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L´"attacco preventivo" è ora dottrina ufficiale Usa
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la Stampa

La deterrenza finisce nei libri di storia, come tutte le reliquie della guerra fredda: da oggi in poi, la nuova dottrina di difesa degli Stati Uniti si chiama attacco preventivo. Il presidente Bush ne aveva già parlato all'inizio dell'estate, alla cerimonia di fine corso dei cadetti dell'accademia militare di West Point, ma ora ha messo il nuovo concetto nero su bianco e ieri lo ha pubblicato. E' una dottrina nata dall'11 settembre, che sembra scritta apposta per giustificare la guerra in Iraq, ma si applica a qualunque Paese o gruppo terroristico che minacci la sicurezza nazionale americana, e quindi promette di avere un impatto storico ben oltre la crisi di questi giorni. Il documento si intitola "The National Security Strategy of the United States", è lungo 33 pagine e ogni presidente deve scriverlo per legge. L'ultimo a farlo fu Clinton, nel 1999, ma si concentrò soprattutto sulle crisi economiche che minacciavano la stabilità dell'economia globale. Ora c'è stato l'11 settembre e il mondo è cambiato. Qundi Bush si è riunito coi collaboratori più stretti, come la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, e ha prodotto la nuova dottrina, raccomandandosi che fosse scritta in inglese semplice per farla capire anche all'agricoltore del Nebraska. "Il concetto tradizionale di deterrenza - dice il documento - non funziona più contro un nemico terrorista la cui tattica preferita è la distruzione casuale e la presa di mira degli innocenti. La sovrapposizione tra gli Stati che sponsorizzano il terrorismo e quelli che cercano di ottenere armi di distruzione di massa ci obbliga ad agire... I nemici del passato avevano bisogno di grandi armate e capacità industriali per mettere in pericolo l'America. Ora reti oscure di individui possono portare il caos e grandi sofferenze sulle nostre coste, per meno del prezzo di un solo carro armato... L'America oggi è meno minacciata dagli Stati orientati alla conquista, che da quelli sulla via del fallimento... Gli Stati Uniti non possono più affidarsi solamente all'atteggiameto reattivo che avevamo nel passato. Non possiamo consentire ai nostri nemici di colpire per primi". Questa è la giustificazione per gli attacchi preventivi, anche quando l'Onu non li appoggia: "Per ragioni di buon senso e autodifesa, l'America agirà contro queste minacce emergenti prima che siano completamente formate. Gli Stati Uniti cercheranno costantemente di ottenere il sostegno della comunità internazionale, ma non esiteranno ad agire da soli, se necessario, per esercitare il diritto all'autodifesa e agire in maniera preventiva contro tali terroristi, per impedire loro di fare del male alla nostra gente e al nostro Paese". Questa politica di prevenzione include "convincere o costringere gli Stati ad accettare le responsabilità della loro sovranità", e quindi a non ospitare o aiutare i terroristi come aveva fatto l'Afghanistan. "La guerra al terrorismo - secondo Bush - non è uno scontro tra civiltà. Però rivela lo scontro all'interno di una civiltà, la battaglia per il futuro del mondo islamico. E' una battaglia di idee e in questo campo l'America deve eccellere". Perciò, tra gli obiettivi di Washington, ci sarà "sostenere governi moderati e moderni, soprattutto nel mondo islamico, per assicurare che le condizioni e le teorie che promuovono il terrorismo non trovino terreno fertile in alcuna nazione". In questo quadro i palestinesi avranno uno Stato "se abbracceranno democrazia e stato di diritto, e rigetteranno corruzione e terrorismo", mentre "gli insediamenti israeliani nei territori occupati devono fermarsi". Dopo decenni di corsa al riarmo nucleare per garantire l'equilibrio, la dottrina della guerra fredda e quella subito successiva si basavano sul concetto della non proliferazione: accordi e trattati che servivano a impedire o limitare il passaggio di armi, materiali o tecnologia bellica.



Arafat prigioniero nel suo palazzo in macerie
Guido Olimpio sul
Corriere della Sera

