "nonostante le sfumature", l'approccio "multilaterale" e l'appoggio all'Onu per "aumentare la pressione" su Bagdad.
Va bene, però occorre sottolineare che all'approccio multilaterale non c'è alternativa, che va dato tutto il sostegno a Kofi Annan, ha detto Chirac. Sulla stessa scia il greco Costas Simitis. Il primo ministro malese Mahathir Moahamad ha sottolineato molto il ruolo dell'Onu, come se strizzasse un po' l'occhio a Saddam Hussein, il convitato di pietra.
E' stato a questo punto che Berlusconi si è pronunciato a favore di una risoluzione del Consiglio di sicurezza che disponga ispezioni "senza condizioni" in Iraq sulle armi di distruzione di massa e "preveda l'intervento militare ove non ci fosse adempienza". Parlava in italiano. A tratti, in francese.

Chirac ha risposto che la Francia non avrebbe mai firmato una risoluzione del genere, e non sarebbe l'unico Paese. A Zhu, il cinese, avrebbe rivolto gli occhi a Chirac mentre obiettava che, se passasse la teoria del colpo preventivo, oltre Washington anche altri potrebbero avvalersene. Come a dire: perché non Pechino contro Formosa? Berlusconi avrebbe affermato che del suo discorso il presidente francese aveva inteso "l'esatto contrario". "Forse la traduzione non gli sarà arrivata tempestivamente. Comunque ci siamo chiariti e siamo usciti a braccetto", ha dichiarato fuori. Ma dai francesi erano uscite anche le voci sul contrasto.
"Non ci sono molti elementi per una posizione comune sull'Iraq al prossimo Consiglio degli affari generali. Inutile nasconderlo, le differenze ci sono", è stata la constatazione di Romano Prodi.


Le due linee dell'Europa attraversano anche l'Italia
Stefano Folli sul
Corriere della Sera

Di solito nel linguaggio diplomatico il termine "incomprensione" significa che le opinioni sono opposte. Ieri a Copenaghen è emerso che tra Berlusconi e Chirac esistono alcune "incomprensioni" riguardo alla crisi irachena. Che poi esse siano state chiarite, come ha detto il presidente del Consiglio, non toglie nulla alla sostanza del problema. Sull'Iraq l'Europa è divisa in due fronti. Al punto che il presidente della Commissione, Romano Prodi, lo ha ammesso con franchezza: "Non ci sono elementi per una posizione comune dell'Unione". Quindi una divergenza grave che investe il rapporto con gli Stati Uniti, la legittimità dell'intervento contro Bagdad, il ruolo dell'Onu. Su questi punti l'Europa non è in grado oggi di esprimersi con una voce.
La novità rispetto al passato è che l'Italia di Berlusconi non resta nell'ombra, alla ricerca di una vaga mediazione, ma si espone in prima fila; anzi, fa quasi da portabandiera alla tesi filo-americana. Sottolineando la necessità "che l'Europa capisca lo stato d'animo degli Stati Uniti", perché "ci sono prove su missili a lunga gittata in possesso di Saddam".

Prodi, si capisce, non è affatto dispiaciuto di come sono andate le cose a Berlino. Soprattutto perché vi legge la speranza che "presto sia restaurata l'alleanza tra Francia e Germania, nucleo portante per la politica dell'Unione". Perciò "l'Europa non abbia paura di esprimere una differenza rispetto agli Stati Uniti".
Ci sono dunque due linee rispetto all'Iraq. Una è sostenuta da Blair, da Berlusconi e in qualche misura da Aznar. L'altra da Schröder e Chirac: a quest'ultima guarda il presidente della Commissione perché vi vede lo strumento per ricostruire l'asse franco-tedesco.
Nella sostanza Berlusconi ha oggi l'opportunità di dar corpo alla sua tradizionale visione dell'Europa: filo-americana, filo-inglese, diffidente verso la relazione speciale tra Parigi e Berlino. La domanda è se intende portare queste scelte alle estreme conseguenze, soprattutto in un momento di crisi internazionale. Con metà dell'Europa diffidente verso la strategia americana o francamente pacifista. Mentre l'Italia si accinge a inviare centinaia di soldati in Afghanistan, in una missione di prima linea.
Intanto il voto tedesco proietta i suoi riflessi sul continente. A Roma il centrosinistra lo considera il tonico da tempo atteso. La prova, come dice D'Alema, che "la destra può essere fermata". Ma nessuno ignora che quel voto può davvero cambiare la fisionomia della politica europea. Prodi ha dato di tale prospettiva un'interpretazione ottimistica. Ma i rischi non mancano. Per ora il problema dell'Ulivo consiste nel depurare la vittoria di Spd e Verdi, liberandola dal sospetto che sia il prodotto di una tendenza anti-americana (vedi il giudizio di Rutelli).
Ma l'orizzonte di guerra rende difficile questa operazione. L'eventuale attacco contro Bagdad rischia di radicalizzare le due linee in Europa. E anche in Italia Berlusconi e il centrosinistra sono già su posizioni opposte.


