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Iraq, l'appello di Emergency "Fermate questa guerra"
Intervista a Gino Strada
Dario Olivero su
la Repubblica

Tra quindici giorni Gino Strada, chirurgo e fondatore di Emergency, l'associazione che cura i civili vittime di guerra, sarà a Bagdad. Prima di partire ha messo in piedi un'iniziativa: una raccolta di firme sul sito Internet di Emergency contro la guerra che, dice Strada, "viola i principi della nostra costituzione (Fuori l'Italia dalla guerra). Sono convinto che siano contrari alla guerra i due terzi, se non i tre quarti degli italiani. Però come facciamo pesare questa opinione? Uno degli strumenti è stato mettere questo appello su Internet".
Come sta andando?
"Il nostro server è saltato sia il primo che il secondo giorno. Adesso ne stiamo usando uno più potente. Nonostante questi intoppi in cinque giorni abbiamo raccolto circa 70 mila firme. I primi firmatari sono i primi cento amici che abbiamo trovato, non abbiamo telefonato volutamente a nessun politico proprio perché fosse l'espressione dei cittadini comuni. Quindi si trovano firme che vanno da Aldo Giovanni e Giacomo a Sergio Cofferati, da Roberto Benigni a Giorgio Bocca da Enzo Biagi a Francesco Totti"
Ci sono due obiezioni classiche a un'iniziativa come questa. La prima è che se l'Onu dovesse decidere per un intervento militare, si firmerebbe un appello che in qualche modo delegittimerebbe le Nazioni Unite. Come risponde?
"Lo spirito dell'Onu era quello di mettersi insieme per evitare che succedessero orrendi macelli come quello della seconda guerra mondiale. C'è da chiedersi quali siano stati, nell'evoluzione dell'Onu, i condizionamenti di paesi e potenze che di fatto hanno deligittimato questo spirito originario. Anche l'Onu è da ripensare, non ci può essere chi ha diritto di veto, non possono essere in cinque a decidere (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina ndr) mentre i rappresentanti di continenti interi non hanno quasi voce in capitolo".
La seconda obiezione è che c'è una parte non secondaria dell'opinione pubblica disposta ad accettare l'idea di una guerra preventiva, una guerra "giusta" per evitare conseguenze peggiori. Che cosa risponde?
"Il problema è che quando noi diciamo opinione pubblica, intendiamo l'opinione di quattro o cinque paesi che probabilmente insieme rappresentano il 15 per cento della popolazione mondiale".
Ma secondo lei non c'è nessun caso in cui si possa parlare di un intervento militare utile a evitare conseguenze peggiori?
"In modo molto sereno guardiamo le decine di conflitti successivi alla seconda guerra mondiale che hanno insanguinato questo pianeta (oggi ce ne sono circa 35 attivi). Ci sono studi di centri di ricerca svedesi che forniscono dati impressionanti: queste guerre hanno fatto milioni di morti, il 90 per cento erano civili. Non è più la stessa realtà di quando si affrontavano gli eserciti e si scannavano sul campo di battaglia".
Può fare lei un esempio di strumento alternativo alla guerra che funzionerebbe?
"La guerra in Afganistan è costata 600 miliardi di dollari. Quale sarebbe oggi la situazione dell'Afghanistan se anni fa qualcuno avesse deciso di investire quella cifra per fornire acqua, ospedali, scuole. Io credo che la scelta di investire soldi nella guerra così come quella di fornire prima le armi, siano strategie precise. Ormai la politica a livello internazionale non è più dominata da persone che la pensano in modo diverso, ma restano nell'ambito dell'opzione politica. Ormai comandano gruppi che hanno interessi economici grandiosi e che spesso sono vere e proprie bande di criminali. Loro scelgono di arricchirsi e di mantenere i propri privilegi in base ai quali il 20 per cento della popolazione possiede l'80 per cento delle risorse. E questo stato di cose lo mantieni con le armi".
Cosa le fa pensare che il pacifismo abbia qualche possibilità di opporsi alla situazione che ha appena descritto?
"Se non si cambia strada si potrebbe arrivare a quella che Noam Chomsky ha definito il rischio della fine dell'esperimento umano: l'autodistruzione. Senza fare del catastrofismo, è chiaro che questo mondo va nella direzione dell'allargamento del gap tra paesi ricchi e paesi poveri".
Lei sta andando a Bagdad. Ci sarà la guerra in Iraq?
"Sì, ci sarà. Purtroppo tutti i segnali vanno in quella direzione. Si stanno già spartendo il petrolio del dopo Saddam".
Lei ha detto che George Bush e Saddam Hussein sono responsabili e colpevoli allo stesso modo. Un'affermazione pesante. La conferma?
"Io ho detto che il terrorismo non è una cosa che possiamo liquidare con l'attentato alle Torri gemelle di New York. Quello è uno dei modi in cui si è manifestato. Ma si è manifestato anche con le armi chimiche, le atomiche sulla testa dei civili, gli embarghi che non permettono di portare medicine, i bombardamenti sulle comunità agricole del Nicaragua, il Cile, i kamikaze palestinesi e i carri armati israeliani. Tutto questo è terrorismo. Il terrorismo è il modo di fare la guerra oggi. In questo Bush e Saddam sono uguali".
Nel suo lavoro di medico al fronte non le è mai venuto il dubbio che la guerra sia una pulsione umana incancellabile e che tutto quello che fa sia vano?
"Nei nostri ospedali, che pure sono al fronte, non arrivano solo i combattenti: l'85 per cento dei feriti sono civili. Questi qui non hanno nessuna pulsione, il 30 per cento sono bambini. Deve passare il messaggio che la guerra non funziona. Chi prenderebbe un farmaco che avesse come indicazione che non funziona? E in più ha degli effetti collaterali devastanti?"
Com'è la situazione oggi in Afghanistan?
"A Kabul c'è il grande circo. Affittare una villetta costa 5 mila dollari al mese, roba da Central Park. Sono i soldi degli aiuti che le organizzazioni pagano e che vanno a ingrassare una piccola aristocrazia. Su un milione di abitanti, si è creata ricchezza e lavoro per circa tremila persone. Nel resto del Paese non è cambiato niente, le condizioni di vita sono le stesse, i signori della guerra non solo sono lì, ma si stanno arricchendo perché hanno gli appalti della costruzione delle infrastrutture militari americane".
Ma in Afghanistan la situazione politica è cambiata, è caduto un regime.
"I mutamenti di regime, i cambiamenti di dittatori sono effetti collaterali della guerra che non spostano niente della condizione di vita della popolazione. Ad ogni nuova guerra cambiano i vincitori, cambia il potere, ma i meccanismi sono gli stessi. E ogni volta per i civili sono nuove miserie, nuovi lutti".
Continuerà a fare il chirurgo o ha altri progetti per portare avanti le sue idee?
"Se mi sta chiedendo se entrerò in politica, la risposta è no. Continuerò a fare il chirurgo e a cercare di promuovere una cultura di pace".