Yasser Arafat è ormai prigioniero nel suo ufficio e controlla con un pugno di uomini il terzo piano della Mukata, la sua residenza a Ramallah. Sotto di lui, al piano sottostante, all'esterno, nel cortile, sui tetti delle case circostanti ci sono i soldati israeliani. L'obiettivo è di trasformarlo in un topo in gabbia, di isolarlo "in modo ermetico", di umiliarlo e di costringerlo a chiedere un salvacondotto per Gaza o per l'estero. I palestinesi, attraverso il telefono, unico legame con il mondo, si sono rivolti ad una comunità internazionale distratta da altre crisi: "La situazione è disperata, il raìs è incolume ma la sua vita è in pericolo".
Gli israeliani hanno dato l'assalto usando tank e bulldozer coperti da un fuoco pesante. Un tank ha sparato una cannonata contro l'ufficio di Arafat, che però in quel momento si trovava in un'altra stanza. Per lui solo un po' di polvere di calcinacci sulla divisa ormai stazzonata. Il tiro continuo delle mitragliatrici ha piegato la debole resistenza delle guardie.
Come in una guerra medievale, combattuta con armi moderne, gli israeliani hanno stretto lentamente l'assedio alla Mukata, all'interno della quale vi sarebbero circa 200 persone. All'alba i guastatori hanno demolito tre edifici del complesso, poi è toccato alle ruspe blindate che hanno scavato una grossa trincea per impedire qualsiasi movimento. In poco meno di 12 ore il quartier generale, già danneggiato da altri attacchi, è stato ridotto ad insieme di ruderi. Al calar della sera, sotto la luce dei riflettori e le telecamere della Cnn , è scattata la terza fase. Drammatica la sequenza. Le ruspe hanno demolito un corridoio sopraelevato che collegava la residenza privata di Arafat ad una palazzina usata per le riunioni. Altri bulldozer hanno bloccato l'ingresso principale, aprendo un buco nel muro di sostegno. Un colpo di maglio che ha seminato il panico tra le guardie del raìs. Oltre una ventina sono uscite con le mani sulla testa e la maglietta sollevata per mostrare che non nascondevano esplosivi. "Temiamo che crolli tutto", ha comunicato al telefono Nabil Abu Rudeina, l'"ombra" del raìs. Ma non è finita. I corazzati israeliani hanno ripreso a sparare sostenendo che si trattava di "tiri di risposta".

La stampa locale è concorde nell'affermare che il problema non è più il leader: "E' in coma politico, conta zero". E' evidente che il controllo di Arafat sui gruppi palestinesi è inesistente. Come lo è il legame con gli attentati degli ultimi giorni. Gli specialisti della polizia ammettono che molti attacchi sono pianificati dalla cellula locale, rispondono più alla logica della vendetta che ad un puro disegno strategico. La valutazione non ignora i piani delle fazioni radicali. Hamas, Jihad e persino le Brigate Al Aqsa insistono sulla scellerata via del "tanto peggio, tanto meglio". E intravvedono nel possibile conflitto Usa-Iraq un detonatore di una guerra regionale, dove finalmente gli arabi muovano contro Israele.
Ben Eliezer ha spiegato che l'assedio alla Mukata continuerà finché non si saranno arresi 20 ricercati nascosti nella palazzina. Gli 007 vogliono mettere le mani su Tafiq Tirawi, mente della sicurezza in Cisgiordania, e su Mahmoud Damra, il capo di Forza 17. Entrambi sono accusati di aver organizzato degli attentati. Incurante della situazione Hamas ha di nuovo rivendicato l'attentato di Tel Aviv, promettendo una raffica di attacchi. I contabili della morte precisano che il terrorista del bus era il kamikaze numero 76.