Borse in caduta libera, l´Europa brucia 190 miliardi
Francesco Manacorda su
La Stampa

Indietro fino ai livelli del `97, come in una macchina del tempo che brucia miliardi di euro - 190 fra tutte le piazze europee - di capitalizzazione. Indietro nella peggior seduta di un anno già pessimo, con piazza Affari che piomba giù del 4,32% e da sola si mangia 19 miliardi, Francoforte che celebra il risultato delle elezioni tedesche con un crollo del 4,94%, Londra che ripiega del 3,13% e conquista addirittura il record negativo dal `96. E indietro - anche se in tono minore - anche Wall Street, dove il Dow Jones arretra dell´1,42% e il Nasdaq perde il 2,96%, finendo anch´esso ai minimi da sei anni a questa parte. Difficile trovare il colpevole principale di un crollo che coglie di sorpresa mercati dove si pensava di aver già visto tutto e che ieri mattina si preparavano anzi a un timido rialzo. Più facile individuare il combinato disposto di elementi negativi che funestano ancora una volta le quotazioni. La politica, prima di tutto. Quella internazionale, con l´improvviso riacuirsi della tensione tra gli Usa e l´Iraq che lascia vedere più vicino un attacco contro Baghdad, ma anche quella interna tedesca: la vittoria di misura ottenuta dalla coalizione rosso-verde è un pessimo viatico per tutti quegli investitori che hanno come obiettivo principale la stabilità di governo, e la Borsa di Francoforte con il ribasso peggiore di tutte le piazze ieri non ha fatto a meno di sottolinearlo.
E poi pesa l´economia reale. La nuova raffica di profit warning che arrivano dai nomi più blasonati dell´industria Usa contribuiscono a raffreddare ancor di più la tiepidissima fiducia degli operatori; il calo del superindice statunitense - in agosto è stato peggiore di quanto si aspettassero gli analisti - apre la porta a nuovi e poco confortanti scenari macroeconomici e aggiunge un´incognita alla riunione di oggi della Federal Reserve, che dovrà decidere il livello dei tassi statunitensi. Alan Greenspan e i suoi colleghi decideranno probabilmente di lasciare invariato il costo del denaro, ma gli operatori aspettano con ansia anche una valutazione sullo stato dell´economia reale. Il colpo di grazia al mercato borsistico Usa, e di riflesso soprattutto a quello europeo, ieri lo dà infatti proprio il superindice dell´economia statunitense, che in agosto è sceso - ed è il terzo mese consecutivo - dello 0,2% contro una previsione della maggioranza degli analisti che lo vedeva in ribasso dello 0,1%. Per gli economisti del Conference Board, che calcola il superindice, è il segno che la congiuntura si potrebbe avviare verso una fase di stallo. E la situazione diventa ancora più negativa con il prezzo del petrolio che sale rapidamente dopo le dichiarazioni di Saddam Hussein contro qualsiasi nuova risoluzione dell´Onu per ispezioni nei siti nucleari iracheni: il prezzo del barile supera agevolmente i 30 dollari, sia a Londra, sia a New York,come non accadeva da un anno e mezzo. Molti titoli petroliferi, in Europa e negli Usa, ne traggono qualche giovamento, ma questa magra consolazione in Italia non vale. L´Eni, il titolo principale del Mib30, affonda infatti del 7,50% perché il mercato teme il collocamento di nuove quote di capitale. Anche i segnali che arrivano dal mondo dell´industria e della finanza nordamericano sono desolanti. Wal Mart, il maggior gruppo della grande distribuzione al mondo annuncia ieri che in settembre le sue vendite saranno assai vicine alle peggiori previsioni che aveva fatto, seminando il gelo sul comportamento dei consumatori Usa.