Bush fa un passo verso l'attacco a Saddam
Ennio Caretto sul
Corriere della Sera

WASHINGTON - Primo passo concreto di Bush verso la seconda guerra contro l'Iraq in dodici anni: il Presidente ha inviato al Congresso una bozza di risoluzione con la quale chiede l'autorizzazione per impiegare "tutti i mezzi che riterrà opportuni, inclusa la forza, per costringere Saddam Hussein a rispettare le risoluzioni dell'Onu, per difendere la sicurezza degli Stati Uniti, e per riportare la stabilità e la pace nella regione". Discutendone con i giornalisti, il presidente americano, che oggi presenterà analoga proposta all'Onu, ha ribadito che il suo obiettivo è la caduta del raìs. Dura la risposta di Bagdad: "Bush s'inventa l'accusa delle armi di distruzione di massa per attaccarci e assumere il controllo della politica e del petrolio del Medio Oriente".
BUSH - Una settimana dopo il discorso al Palazzo di Vetro, dove era parso chiedere l'appoggio internazionale a una azione militare, il presidente ha chiarito che, "se l'Onu non affronterà il problema, gli Stati Uniti e alcuni alleati lo faranno. L'Onu deve lavorare con noi e le altre parti per un messaggio inequivocabile: Saddam Hussein deve disarmarsi". La pista del negoziato? "Non c'è nulla da negoziare con lui, nessuno può fidarsi". Il presidente ha rifiutato di svelare quali alleati combatterebbero al suo fianco: "Sarà il tempo a dirlo". Ha concluso di volere dal Congresso "un assegno in bianco" e di essere certo di ottenerlo. Nel testo della risoluzione, ha rievocato quella del '98 che autorizzò il predecessore Clinton a un intervento armato contro Bagdad per "materiale e inaccettabile violazione" della volontà dell'Onu.
SADDAM - Attraverso il discorso letto da Naji Sabri al Palazzo di Vetro, il raìs si dice pronto "a ricevere esperti scientifici accompagnati da politici", non da militari o agenti segreti, come prologo alla revoca delle sanzioni contro l'Iraq, smentendo di possedere armi di distruzione di massa. Denuncia "l'asse America-Israele" chiedendo che il Medio Oriente diventi una zona denuclearizzata, come deciso dall'Onu, un riferimento alle armi atomiche israeliane. E ha imputato alla Superpotenza la morte di un milione e 700 mila iracheni. Il portavoce della Casa Bianca Ari Fleischer ha definito il discorso "un fiasco di cui dispiacersi, la dimostrazione che Saddam Hussein non intende cambiare, una palese menzogna". Parlando al Senato, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha offerto una soluzione a sorpresa: l'esilio del raìs, come avvenne per lo scià di Persia e il dittatore filippino Marcos.
L'ONU - Lo svedese Hans Blix, il capo del programma di ispezioni, ieri ha fatto un rapporto al Consiglio di Sicurezza, sui suoi incontri d'inizio settimana con gli iracheni. Negando che l'Iraq abbia posto condizioni alla ripresa delle ispezioni (come ha sostenuto Colin Powell al Senato Usa), Blix ha per la prima volta invece ipotizzato una data per la ripresa dei controlli: il 15 ottobre, ha detto, spero di poter inviare il primo gruppo di esperti. Gli Stati Uniti, però, nonostante queste nuove aperture, preparano la loro mozione: essa richiamerà Bagdad all'osservanza di tutte le passate risoluzioni del Consiglio; citerà l'articolo 51 dello statuto dell'Onu che sancisce il diritto degli Stati membri alla legittima difesa: e solleciterà il via libera all'impiego della forza. Mentre la Cina propende per un'astensione, la Russia minaccia di opporsi, come ha indicato il ministro della Difesa Sergei Ivanov, e la Francia propone una mozione in due tempi, una per criteri rigidi nelle ispezioni, e una successiva, a seconda degli eventi, sull'intervento armato.
I PACIFISTI - I parlamentari invitati alla Casa Bianca hanno dichiarato che la risoluzione del Congresso passerà prima del suo aggiornamento il 4 ottobre per le elezioni: Bush se ne vuole servire come strumento di pressione sull'Onu, presentando al mondo un fronte americano unito. Ma si alza la protesta dei pacifisti, che in 4 mila hanno firmato un documento di una pagina sul New York Times contro la guerra: tra loro, Jane Fonda e Tom Hayden, marito e moglie ai tempi del conflitto vietnamita, poi divorziati; gli intellettuali Gore Vidal, Alice Walkers, Kurt Vonnegut e Noam Chomsky; il regista Oliver Stone e gli attori Susan Sarandon e Danny Glover.
ARMI BIOLOGICHE - Con scarso tempismo, Washington ha scelto il momento del confronto sull'Iraq per cancellare i negoziati sul controllo delle armi batteriologiche, sebbene facciano parte dell'arsenale di Saddam Hussein. Dopo aver firmato il relativo trattato nel '72, insieme con altri 143 Paesi, l'America ha obiettato che non è verificabile - in realtà rifiuta le ispezioni delle sue aziende per questioni di brevetto - e annunciato che non riprenderà le trattative fino al 2006. Un'altra manifestazione di unilateralismo.