Germania, vigilia del voto avvelenata
Alessandro De Lellis su
Il Messaggero

Doveva essere il giorno delle masse entusiaste, schierate sui due lati della trincea: a Dortmund col cancelliere Gerhard Schroeder, a Berlino con lo sfidante Edmund Stoiber, due grandi feste a poco più di 24 ore dal voto. Ma ieri non è stata soltanto giornata di grandi comizi. E' stato l'ultimo, velenoso atto di una campagna elettorale imprevedibile e quasi ingovernabile. A rubare la scena ai duellanti è stato il caso del ministro della Giustizia, l'avvocatessa Herta Daeubler-Gmelin, che è dovuta correre nella capitale per smentire di aver messo a paragone l'operato di Bush verso l'Iraq con quello di Adolf Hitler. La Daeubler-Gmelin ha tentato di smontare la versione del giornale locale “Schwaebisches Tagblatt", ma non è riuscita a far svanire il sospetto che mercoledì, davanti a un gruppo di sindacalisti, le siano sfuggite frasi che un ministro non dovrebbe dire. Frasi che hanno fatto infuriare la Casa Bianca, già fredda con Berlino per il “no" tedesco alla partecipazione a un attacco all'Iraq. E' una crisi mai vista nei rapporti tedesco americani: il segretario di Stato Powell ha telefonato al ministro degli Esteri Joschka Fischer per comunicargli la sua irritazione. E a sera, il cancelliere Schroeder si è deciso a inviare un messaggio a Bush, per riparare al danno: "Presidente, nessuno nel mio governo può paragonarla a Hitler".
Con un tono deciso, che nascondeva un violento sforzo per mantenere la calma, Daeubler-Gmelin ha affermato che nell'incontro coi sindacalisti avrebbe fatto riferimento "alle discussioni che ci sono in America sui metodi di sviare l'attenzione, metodi che conosciamo dalla nostra storia". Accorgendosi che uno dei partecipanti scuoteva la testa, Daeubler-Gmelin (secondo la sua stessa ricostruzione) avrebbe immediatamente aggiunto che non intendeva fare alcun paragone fra Bush e il nazismo. A un certo punto della discussione, avrebbe nominato Hitler (anzi, per l'esattezza gli “Adolf-Nazi"). "Ho già spiegato tutto", ha risposto con durezza ai cronisti che le chiedevano chiarimenti. Lo sprezzante commento di Stoiber, in serata, davanti a migliaia di suoi sostenitori: "E' una vergogna che questa signora innominabile sieda ancora per un giorno, ancora per un'ora al suo posto". Ma di dimissioni, a poche ore dal voto, parla soltanto l'opposizione.
Davvero i tedeschi restano prigionieri della loro storia. Non solo in campo governativo c'è imbarazzo. I liberali, partito in ascesa, accreditato dal 7 al 9,5% dai sondaggi, sono scossi dal comportamento del loro vicepresidente, Juergen Moellemann, che ha fatto diffondere casa per casa depliant che attaccano Sharon e Israele. Il presidente del partito, Guido Westerwelle, ha disdetto tutte le apparizioni elettorali con lui. Dall'estrema destra, quella vera, è venuta l'unica grave provocazione di tutta la campagna: a Berlino per l'aggressione di un neonazista è finito in ospedale Christian Stroebele, il Savonarola dei verdi.
Difficile dire quali onde creerà fra gli elettori la crisi nei rapporti con gli Usa. L'Istituto Allensbach (pro-Stoiber) dava ieri la Spd al 37,5%, i suoi alleati verdi al 7,5, la Cdu al 37, i liberali al 9,5 e i neocomunisti al 4,5. Per l'istituto Forsa, invece, i rosso-verdi sarebbero in lieve vantaggio.
Con un piglio sicuro, che non tradiva la tensione della giornata, Schroeder ha salutato sedicimila militanti nella “Westphalenhalle" di Dortmund, in quella Renania-Vestfalia dove la Spd deve assolutamente prevalere, se vuole conservare il governo. Il messaggio del cancelliere: dateci altri quattro anni, io e il mio vice Joschka Fischer abbiamo lavorato bene sull'ambiente e per la giustizia sociale, contro la disoccupazione faremo di più. E in Medio Oriente serve "più pace, non un'altra guerra".



Scuola: tagli pesanti a casa 70 mila maestri
Mario Reggio su
la Repubblica

Una mannaia sta per abbattersi sulla scuola pubblica e la sanità. Settantamila maestri faranno le valige nei prossimi anni, fuori dalla scuola altri 45 mila insegnanti con l'aumento di un alunno per classe. Diecimila insegnanti di sostegno in esubero e ventimila bidelli superflui. Tagli anche nella sanità pubblica: riduzione dei giorni di degenza in ospedale, straordinari per tenere aperti laboratori d'analisi sette giorni su sette. Ovviamente senza oneri per lo Stato. E come se non bastasse cure termali solo per i grandi invalidi. I ministri interessati, Letizia Moratti e Girolamo Sirchia, negano tutto: "allarmismo ingiustificato, nessun taglio, non c'è stata alcuna decisione".
Malgrado le rassicurazioni i sindacati insorgono. Enrico Panini, segretario della Cgil scuola, commenta: "Si prepara una devastazione per la scuola pubblica a favore di quella privata. Il governo sappia che non ci fermeremo con le lotte e il 18 ottobre, con lo sciopero generale avrà la prima grande risposta". Si sveglia dal letargo anche la Cisl: "Il buon giorno si vede dal mattino - dichiara la segretaria scuola Daniela Colturani - risponderemo a queste scelte chiamando i lavoratori ad azioni di lotta".
Vediamo la cura dimagrante che si prepara per la scuola pubblica. Il rapporto medio provinciale alunni-classi è incrementato di una unità. Sembra un'inezia. Ma non è vero. Secondo il settimanale Tuttoscuola le classi sono 374.794, ne deriva la cancellazione di 17 mila classi e il taglio di 45 mila cattedre. Ritorna il vecchio maestro tuttologo: i maestri sono 240 mila, le classi quasi 140 mila. Oggi ci sono tre maestri per due classi. Si perde mezzo insegnante per classe. Vale a dire 70 mila esuberi. Falcidiati anche gli insegnanti di sostegno: il 20 per cento in meno significa, 15 mila docenti a spasso.
Non andrà meglio per la sanità. Cure termali gratuite solo per i grandi invalidi. Cinque posti letto ogni mille abitanti, controllo e monitoraggio delle prescrizioni mediche, farmaceutiche e specialistiche. Eliminazione o riduzione delle liste d'attesa. Ma come? Tenere aperti tutta la settimana negli ospedali gli ambulatori di analisi. Bene. Ma senza alcun finanziamento. E chi pagherà gli straordinari al personale? Semplice: faranno i turni. E ancora: ridurre i giorni di degenza dei malati. Peccato che siano già regolati per legge e ridotti all'osso. E infine, la ciliegina sulla torta, i direttori generali delle Asl, scelti dalle Regioni verranno licenziati se non raggiungono il pareggio di bilancio.