Il brusco risveglio dei mercati
Federico Rampini su
la Repubblica

Davvero i mercati avevano creduto alla favola bavarese di Stoiber? Ieri la conferma del governo rosso-verde ha tramortito la Borsa di Francoforte, crollata del 5% trascinando nel lunedì nero post-elettorale tutte le Borse europee. Che Stoiber avesse la bacchetta magica non poteva pensarlo nessuno, tanto più che il presunto miracolo economico della Baviera è finito da un pezzo e la disoccupazione sale a vista d'occhio anche nella terra della Bmw.
I mercati hanno solo riaperto gli occhi di fronte a una realtà tedesca ed europea disperante. Da oltre dieci anni non esiste più una Germania-locomotiva, ne vivono la triste conferma i suoi 4,1 milioni di senza lavoro. Con un sistema tedesco paralizzato dalle rigidità e dagli alti costi - problemi antichi che esistevano anche sotto il democristiano Kohl, non li ha creati Schroeder - tutta l'Europa è condannata ad un non-ruolo nella crisi economica mondiale. La divisione tra gli europei sull'Iraq conferma nei mercati la percezione della loro irrilevanza.
Dal Vecchio continente nessuno si attende uno scatto, un'iniziativa concertata per il rilancio della crescita mondiale. Così come attendono in ordine sparso l'offensiva americana in Iraq, ciascuno con sfumature diverse ad uso dell'opinione pubblica interna, allo stesso modo gli europei aspettano dall'economia americana i segnali sul futuro che verrà. Prostrati dal ristagno della crescita, finora potevano giustificare l'inazione con l'attesa del voto tedesco. Passato quello, tutto resterà come prima. Se l'America rimane il centro, ieri i segnali che ha mandato al resto del mondo sono stati tutti negativi. Anche a Wall Street gli indici hanno continuato a franare, con il Nasdaq ai minimi degli ultimi sei anni: ormai tutta la bolla della New Economy si è sgonfiata, eppure i profitti delle imprese sono così depressi che anche a questi livelli le azioni sono care e c'è spazio per scendere più giù. Ieri l'ennesima caduta delle Borse Usa ha trovato come pretesto il calo inatteso del Superindice che riunisce una serie di dati significativi sul futuro dell'economia americana (dal mercato del lavoro alla fiducia dei consumatori). Con un calo dello 0,2% il Superindice lascia prevedere che la ripresa Usa continuerà ad essere asfittica, tentennante e incerta almeno fino all'inizio del 2003.
Non c'è prova che vi sarà una ricaduta nella recessione. Ma anche nello scenario più probabile di una crescita debole, simile alla "jobless recovery" del 1991-92 (dopo la prima Guerra del Golfo), il clima rimarrà pessimo perché nella seconda metà degli anni Novanta il paese si era abituato a ritmi di crescita molto sostenuti. Poiché la produttività non cessa di migliorare grazie alle nuove tecnologie, senza una crescita forte le imprese continueranno a licenziare. Se ai licenziamenti si aggiungerà il temuto scoppio della bolla immobiliare, gli effetti saranno micidiali sui consumi delle famiglie che finora hanno sorretto l'economia americana.
Oggi si riunisce la Federal Reserve e i più si aspettano che la banca centrale rinvii un taglio dei tassi a fine anno. Ma anche se agisse subito, quali effetti taumaturgici potrebbe avere dopo 11 tagli consecutivi che hanno portato il costo del denaro al minimo storico degli ultimi 41 anni? Tutto ciò che Alan Greenspan poteva fare per rimpinguare i portafogli degli americani, con mutui casa a condizioni di favore e auto a rate a tasso zero, lo ha già fatto. Se la politica monetaria perde ogni margine di manovra, si avvicina lo spettro di una sindrome giapponese, quella trappola della liquidità in cui il pessimismo convince a tenere i risparmi sotto il materasso.
Più che alla Fed i mercati guardano al Golfo, con i prezzi del petrolio schizzati oltre i 30 dollari: il record da 19 mesi, e un rincaro del +54% dall'inizio dell'anno.