Tremonti: l´economia frena, crescita allo 0,6%
Mario Sensini su
La Stampa

La crescita dell'economia sarà più bassa, il deficit di quest'anno superiore alle previsioni, ma il governo non modificherà programmi ed obiettivi. La prossima Finanziaria perseguirà il risanamento "strutturale" dei conti pubblici e permetterà una riduzione del rapporto debito/pil senza ricorrere a manovre draconiane di correzione che avrebbero un effetto controproducente sull'economia già debole. "Rispetteremo il vincolo del Patto di Stabilità europeo e daremo attuazione al Patto per l'Italia" ha detto ieri il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, annunciando la revisione al ribasso delle previsioni di crescita del 2002, dall'1,3% del Dpef di luglio allo 0,6%, e del 2003, dal 2,9 al 2,3%. La minor crescita si tradurrà quest'anno in un deficit sensibilmente superiore alle previsioni, dall'1,1% programmato a "meno del 2%", mentre per centrare l'obiettivo di deficit del 2003 si seguiranno "le indicazioni tecniche e politiche" che stanno emergendo in sede europea e che tengono in pieno conto, al fine del rispetto degli obiettivi, degli effetti negativi della minor crescita. I numeri saranno contenuti nella Relazione Previsionale che accompagnerà la Finanziaria, ma il ragionamento esposto ieri da Tremonti alla Camera, nel corso del dibattito sui conti pubblici sollecitato dall'opposizione, lascia aperte due possibilità. La prima, quella di aumentare l'importo della manovra di correzione dei conti nel 2003, che peraltro è stata già rafforzata dai 20 miliardi di euro di cui si parlava inizialmente, a circa 22 miliardi. La seconda, quella di concordare con la Ue un obiettivo di deficit per il 2003 più alto dello 0,8% che era stato promesso con prospettive di crescita migliori. Anche se Tremonti non si è sbilanciato, la seconda ipotesi sembra rispondere meglio alla logica esposta dal ministro. "Gli scostamenti tra previsioni e andamenti dovuti al ciclo non si qualificano come sfondamenti, essendo completamente assorbiti dagli stabilizzatori automatici" ha spiegato Tremonti. Vuol dire che se la crescita è più bassa del previsto il deficit può essere più alto, senza pregiudicare la posizione strutturale della finanza pubblica. Per l'Italia, in sede europea, è stato accertato che a un punto di crescita in meno corrisponde un deficit più alto di mezzo punto. E dato che tra il 2002 e il 2003 la minor crescita è di 1,2 punti il deficit 2003, seguendo la tecnica europea, potrebbe essere superiore di qualche decimale allo 0,8%. Depurato dalla congiuntura, ha detto Tremonti, "il saldo strutturale migliorerà e si posizionerà all'interno degli obiettivi del Patto di Stabilità". Il vero deficit, insomma, sarà "all'interno del close to balance", che come ha ricordato Tremonti, è comunque una "misura" stabilita politicamente, "su proposta della Commissione, ma in sede Ecofin", cioè dai governi. Quello che Tremonti ha invece detto assai chiaramente è che il governo farà di tutto per ridurre il rapporto debito/pil anche "con l'intensificazione dei programmi di privatizzazione e con la razionalizzazione della struttura del debito". "Siamo pienamente consapevoli degli obblighi europei. A questo è rivolto il nostro impegno, a completare il processo di risanamento della finanza pubblica", ha detto Tremonti con un evidente riferimento al monito lanciato recentemente da Carlo Azeglio Ciampi, "ma anche - ha aggiunto - ad accelerare simmetricamente le riforme che più incidono sulla crescita dell'economia". Alla riforma fiscale, nonostante l'invito più o meno esplicito lanciato ieri dalla Bce, il governo dunque non rinuncia. Nel corso del dibattito Tremonti ha replicato a tutte le accuse che gli sono state mosse dal centro sinistra, e in primo luogo a quella di aver peccato di eccessivo ottimismo. "Un'accusa simile - ha detto - non dovrebbe essere rivolta solo a noi, ma a tutti i governi europei, alla Commissione Ue e al G7" che hanno progressivamente preso atto di un peggioramento dell'economia non prevedibile. "In ogni caso - ha aggiunto - d'ora in avanti adotteremo le previsioni della Ue, così se qualcuno vuol far polemica la farà con Bruxelles e non con noi". Poi è passato all'attacco, accusando l'opposizione di "non aver mai avanzato una proposta positiva". L'alternativa "non è tra catastrofismo e ottimismo, ma tra catastrofismo e responsabilità" ha concluso Tremonti, che ostentava davanti a sé la copertina del "Breviario dei politici" di Giulio Mazzarino, libretto pieno di preziosi consigli scritto dal cardinale napoletano, tutore del giovane Re Sole, e padrone incontrastato della Francia per vent'anni. C'è chi lo ha preso come un monito all'opposizione, come per dire: "Non vi libererete facilmente di me".