Premier nella morsa tra alleati, Confindustria e Bankitalia
Francesco Verderami sul
Corriere della Sera

La visita al capo dello Stato e il colloquio con il governatore di Bankitalia gli saranno sembrate altrettante, dolorose stazioni di una via crucis che finora era toccata a Tremonti. Ora, sarà pur vero che Berlusconi aveva delegato la gestione della politica economica al ministro, fidandosi delle sue scelte e difendendole dalle critiche degli stessi alleati. Sarà pur vero che una settimana fa il premier - allarmato per i nuovi dati sui conti pubblici - aveva affrontato il titolare del Tesoro con toni accesi, "perché ancora ad agosto mi avevi assicurato che tutto sarebbe andato abbastanza bene". E sarà pur vero che Tremonti - come ha ripetuto anche in Consiglio dei ministri - si è difeso spiegando come "dati così bassi sul tasso di crescita non li aveva previsti nessuno", e che "tutti sono stati colti di sorpresa". Ma per quanto possa apparire paradossale da ieri il problema per Berlusconi non è più questo. Il fatto è che da ieri il ministro dell'Economia ha smesso di essere il suo parafulmini, che d'ora in poi sarà il premier a doversi esporre in prima persona, e che non gli sarà facile ricomporre una situazione divenuta difficile, al punto da aver lacerato rapporti ritenuti inossidabili. Già l'altra sera - lasciando l'abitazione del Cavaliere - il presidente di Confindustria aveva definito "molto deludente" l'incontro. D'Amato sperava ancora che Berlusconi evitasse "scelte che metterebbero in difficoltà le imprese", lo aveva invitato anche ad "assumere la guida della politica economica". Su Tremonti i suoi giudizi sono da tempo severi, "addirittura si nega, non sono riuscito a parlargli, non parla più con nessuno". Per questo aveva considerato decisivo il colloquio con il capo del governo. Ma al termine del faccia a faccia c'erano rabbia e amarezza nelle sue parole, e già si intravvedeva una crepa nel rapporto. Quella crepa che ieri si è trasformata in un fossato, dopo una riunione durante la quale gli imprenditori hanno persino preso in considerazione la possibilità di sconfessare il Patto per l'Italia. Pare che D'Amato sia furibondo con il premier, colpevole di averlo "raggirato". "Ed è difficile dargli torto", sussurra un ministro: "Ci eravamo presentati come quelli che avrebbero diminuito la tasse e aiutato le imprese, e invece...".
E invece Berlusconi deve gestire l'emergenza come altri Paesi dell'Euro. Solo che il peso del debito pubblico mette in difficoltà il governo: "Dobbiamo evitare che salga - ha avvisato Tremonti in Consiglio - altrimenti ci metteremo nei guai con Bruxelles".

Ma d'ora in poi sarà il premier a doversi esporre in prima persona, specie dopo che Ciampi ha espresso pubblicamente i suoi timori sulla situazione economica, e dopo che Fazio ha fatto trapelare la sua irritazione per essere stato tenuto finora all'oscuro dal governo sulla futura Finanziaria. Ecco il motivo della visita del premier al Governatore. Quanto a Tremonti rimarrà al Tesoro, e non solo perché Bossi ha già fatto capire che se saltasse lui salterebbe il governo. Ma soprattutto perché Berlusconi non può sconfessare se stesso.


Il pentito della mafia: Lumia, ds, doveva essere assassinato
Saverio Lodato su
l'Unità