Portavoce e convention i girotondi si dividono
Concita De Gregorio su
la Repubblica

Hanno scritto un articolo che sarà pubblicato dall'Unità. Pongono, con eleganza e senza far polemica diretta contro alcuno, il problema di come "gestire democraticamente" il consenso visto vivere in piazza il 14 settembre. Non fanno cenno a tensioni sotterranee fra diverse anime del movimento. Del resto - quando nelle settimane scorse i giornali ne fecero cenno - Paolo Flores, Nanni Moretti e altri smentirono (chi in pubblico, chi in privato) che ci fossero incomprensioni. Fra Flores e Tranfaglia? Escluso. Tra Flores e Sylos Labini? Invenzioni. Tra Flores e Nando Dalla Chiesa, promotore della piazza che consacrò Moretti e poi escluso dal palco di San Giovanni, sprovvisto persino di pass per accedere oltre le transenne? Fantasie. E però è anche di questo che parlano, oggi, le tre girotondine storiche che hanno consegnato a Furio Colombo il loro scritto per l'Unità.
Daria Colombo, animatrice dei sit in a palazzo di giustizia di Milano ben prima del Palavobis, Emilia Cestelli, tra le fondatrici delle Girandole milanesi e moglie di Nando Dalla Chiesa, Marina Minicuci, romana, nome di riferimento per i frequentatori del sito Internet "igirotondi.it". "Vediamo emergere tentazioni egemoniche che fanno parte proprio del tipo di cultura contro la quale ci battiamo. La democrazia ha delle regole che devono essere rispettare: si dibatte, si vota, si decide a maggioranza, si indica qualcuno che abbia titolo per parlare anche a nome di altri", dicono.
Dietro, e in concreto, c'è una storia di riunioni convocate e sconvocate, di censimenti annunciati e revocati, e anche altro. La storia è questa. In primavera dall'Eremo di Ronzano Tranfaglia e Minicuci lanciano la proposta di un censimento dei movimenti, e cominciano a lavorarci. "Flores ci fece poi sapere che nel numero di Micromega che stava preparando lanciava la stessa proposta, così ci chiese di unire le forze", spiega Minicuci. Censimento unico, dunque, con appuntamento al 27-28 settembre per un bilancio, appuntamento lanciato da Micromega.
Passa l'estate e le posizioni si definiscono. C'è il 14 settembre e il milione di San Giovanni. Alcuni gruppi (girandole, girotondi di Milano Palermo Bari Trieste, Altera di Tranfaglia e Vattimo) giudicano superato l'appuntamento lanciato da Flores, fanno sapere che lo diserterebbero. "Flores ci ha allora proposto di spostarlo a fine ottobre, nella sede della rivista", racconta uno di loro. Molti però preferiscono un terreno neutro: si convoca una riunione per il 26-27 ottobre a Castel San Pietro, Bologna. Flores scrive una lettera aperta che compare sul sito "centomovimenti": "Non c'è bisogno di nessun coordinamento né di nessun portavoce che ci farebbero somigliare a un partito", e annulla ufficialmente la riunione romana di fine settembre.
Gli risponde Gianfranco Mascia sul sito "igirotondi": "Non certo per fare un partito né per istituire portavoci stabili, ma un minimo di organizzazione riteniamo debba esserci, altrimenti si corre il rischio che alcune posizioni, magari espresse da singoli, vengano scambiate per la posizione di tutti".



   24 settembre 2002