La commedia è finita
Massimo Riva su
la Repubblica

A cinquecento giorni da una vittoria elettorale che gli ha regalato una maggioranza parlamentare con cui fare e disfare a piacimento, il governo di Silvio Berlusconi è costretto ad ammettere di avere venduto agli italiani una politica economica avariata. Invece di godersi quel prodigioso miracolo che ha abbacinato milioni di elettori e sul quale si è giocato un bel pezzo di credibilità anche il governatore della Banca d'Italia, oggi il Paese è chiamato a fare di nuovo i conti con l'emergenza finanziaria, in un quadro congiunturale che tutto promette fuorché il Bengodi che il presidente del Consiglio - ormai stonato come un disco rotto - non si stanca di propagandare.
Sarebbe troppo pretendere dall'onorevole Berlusconi che egli abbia il coraggio politico e il senso di responsabilità istituzionale di riconoscere in prima persona l'inganno perpetrato alle spalle degli italiani. C'è un insormontabile ostacolo caratteriale e psicologico che impedisce questa operazione verità: il "piazzista di Arcore", come lo chiamava Indro Montanelli, è uomo dal sorriso infrangibile, che non ama dare cattive notizie, che desidera solo applausi, che è intriso di quella cultura dello spot televisivo per cui tutto deve apparire (l'essere non conta) bello, attraente, positivo. Ecco perché ieri la parte ingrata di far cadere almeno i primi veli sulle favole raccontate agli italiani è stata affidata ad altri: all'onorevole Giulio Tremonti, che non è soltanto il ministro competente per i conti pubblici, ma che è stato anche la degna "spalla" di Berlusconi nella recita di questi sedici mesi sul tema del miracolo economico annunciato e mai neppure intravisto.
Già al principio dell'estate il ministro dell'Economia aveva dato un robusto taglio alle allegre stime di crescita della ricchezza nazionale, che aveva fatto giusto un anno fa, infischiandosi di tutto, perfino dei contraccolpi della tragedia americana dell'11 settembre sull'intera economia mondiale. Da una previsione iniziale di aumento del prodotto interno lordo (Pil) del 2,3 per cento si era così passati a quasi la metà: 1,3 per cento.
Ora che l'estate volge al termine e dopo che Fondo monetario, Commissione di Bruxelles e financo la domestica Confindustria hanno di nuovo ridimensionato i loro pronostici, buon ultimo il ministro Tremonti china il capo e si rassegna a prevedere una crescita dello 0,6 per cento: meno della metà di quanto assicurato appena tre mesi fa, un quarto di quanto indicato con la Finanziaria dello scorso anno.
Per giustificare simili svarioni Tremonti si è riparato dietro l'orizzonte malcerto dell'economia internazionale, le tensioni sul prezzo del petrolio, il cattivo andamento delle Borse mondiali. Evidentemente, ancorché tosato della sua sicumera, il lupo non perde il vizio della finzione scenografica. Infatti, i segnali di frenata dell'economia americana ed europea, nonché di caduta dei mercati azionari, sono di parecchi mesi precedenti il fatidico 11 settembre e un anno fa è stato il ministro Tremonti (e non altri) a non volerli vedere seppellendoli sotto un irresponsabile ottimismo di facciata. Oggi si può essere solo lieti che il ministro si guardi attorno per il mondo e scopra che c'è anche una congiuntura internazionale di cui tener conto. Peccato che sia un po' tardi e la frittata ormai sia fatta.
Del resto, a riprova che non è facile per questo governo abbandonare il vizio della millanteria, il ravveduto ma incorreggibile Tremonti ha assicurato che, a dispetto del minore incremento del Pil, egli riuscirà a contenere il deficit di quest'anno sotto il 2 per cento, mentre nel 2003 si avrà una crescita del 2,3 per cento e un forte avvicinamento al pareggio di bilancio.
Ancora una volta cifre che appaiono scritte sull'acqua. A fine agosto - ultimo dato disponibile - il "buco" nei conti pubblici superava i 30 miliardi di euro, oltre il 2 per cento del Pil. Che cosa immagina Tremonti per riportarlo sotto questa soglia in soli tre mesi? Mistero. Quanto all'anno prossimo, anche peggio. La Confindustria - non l'opposizione rossa - calcola che per raggiungere non il pareggio ma un deficit dello 0,8 per cento nel 2003 sarebbe necessaria una manovra da circa 40 miliardi di euro: praticamente il doppio di quella prospettata dal ministro dell'Economia. E così siamo di nuovo al punto di partenza.
Perché questa pervicace volontà di non dire agli italiani la verità sullo stato effettivo dei conti pubblici? Delle resistenze caratteriali di Berlusconi s'è detto, ma il ministro Tremonti perché? Una ragione probabilmente c'è. Al principio si poteva pensare che egli inseguisse davvero il miraggio di una ripresa miracolosa. Oggi la spiegazione va cercata sul terreno dei rapporti politici. Gli ampi sostegni di cui il governo Berlusconi godeva all'inizio della sua opera vacillano. A prendere le distanze per primo è stato chi forse si era esposto di più, come il governatore della Banca d'Italia. Ora però il malcontento è sempre più forte anche nel mondo imprenditoriale, al punto da spingere perfino un fan berlusconiano come l'attuale presidente di Confindustria a criticare apertamente il governo. Poi c'è il profondo imbarazzo di quei sindacati, come Cisl e Uil, che si sono spesi nell'operazione Patto per l'Italia e adesso si vedono ripagati con un piatto di lenticchie sul terreno salariale. Da ultimo - e forse per Tremonti ancora più minaccioso - c'è il malessere che serpeggia fra i cosiddetti centristi della maggioranza, i quali fanno capire che è ora di finirla con le favole ed, anzi, che è il momento di procedere a un'operazione verità sui conti come premessa per spiegare al paese le manovre necessarie e per recuperare credibilità all'estero. In linea, per altro, con le sollecitazioni sempre più pressanti che vengono dal Quirinale e che - non a caso - infastidiscono i tremontisti della Lega.
In questo scenario Tremonti non può non aver capito: 1) che il sipario sta per calare sulla commedia del miracolo economico dietro l'angolo; 2) che a pagare il conto del teatro non sarà l'impresario-capo per la semplice ragione che Silvio Berlusconi è il padre-padrone della compagnia; 3) che la vittima sarà, quindi, chi ha fatto da spalla al presidente del Consiglio nella recita economica. Nel tentativo di allontanare da sé il momento della resa dei conti, al ministro non resta che insistere nel promettere che tutto si aggiusterà, anzi si sta già aggiustando. Così prendendo tempo, ma rendendo ancora più sicura la fine ingloriosa dell'avventura. E più salato il conto per gli italiani