La "mafia invisibile" ha prodotto finalmente il suo primo pentito. La "mafia invisibile" con tutte le sue complicità politiche e istituzionali nuove di zecca, poco conosciute, assolutamente - sino a ieri - insospettabili. Si sgonfia il "caso Previti" nel presunto mirino della mafia, si apprende, invece, che a rischio vita è stato l'onorevole Giuseppe Lumia. C'è fibrillazione e paura in molti "palazzi" romani, e anche in Sicilia. Si parla di "terremoto giudiziario" in arrivo. "Onorevoli"? Si è sempre saputo che Cosa Nostra ha i "suoi". E a giudizio degli addetti ai lavori siamo in presenza di un fatto che ha dell' "epocale". Non era mai accaduto che si pentisse un rappresentante del gruppo dirigente di Cosa Nostra. Questo è un dato incontrovertibile. E si tratta di un boss che, sino a una settimana prima di essere arrestato, incontrava regolarmente Bernardo Provenzano del quale è stato l'indiscusso eterno braccio destro. Non era mai accaduto che mafiosi di quel rango passassero quasi senza soluzione di continuità dal "comando" alla "collaborazione". Buscetta o Calderone, quando iniziarono a collaborare, erano già precipitati molto in basso nella hit parade dell'organizzazione criminale. Nino Giuffrè, inteso "manuzza", invece, si può dire che sino a qualche mese fa era a pieno titolo il numero due di Cosa Nostra.
Per lo stato civile: 57 anni, sposato e padre di due figli (intera famiglia già messa al sicuro), perito agrario, insegnante. Per il casellario giudiziario: latitante da otto anni, destinatario di 13 provvedimenti cautelari, compresi quelli per le stragi di Capaci e via D'Amelio, già condannato all' ergastolo sebbene non ancora definitivo. Si occupò personalmente, all'inizio degli anni '80 della latitanza di Michele Greco, il "papa " di Cosa Nostra, sino al giorno del suo arresto in un casolare nelle campagne proprio di Caccamo. I pentiti dicono di lui: scaltro, riflessivo, gran mediatore negli "affari", abilissimo nell' ammazzare la gente "con le sue mani".
Ora Antonino Giuffrè, dal 19 giugno di quest'anno, sta parlando di tutto e di più. Lo fa con Grasso, Sergio Lari e Michele Prestipino che con Lia Sava coordinano le indagini per la DDA di Palermo. E il nuovo pentito parla non solo dei suoi "mandamenti" - quella "ricca" area Caccamo Termini- Imerese San Mauro Castelverde- Madonie che in realtà hanno finito con l'estendere la sua giurisdizione sull' intera Sicilia orientale -, ma dell' intera dialettica all'interno della "cupola". Ha ammesso di avere eseguito delitti e di averne commissionati altrettanti. Quanti? Almeno una trentina. Delitti dei quali non si era mai saputo nulla. Ha raccontato della sua e dell'altrui latitanza: modalità di comunicazione, tecniche di trasmissione dei famosi "bigliettini", quelli che da qualche anno a questa parte sono diventati gli autentici piccioni viaggiatori per tenere in contatto fra loro boss latitanti.
Ha disegnato un'incredibile mappa del taglieggiamento cui sono sottoposti imprenditori per ogni tipo di appalto pubblico, svelando in che modo Cosa Nostra, attraverso il controllo dei subappalti esercita il proprio potere sul territorio. E del resto, già il giorno della suo cattura (il 16 aprile 2002), i tanti bigliettini che gli vennero trovati nel marsupio la dicevano lunga sul suo ruolo in questa attività.
Tredici persone, come pronto accomodo, finiscono in manette: sono i nuovi "capi" della "mafia invisibile" delle Madonie. E prima di loro, nelle ultime settimane, altri quindici ne erano stati arrestati e sempre per effetto delle rivelazioni di "manuzza".
"Ma siamo appena all'inizio - dice il colonnello Riccardo Amato, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo - La consideriamo una collaborazione foriera di altre conseguenze". Accanto a lui, il capitano Antonino Buda, comandante della compagnia dei carabinieri di Termini Imerese, l'altro ufficiale che in questi mesi ha diretto le indagini i cui risultati si sono ora incrociati con quell'autentico fiume in piena delle dichiarazioni di Giuffrè.
E' una collaborazione, sembra proprio di capire, destinata a fare molta strada. "Intanto - dice visibilmente soddisfatto il procuratore Piero Grasso, - essere riusciti a parlare con un pentito in santa pace, e per tre mesi, senza vedere pubblicati sui giornali i verbali dei suoi interrogatori, ha quasi del miracoloso. Lui stesso, ricordando quanto accadeva in passato, si è meravigliato e ci ha chiesto: " Ma com'è che i giornali non scrivono nulla di me che parlo con voi?".



La lezione dell'ex-segretario, la grinta del successore
Piero Sansonetti su
l'Unità

Sergio Cofferati è il primo leader politico italiano che abbandona di sua volontà la ribalta, quando è giunto al culmine della popolarità - senza essere stato sconfitto - e torna a lavorare in fabbrica in cambio di un modesto stipendio che gli permetta di vivere, di pagarsi i biglietti per l'Opera e di fare politica nel tempo libero.
Guglielmo Epifani è il primo ex socialista (nel senso di esponente del vecchio Psi, e in particolare del vecchio Psi di Craxi) che sale sul seggio di capo della Cgil. Seggio esclusivo, quasi sacro, da sempre riservato ai comunisti e poi agli ex comunisti. Questi sono due dati di fatto. Sui quali si potrà discettare finché si vuole, ipotizzare cause e retroscena, sviluppi e sorprese, secondi, terzi e quarti fini. Ma sono fatti incontestabili e sono le due grandi novità della giornata di ieri, e cioè del giorno del passaggio di consegne e dell'abbandono, dopo otto anni, di Cofferati, che lascia Corso Italia, lascia Roma, torna a Milano e si prepara a riprendere il lavoro in ufficio, alla Pirelli, da cittadino comune iscritto alla Cgil.
Cofferati si presenterà in fabbrica il primo ottobre e inizierà il suo nuovo lavoro all'ufficio studi. Poi si vedrà. Per ora possiamo dire che dopo Cincinnato, è il primo - o quasi - a ritirarsi (Cincinnato però poi tornò, richiamato a gran voce dal popolo, e chissà che la storia non si ripeta...). In altri paesi quella di abbandonare la politica (diciamo genericamente il potere) è una cosa normale: negli Stati Uniti circolano quattro ex presidenti (senza considerare ovviamente Reagan), tutti piuttosto svegli e in forma fisica e intellettuale, ma impossibilitati, per legge, a tornare alla politica. Uno di loro - Clinton - ha appena cinquantacinque anni e forse è l'uomo politico più lucido dell'occidente: ma la legge è legge, e lui resta ai margini a guardare. Da noi no, non si usa. L'unico leader del dopoguerra che abbandonò la politica da giovane (aveva appena 38 anni, anche se era già considerato un vecchio saggio) fu Giuseppe Dossetti: era il vice di De Gasperi, era la grande speranza della Dc. Preferì mandare tutti a quel paese e farsi prete.
Ieri un giornalista ha chiesto a Cofferati se il giorno dello sciopero generale starà sopra o sotto il palco. Lui l'ha guardato stupito: "Che domanda è? Sotto, è ovvio: in piazza, che è il posto dove vanno tutti i militanti della Cgil il giorno dello sciopero generale. Sul palco ci stanno i dirigenti...". A Epifani invece hanno chiesto se si sente in grado di sostituire Sergio Cofferati e il suo carisma. Se non ha paura. Lui ha risposto con molta grinta, senza farsi intimidire. Ha detto che no, non ha paura: lui e Cofferati hanno una carriera praticamente parallela. Si iscrivono al sindacato negli stessi anni, salgono alla direzione di una categoria nello steso periodo, entrano in segreteria nazionale insieme.

E Cofferati? Davvero se ne va, davvero si ritira, davvero rinuncia alle lusinghe di mezza sinistra italiana che lo vorrebbe come suo leader, o come leader di tutti, o come futuro premier, o vicepremier o altro? Sì, davvero. Questo non vuol dire che in futuro Cofferati non possa tornare sulla ribalta della politica italiana. Per ora però quel che conta è che il suo gesto è un gesto serio, autentico, che comporta dei prezzi e delle rinunce, anche personali, anche umani, e che ci consegna alcuni messaggi politici piuttosto importanti. Primo, Cofferati ci fa sapere che di fronte a significative scadenze politiche il problema principale non è quello di sistemare in qualche modo i protagonisti. Cioè che la vecchia pratica democristiana (quella dei Cencelli, e delle compensazioni, e delle scacchiere del potere dove muovere, spostare, incastrare, sistemare pedine di ogni genere) non è il sugo vero della politica. Secondo, Cofferati ci fa sapere che nella vita non è detto che il problema principale sia quello di inanellare successi e prebende: non c'è nulla di poco dignitoso se un giorno un grande capo politico (o sindacale) decide di tornare a fare il lavoratore dipendente.
E non c'è niente di poco dignitoso, di conseguenza, per ciascuno di noi, se non ci capita di far carriera o magari ci succede di tornare indietro. E' un messaggio radicalmente anti-berlusconiano. Terzo, Cofferati ci dice che non è vero che esistono i leader insostituibili, e che non è vero che il problema fondamentale della politica italiana sia quelle di trovare il suo capo. Forse è il messaggio più importante, politicamente: non ne possiamo più , nessuno di noi ne può più del liderismo, e cioè dell'argomento politico del quale siamo stati costretti a discutere incessantemente per una decina d'anni, per altro senza mai venire a capo di nulla. Quello della politica senza leader (o almeno senza liderismo) sta diventando il sogno nel cassetto del popolo di sinistra.
Tuto questo non vuol dire che l'abbandono di Cofferati non sia un problema, ed un problema che si riproporrà probabilmente molto presto e che andrà affrontato in modo serio. Cofferati in questi ultimi anni, e ancora più in questi ultimi mesi, è stato un punto di riferimento fondamentale per la sinistra italiana. Lui, vecchio amendoliano e vecchio migliorista, ha preso sulle sue spalle il peso dello scontro duro col governo e con la destra, e ha offerto una sponda a settori politici e sociali molto vasti che erano entrati in rotta di collisione con le recenti politiche del centrosinistra. Ha svolto un ruolo fondamentale, di collante. Non un ruolo di divisione: un ruolo di riaggregazione. Non è facile sostituirlo in questo compito, proprio perché nessuno ha il suo carisma, la sua radicalità, e insieme la sua storia e il suo modo di fare che sono quelli di un uomo di sinistra, riformista e moderato.