Pisanu ha visto terroristi a San Giovanni
"Crescono più si inasprisce lo scontro"
Gianni Cipriani su
l'Unità

Che il terrorismo, oggi come nel passato, cerchi di agire come soggetto politico, oltreché criminale e che, quindi, abbia interesse ad inserirsi nei movimenti di protesta, di alimentare segmenti dello scontro sociale, è fin troppo ovvio. L'analisi si trova in decine di saggi e, tanto per fare un esempio molto chiaro, è alla base di molti ragionamenti della Cgil, ossia dell'organizzazione che più – secondo la propaganda polista – sta alimentando lo “scontro”.
Da qui a ipotizzare un collegamento diretto tra “movimenti” ed eversione, ovvero che lo scontro sociale è il miglior paravento del terrorimo, la strada è lunga. Molto lunga. Ma nel Polo c'è sempre chi cerca scorciatoie. Ed ora, dopo il fallito tentativo di far passare Cofferati come una sorta di mandante morale dell'omicidio Biagi, l'argomento è ripreso dal nuovo ministro dell'Interno, Pisanu, che in una intervista al “Sole 24 Ore” ha sostenuto che il nuovo terrorismo interno rischia di infilarsi nel conflitto sociale e politico. Ed ha aggiunto: “Una inclinazione che cresce quanto più lo scontro si inasprisce e diventa violento”.
Lavoratori, area no-global ed anche i girotondi. Pisanu ha lanciato il suo messaggio assai chiaro: “Temo l'avversione di molti alla sinistra ufficiale e parlamentare: un'avversione che può crescere sino a saldarsi con movimenti che da altre posizioni pensano di costruire una sinistra alternativa a quella che viene definita socialdemocratica. Il nostro Paese ha invece bisogno di una sinistra parlamentare che non si lasci suggestionare dalla piazza”. Insomma, secondo la teoria para-berlusconiana – nel dibattito interno alla sinistra o alle sinistre, bisogna fare i conti con il “convitato di pietra” terrorista e di conseguenza abbandonare le piazze e mettere da parte ogni forma di protesta. Altrimenti si alimenta l'eversione. Affermazioni che, se messe di fianco ad alcuni recenti commenti del Polo sul 14 settembre, potrebbero far pensare che a piazza San Giovanni c'era circa una milionata di possibili fiancheggiatori delle Brigate Rosse.
Meno male che nell'intervista il responsabile del Viminale aveva sostenuto di non voler affrontare il tema delle possibili contiguità tra Brigate Rosse ed area no global. Perché l'esponente di Forza Italia ha immediatamente aggiunto: “Certo, la vicinanza è nell'ordine naturale delle cose”. Poi ha citato il “significativo e istruttivo articolo, su Le Monde Diplomatique, in cui Toni Negri teorizza lo spiazzamento dei socialdemocratici e la ricomposizione della sinistra mettendo insieme il movimento, la classe operaia che protesta contro il Patto per l'Italia, gli immigrati sfruttati. Insomma, tutto ciò che può costituire, per dirla con il linguaggio di Toni Negri, la classe combattente del nuovo comunismo contro il nuovo Impero”. Presentata in questi termini ci sarebbe da pensare che Cofferati, l'intera Cgil, Flores D'Arcais e perfino Moretti sono strumenti, chissà quanto consapevoli, dei nuovi disegni di Toni Negri. Pisanu non lo dice direttamente, ma aggiunge: “si muovono gruppi diversi: si vedono per esempio vecchi personaggi di Potere Operaio che contendono a Casarini la leadership dei disubbidienti e si intravede l'intelligenza, la cultura , l'esperienza rivoluzionaria di Toni Negri”. Dunque? Non c'è allarme, “ma attenzione tanta, perché qualcosa di importante sta accadendo”.
Daria Colombo e Marina Astrologo, due delle promotrici dei girotondi hanno letto le dichiarazioni che il ministro Pisanu ha rilasciato a "Il sole 24 ore" e in toni diversi, replicano con fermezza o ironia alle preoccupazioni che il responsabile del Viminale ha esternato a proposito del movimento.
"Questa esternata preoccupazione del ministro Pisanu su come far andare bene l'opposizione o come tenere unita la sinistra mi sa tanto di preoccupazione di altro tipo. Perché non credo che sia una preoccupazione sua reale". Così replica Daria Colombo. "Se qualcuno a parole -prosegue- perché nei fatti dubito che sia possibile, pensa di strumentalizzare delle folle che altri hanno radunato, questa non è una cosa che il ministro deve dire a noi".
Daria Colombo poi conclude: "Io avverto invece una preoccupazione diversa: ossia il fatto che piazza San Giovanni è stata un'evidente manifestazione pacifica, sottolineo pacifica, di gente moderata, rispettosa delle istiuzioni, che ha trovato un denominatore comune pure nella diversità di tanti, nella indignazione verso le scelte di questo governo". Anche Marina Astrologo, con una punta di ironia, contesta le affermazioni del ministro dell'Interno. "Io da sempre sono in guardia contro i furbi. Ho paura di quelli che sono troppo furbi, che la sanno troppo lunga e che alla fine si incartano con le loro parole. Così come risulta dalle loro stesse affermazioni, non hanno capito niente di cosa sia il nostro movimento".
Ieri, infine, il Viminale ha polemizzato con l'Unità, che ha rivelato l'ipotesi di studio di inserire nuclei speciali all'interno dei reparti mobili in vista del prossimo autunno caldo. Notizie “destituite di fondamento”, è stato detto in una nota. Eppure il Viminale avrebbe potuto smentire che questa ipotesi sia stata mai messa sul tavolo, come invece ha confermato il Silp-Cgil; oppure dire che mai e poi mai si è cercato il consenso delle organizzazioni sindacali o sia stato saggiato il terreno. Avrebbe potuto dire che il manganello Tonfa verrà ritirato, al pari dei lacrimogeni con gas urticanti. Nel merito, ovviamente, nulla è stato smentito. C'è solo l'assicurazione che la strada sarà quella del “dialogo” e della “distensione”. Più o meno ciò che era stato ufficialmente promesso prima di Genova.