Sindrome cinese
Cosimo Rossi su
il Manifesto

"Chi continua a parlare di sciopero generale unitario è uno che non ha capito quello che sta succedendo". E a non capire, secondo Sergio Cofferati, sono Massimo D'Alema e tutta quella parte dell'Ulivo che chiede alla Cgil di fare un passo indietro per aspettare il ritorno di Cisl e Uil nell'ovile degli avversari del governo. Perché è vero che da ieri le opposizioni sono di fronte al nuovo scenario sul quale si ricama ormai da mesi: il "disoccupato" più organizzato della politica italiana e la mobilitazione sociale che lascia in eredità alla Cgil. Quanto allo sciopero, il nuovo segretario Guglielmo Epifani e la Cgil intera hanno detto chiaro e tondo che indietro non si torna. Ma all'ombra dell'Ulivo questo non fa che alimentare lo scontro in corso sul futuro della coalizione e sul ruolo di Cofferati.
Alla base delle dichiarazioni della maggioranza ds circa l'opportunità di uno sciopero unitario c'è infatti la convinzione che anche il segretario della Cisl Savino Pezzotta e quello della Uil Roberto Angeletti dovranno prima o poi arrivare allo sciopero contro il governo. E qui si ripropone la divisione che c'è nell'Ulivo tra chi pensa - come l'ex segretario della Cgil - che lo scontro sociale ridefinisca oggettivamente il blocco sociale e politico dell'alternativa al governo Berlusconi e chi ritiene che si debba guadagnare il favore dei piani alti (di Confindustria o della Cisl) che hanno appoggiato il governo.
La minoranza ds ha già annunciato che al direttivo del primo ottobre chiederà l'adesione della Quercia allo sciopero. "Proporremo sicuramente un documento", dice Pietro Folena e conferma il portavoce di Aprile Vincenzo Vita. Per loro, come per Verdi e Pdci, è tutto l'Ulivo che deve aderire.
La convinzione del presidente dei Ds e dei suoi fedelissimi, come il capo dei senatori Gavino Angius, è invece che lo sciopero indetto dalla Cgil contro il patto per l'Italia "costringe Cisl e Uil a rimanere sulle loro posizioni". Lo stesso pensa il popolare Franco Marini, che se da un lato si scontra con Rosi Bindi sullo sciopero dall'altro afferma che non avrebbe firmato il patto.
C'è, in effetti, una parziale correzione rispetto a quando si accusava la Cgil di aver cercato l'isolamento, ma sempre e solo nell'ottica della distensione tra le segreterie dei sindacati. Per quanto le ragioni dello sciopero siano ufficialmente condivise, secondo il ragionamento dalemiano, meglio sarebbe darsi il tempo di arrivare a una mobilitazione unitaria. Questo anche alla luce del fatto che "non si può parlare di rilancio dell'Ulivo con il movimento dei lavoratori spaccato".



Crocifisso nelle scuole, la Chiesa frena la Lega
Alessandra Arachi sul
Corriere della Sera

Il tono della Padania è netto ed esplicito: "Nell'aula scolastica di vostro figlio c'è il crocifisso o no? C'era e qualcuno l'ha fatto rimuovere? Chi è stato e perché l'ha fatto?". Non esita il giornale della Lega, diretto da Umberto Bossi, e nella prima pagina di ieri aggiunge: "Fateci sapere, aspettiamo segnalazioni". Come se togliere il crocifisso dalle pareti fosse già un reato, come vorrebbe la proposta di legge che proprio la Lega ha presentato in Parlamento nel maggio scorso.

L'imposizione del crocifisso per legge non piace nemmeno ad un cattolico come Romano Prodi: "Il crocifisso bisogna averlo dentro. Credi che sia una di quelle cose in cui occorra una grande libertà, e anche la capacità di capire che cosa rappresenta per una intera società. Difficile pensare di imporlo proprio perché ha un valore molto profondo", commenta infatti il presidente della Ue, che si trova in sintonia con il pensiero delle Acli e, in maniera inattesa, anche con un editoriale del Foglio. Dice infatti Luigi Bobba, presidente delle Acli: "Tentare di imporre il crocifisso per legge sarebbe un passo indietro", mentre il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara chiosa: "Il ministro Moratti faccia appello al buon senso e lasci stare leggi ed ordinanze".
Già le leggi. E' Gianni Baget Bozzo, il prete politologo, che le invoca plaudendo l'iniziativa della Padania : "Anche il nuovo Concordato ha lasciato intatti i Patti lateranensi. E dunque il simbolo della Chiesa cattolica da noi è protetto anche dalla Costituzione". Baget Bozzo come Ignazio La Russa. Il presidente dei deputati di An, d'accordo con il giornale di Bossi, ricorda un episodio del 1946: "Quando la Regione Sicilia approvò una legge per esporre il crocifisso: passò all'unanimità, con i voti dei comunisti. Adesso invece sono i post-comunisti che collegano questo dibattito con l'immigrazione, facendo confusione tra accoglienza e sudditanza psicologica".
Risponde, a distanza, la diessina Livia Turco. Che non ha dubbi sull'iniziativa della Padania: "E' una buffonata di Bossi. Non capisco proprio dove vada a parare: non era lui che sparava a zero sulla Chiesa che difendeva gli immigrati? Adesso invece la difende: strumentalizza quello che gli serve per portare avanti la sua lotta all'immigrazione". Anche Livia Turco pensa che la religione vada scelta e non imposta: "Perché una religione imposta rischia di essere subita e strumentalizzata. Penso a mio figlio: ha scelto di frequentare l'ora di religione a scuola, dopo che ne abbiamo discusso insieme".