Le stagioni di Cofferati
Carla Casalini su
il Manifesto

Al suo passaggio gli applausometri vanno in tilt, una sorta di Madonna pellegrina che di piazza in piazza, girotondo, assemblea, accende e rianima le speranze e l'azione di donne e uomini di sinistra, democratici, ben oltre i luoghi del lavoro già impegnati in lotte e scioperi. Da un anno in qua, insomma, Sergio Cofferati è divenuto il campione dell'opposizione al governo Berlusconi, che riunisce diversi protagonisti e differenti settori sociali. A buona ragione: da tempo è lui che insiste, reagendo alla destra con un'operazione di controcultura, sul nesso inestricabile che lega "i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza", le libertà e i poteri, il "fondamento democratico" che questo governo minaccia in un disegno di "società autoritaria". E' il congresso nazionale di febbraio a sancire quella che è una vera e propria svolta nella politica e nell'agire della Cgil, ma il momento della decisione definitiva per Cofferati scatta prima delle elezioni, prima della vittoria delle destre, scatta nella primavera dell'anno scorso, quando alle Assise di Parma 2001 della Confindustria si esplicita il "programma in fotocopia" di Berlusconi e D'Amato. Sarà anche l'occasione, per Cofferati, di bacchettare seccamente i leader del centrosinistra che mostrano di non avere ancora capito, che traccheggiano.
Una "svolta" a tutto campo per un sindacato rispetto alle scelte precedenti, che datano da prima e proseguono durante la segreteria del migliorista Cofferati. Con una interruzione brusca, nel `94, Cofferati è solo da giugno alla guida della Cgil , è l'esordio di Berlusconi al governo e con lui si apre uno scontro durissimo per la difesa delle pensioni: le tappe si ricordano, Cgil, Cisl, Uil riempiono le piazze di Roma, impongono lo stralcio delle "pensioni" dalla finanziaria, minacciano lo sciopero generale, e Berlusconi perde. Di lì a poco, indebolito, abbandonato dai poteri forti economici e finanziari, cadrà sotto la sfiducia di Umberto Bossi. A Sergio Cofferati spunta l'aureola di leader.
Ma, col ritorno delle alleanze e poi dei governi di centrosinistra, riprende l'epoca della "concertazione" degli anni `90, sorta di unità nazionale trasferita nelle relazioni sindacali, sociali, inaugurata dal governo Amato nel `92 con un patto che la Cgil non vuole, ma perde e firma (Trentin si dimette), che elimina la scala mobile e l'impianto del doppio livello contrattuale. E'però nel `93, col governo di Ciampi, che la Cgil di Trentin invece tratta e firma l'accordo centrale, che ripristina il modello di contrattazione ma impegna i sindacati a stringere i salari dentro i vincoli della "inflazione programmata" e ad accettare un programma di larga "flessibilità" del lavoro. E' l'ingresso della stessa Cgil tra i soggetti istituzionali che concertano centralmente in nome degli "interessi generali": Sergio Cofferati sostiene e interpreta quella politica.
Così col governo Prodi si contribuisce all'entrata nell'euro - i sindacati per parte loro mettono sul tavolo la "moderazion salariale" - e si tratta il famoso "pacchetto Treu" che aumenta la "flessibilità" in maniera esponenziale. I sindacati continueranno su quella strada, con accordi di cui un esempio tra gli ultimi è l'accordo sulla net-economy, stretto con Confindustria per lavoratori futuri di cui si rendono più precarie condizioni e diritti. Sul piano politico, la Cgil di Cofferati sosterrà il governo Prodi contro la sua messa in crisi, e la rottura con Rifondazione. Ma la crisi è già iniziata più a fondo, e le politiche di concertazione continuano ma sbiadite per perdita di consenso - nella Cgil vi si oppone la sinistra, cominciano a non rassegnarvisi i lavoratori che via via perdono salario mentre i profitti hanno un boom, e proprio nei contratti i metalmeccanici proveranno a dilatare i vincoli, senza farcela. La "concertazione" comincia a sembrare un ferrovecchio anche alla Confindustria, che l'ha usata quando le garantiva vantaggi, ma con la "globalizzazione" il gioco si fa duro e appare non più conveniente mediare col sindacato, coi governi di centrosinistra.
Sono questi stessi governi a dare lo spunto, intensificando le politiche liberiste, ma "temperate", per la preparazione di un clima più crudo. La Cgil starà sostanzialmente ferma, ma iniziano gli scontri tra Sergio Cofferati e Massimo D'Alema, e poi Giuliano Amato. E' allora che Cofferati comincia a essere chiamato "Signorno", e "conservatore" glielo butta addosso più volte d'Alema, che anticipando Berlusconi propone di "modificare" l'articolo 18. Nel nuovo clima crudo, la Confindustria riesce a dividere i sindacati, firma con Cisl e Uil l'intesa separata sui contratti a termine, la Cgil dice no, l'ultimo ministro del lavoro del centrosinistra, Salvi, non consente, ma le elezioni sono alle porte, e mentre alcuni ancora si illudono, altri intravedono la vittoria delle destre.
Sergio Cofferati preferisce aspettare l'esito del voto politico e sposta il congresso nazionale della Cgil: tutto il sindacato deve schierarsi contro Berlusconi, e gli pare non opportuno aprire una discussione a tutto campo che coinvolga dirigenti e delegati e donne e uomini nei luoghi di lavoro a discutere del passato per attrezzarsi al futuro, elaborare una diversa strategia sociale e politica. Eppure ce ne sarebbe bisogno. Il passato ha segnato profondamente il sindacato: per inverare la "svolta" dovrà seguirne un capovolgimento di pratiche nei contratti, nell'azione quotidiana, una rielaborazione di cultura, che gli stessi dirigenti riorientino se stessi di 180 gradi. E' il problema che si apre oggi, nel dopoCofferati. Pur se l'agire nel cambiamento, l'anno di pratica della "svolta" produce già uno spostamento - certo non garantito in assoluto - di speranze, di coscienze, di ardire di pratiche.
2001: al clima crudo reagiscono per primi i metalmeccanici della Fiom. Federmeccanica attacca sul contratto nazionale, ottiene l'accordo separato da Fim e Uilm; la Fiom prende una decisione difficile e netta: indice uno sciopero da sola. Sostiene concretamente l'esercizio dei diritti, della democrazia: devono essere i lavoratori, col voto sull'accordo a decidere sulle proprie condizioni. Al rifiuto di Fim e Uilm seguirà la raccolta di oltre 350mila firme che chiedono quel voto.
Sergio Cofferati chiarisce: "la Cgil è con la Fiom". Non fa fatica a capire che si è aperta un'altra stagione, che è finita l'epoca produttrice di guasti ma "temperata". Che il neoliberismo picchia forte nel nuovo scenario globale: e qui la svolta della Cgil sarà il no alla guerra in Afghanistan e a suoi futuri "allargamenti", alla guerra come "strumento" permanente del disordine globale; arriva anche, pur in ritardo, dopo le giornate del primo luglio di Genova, l'apertura di "confronto" coi movimenti noglobal. Mentre Cisl e Uil si compromettono in accordi col governo Berlusconi e la Confindustria, ostinandosi a vedere un mondo immaginario di "scambio" quando, anche perdendoci, in cambio non ti danno più niente, la Cgil di Sergio Cofferati apre l'opposizione, la sostiene con tutte le forme di lotta, fino alla scelta dello sciopero generale da sola. Non è che Sergio Cofferati sia diventato improvvisamente estremista: col suo "realismo" vede che questa è l'unica strada possibile.
Capiscono subito, imprenditori e destre al governo, che l'ostacolo è la Cgil: non a caso prendono di mira il suo segretario, con attacchi personali di una violenza da regime, con l'insinuazione di una sua qualche responsabilità nell'omicidio del professor Biagi: è la stagione delle "piazze come le pistole" scagliate da Berlusconi e ministri non solo contro la Cgil, ma contro chiunque pratichi l'esercizio democratico del dissenso. La Cgil reagisce ferma, raccoglie 3 milioni in piazza il 23 marzo, mentre cresce l'opposizione, ed è già domani: sciopero generale il 18 ottobre. Qualunque sia poi la prosecuzione "in politica" di Sergio Cofferati una cosa oggi gli va riconosciuta: chapeau per la svolta.