Piovani: "Così faccio ballare Pinocchio"
Curzio Maltese su
la Repubblica

La statuina è rimasta tre anni chiusa in un armadio. Chi lo conosce sa che è sincero quando dice che "l'Oscar è stata la più grande gratificazione della mia vita, non l'emozione più grande". Emozione è suonare la magnifica Pietà con i testi di Cerami nella piazza di Betlemme, un mese dopo i fasti di Hollywood, "letterale, dalle stelle alle stalle". Oppure trovarsi solo con un piano davanti ai tre milioni di manifestanti del 23 marzo, sul palco di Cofferati. Ora l'avventura ricomincia con Pinocchio, atteso dal paese dei balocchi del cinema mondiale: l'11 ottobre in Italia, il 20 dicembre a New York.
Non sarà come l'altra volta. Ma come se l'immagina?
"Non può essere come l'altra volta ed è un bene. Il rischio professionale degli artisti è ripetersi. L'amore del pubblico per La vita è bella era inimmaginabile. Siamo partiti con i produttori che ci chiedevano un film comico di scorta o di tagliare il finale con la morte del protagonista e ci siamo ritrovati a Hollywood. Ora sono tutti lì ad aspettare. Io sono sereno. Ho visto Benigni e Cerami lavorare con l'entusiasmo e la felicità creativa di allora, ricominciare da capo".
Si temeva che gli Oscar vi avrebbero americanizzato. Al contrario, avete scelto la storia più italiana che esista, non vi siete mossi da Terni, con una compagnia di attori sconosciuti oltre Chiasso...
"Non c'è nulla di più patetico che scimmiottare gli americani, oltre tutto partendo da una tradizione nazionale di altissimo livello. L'aspetto comico è che ora bisognerà spiegare al pubblico americano perché un italiano fa Pinocchio. Sono convinti che l'abbia inventato Walt Dysney".

Un precedente di alto livello è il film di Comencini con le musiche di Fiorenzo Carpi.
"Una delle più belle colonne sonore della storia del cinema italiano e forse la cosa migliore del film".
È difficile tornare su un mito. Ciascuno ha il suo Pinocchio, s'è immaginato il suo Paese dei Balocchi...
"È difficile ma permette anche di prendersi grandi libertà. Si possono fare cento Pinocchi, reinventarlo come ha fatto Dysney, che l'ha vestito da tirolese e ne ha dato una versione allegrotta. Oppure trascinarlo nella disperazione, come Carmelo Bene. Benigni ha puntato molto sulla corporalità di Pinocchio e perché no, sull'eros imploso davanti alla fatina. Quanto al resto, invidio molto Danilo Donati che ha potuto realizzare il sogno di fabbricarsi il Paese dei Balocchi e ne ha fatto un capolavoro".
Fra i personaggi preferiti c'è Lucignolo, l'amico e la parte di Pinocchio che non accetterà mai di crescere, il bimbo eterno che morirà asino, fra note strazianti e commosse.
"Lucignolo è il più ilare ma anche il più tragico. Vive una vita brevissima e totalmente libera ma crepa come una bestia, sotto le bastonate. Ho usato per tutti gli altri personaggi l'orchestra, solo a Lucignolo ho riservato un trattamento speciale: l'infantile e solitario suono di un organetto, in realtà una fisarmonica, che poi è lo strumento della mia infanzia, il primo che ho imparato a suonare".
Pinocchio che canta "ma quant'è vita la vita" è invece allegria pura. "Pinocchio è un personaggio danzante, lo è nel libro e nel film questa sua qualità musicale è esaltata dalla recitazione, dal modo di usare la voce e il corpo da parte di Roberto".
Hollywood vi aspetta. In questi anni hanno cercato in tutti i modi di coinvolgere Benigni nelle serate degli Oscar, i talk show più popolari l'hanno prenotato da tempo. S'è mai chiesto la ragione di tanto amore per uno che in fondo con l'american way of life non c'entra nulla?
"È una continua sorpresa, dal giorno in cui, arrivati a Los Angeles il tassista ci salutò con "Buongiorno, principessa!". È strano per me ricevere continue richieste di usare la colonna sonora per matrimoni, dall'Oregon al Texas. Comicità e musica hanno questo vantaggio di saper abbattere più facilmente le frontiere. Benigni è cresciuto nelle Case del Popolo ma ha la capacità di comunicare con qualsiasi pubblico per un meccanismo semplice che consiste nello scavalcare i luoghi comuni, le convenzioni linguistiche, con la stessa naturalezza con cui la notte degli Oscar scavalcava le sedie".


   21 settembre 2002