"Nessuna sentenza prima che parli la Consulta"
Il giudice Carfì congela la decisione sul processo Previti
Luigi Ferrarella sul
Corriere della Sera

MILANO - Se corsa deve proprio essere, uno dei centometristi della giustizia (il Tribunale di Milano) si chiama fuori e rimane volontariamente ai blocchi di partenza. Con o senza legge Cirami. Nessuna sentenza prima del verdetto della Corte Costituzionale sul "legittimo sospetto": anche se ritengono di poterla tranquillamente pronunciare a dispetto delle tesi degli imputati, i giudici del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori anticipano pubblicamente che "per rispetto istituzionale" non la emetteranno mai prima che la Consulta discuta il 22 ottobre, e decida presumibilmente in novembre, se sia costituzionale l'attuale legge che esclude il generico "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice tra i possibili motivi di trasferimento di un processo da una città all'altra. Nel frattempo, il processo continuerà a ritmi serrati: già oggi potrebbe essere interrogato uno degli imputati (Pacifico e Squillante presentatisi ieri a Milano, più Previti e Acampora) riammessi all'esame sull'accordo anche di pm e parti civili, e dopo un nugolo di questioni procedurali. L'inusuale comunicazione, apparentemente provocata da uno scambio di battute con un avvocato dell'imputato-deputato Cesare Previti ma in realtà palesemente "cercata" dal presidente della quarta sezione penale Paolo Carfì, avviene alle ore 16: dopo che dalle 9.30 si discute della "legittimità" e "tempestività" o meno dell'impedimento a presenziare in tribunale addotto all'ultimo momento dalla difesa di Previti. Il collegio ritiene l'impedimento valido fino alle 14.30, quando a Montecitorio terminano le votazioni in calendario, e non più valido nel pomeriggio, quando all'ordine del giorno resta lo svolgimento di interpellanze. Sandro Sammarco, uno degli avvocati di Previti, protesta e argomenta che l'anno scorso la Corte Costituzionale non ha distinto tra votazioni e il resto dell'attività parlamentare. Ma la Consulta, replica il Tribunale, ha rifiutato "una aprioristica prevalenza" delle esigenze del Parlamento rispetto a quelle del Tribunale, e ha invece indicato la necessità di un loro "bilanciamento" volta per volta: bilanciamento "sin qui attuato" fissando le udienze prevalentemente in giorni (lunedì, venerdì e sabato) in cui in Parlamento non sono previste votazioni o attività di particolare natura. Anche per questo, puntualizza Carfì, il processo "iniziato l'11 maggio 2000, dopo 27 mesi è ancora in corso, con numerosi impedimenti più volte addotti dalle parti". E se lo scorso 29 luglio il processo era stato aggiornato a giovedì 19 settembre, rimarca il giudice, è stato perché lo sciopero di 3 giorni degli avvocati aveva reso indisponibile la data di lunedì 16 settembre.
Sammarco: "Debbo anticiparle che questa difesa si attiverà perché la Camera sollevi alla Consulta un nuovo conflitto di attribuzione. E le dico che di queste prerogative violate si è parlato già oggi in Parlamento".
Carfì: "A noi interessa poco che voi difensori informiate il Parlamento, noi facciamo il nostro mestiere".
Sammarco: "Voi vi siete allontanati dai binari di legge...".
Carfì: "...a suo avviso, avvocato. A suo avviso. A questo collegio interessa soltanto quello che accade in questa aula. Anzi, già che ci siamo, e siccome sento dire che ci sarebbe una "gara" tra il collegio e altre istituzioni, e leggo che secondo alcuni commentatori noi staremmo facendo una "corsa", voglio evitare ogni equivoco: noi non faremo alcuna "corsa". Noi non emetteremo assolutamente una sentenza prima della decisione della Corte Costituzionale. Certo, se nel frattempo interviene la nota legge che conosciamo, non emetteremo proprio niente. E si badi: noi riteniamo di essere assolutamente legittimati, allo stato dell'attuale normativa, a emettere sentenza. È per un motivo di rispetto istituzionale che non emetteremo mai una sentenza prima che la Consulta abbia deciso".


Arafat sotto assedio, battaglia a Gaza
Redazione de
La Stampa

TEL AVIV. L'esercito israeliano circonda da ieri sera il quartier generale di Arafat. Carri armati hanno aperto il fuoco con mitragliatrici pesanti contro la Muqata. L'azione è avvenuta dopo l'attentato suicida di ieri nel centro di Tel Aviv, che ha provocato la morte di sei persone compreso il kamikaze, e il ferimento di 60.
Da ieri sera circolano voci insistenti di un imminente trasferimento forzato di Arafat verso Gaza, come 'rappresaglia' dell'attentato di Tel Aviv.
Intanto, il governo israeliano ha deciso la scorsa notte che per il momento il presidente palestinese Yasser Arafat deve restare "rinchiuso" nel suo ufficio di Ramallah (Cisgiordania). Lo ha detto alla radio militare il ministro senza portafogli Efraim Eitam (Fein), leader del Partito Nazional-religioso.
Eitam ha confermato che la possibile espulsione di Arafat è stata invocata ieri da alcuni ministri, ma ha aggiunto che il premier Ariel Sharon si è opposto. Chiuso a Ramallah e impedito di comunicare con i suoi collaboratori Arafat, secondo Eitam, "risulta essere meno pericoloso" che non se fosse libero dei propri spostamenti all'estero.
Il quotidiano 'Yediot Ahronot' rivela da parte sua che ieri il governo israeliano ha anche discusso la possibile espulsione del leader di Hamas, lo sceicco (paraplegico) Ahmed Yassin. In merito non è stata presa nessuna decisione definitiva, aggiunge il giornale.
Un poliziotto palestinese, che si trovava nel quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah, è stato ucciso questa mattina da un tiratore scelto dell'esercito israeliano, si apprende da fonti della sicurezza palestinese.


   20 settembre 2002