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Le foto della “Festa di protesta” nel sito dell'Ulivo
su
Ulivo.it


«L'Iraq accetta gli ispettori senza condizioni»
L'annuncio del segretario dell'Onu. La Casa Bianca: non prendiamo sul serio quel che dice Saddam
Ennio Caretto sul
Corriere della Sera

WASHINGTON - «Posso confermarvelo: l'Iraq accetta il ritorno degli ispettori senza condizioni». L'annuncio del segretario generale dell'Onu Kofi Annan arriva al termine di una giornata di attesa. Voci sempre più insistenti davano come imminente un messaggio importante di Saddam Hussein.
LA LETTERA DEL RAÌS - «Ci sono buone notizie», ha detto il ministro degli Esteri iracheno, Naji Sabri, consegnando nelle mani di Annan una lettera del raìs. «Vogliamo cancellare ogni dubbio - è scritto nel messaggio - che l'Iraq possieda armi di distruzione di massa». All'incontro era presente anche il segretario generale della Lega araba Amr Moussa (Annan l'ha ringraziato «per lo strenuo sforzo» di mediazione). La lettera sarà trasmessa al rappresentante della Bulgaria, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, che «dovrà decidere la prossima mossa», ha spiegato il segretario generale dell'Onu. Intanto, la discussione sull'organizzazione pratica della nuova missione che dovrà verificare il disarmo iracheno «comincerà immediatamente». «Quasi tutti gli oratori all'Assemblea generale - ha continuato Annan - hanno spinto l'Iraq ad accettare il ritorno degli ispettori», e in particolare il discorso del presidente americano George W. Bush «ha galvanizzato la comunità internazionale».
LA REAZIONE AMERICANA - Ma la Casa Bianca non è convinta. «Non tendiamo a prendere sul serio quel che dice Saddam Hussein», hanno dichiarato fonti dell'amministrazione americana dopo l'annuncio di Annan. Già nel pomeriggio, alle voci di un imminente messaggio positivo del raìs, il segretario di Stato Colin Powell si era mostrato scettico: «Può essere solo un diversivo».
IL PENTAGONO - La giornata, in realtà, dal punto di vista statunitense è trascorsa in preparativi di guerra. Al Pentagono, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha annunciato ieri una nuova strategia nelle zone di non volo in Iraq: i top gun anglo-americani attaccano non più solo le batterie e i radar nemici, ma l'intero sistema difensivo antiaereo, compresi i centri di controllo e di comando, gli aeroporti militari e le comunicazioni. Affiancato dal vicecapo di Stato maggiore, generale dei marines Peter Pace, Rumsfeld ha dichiarato di avere ordinato «la metodica distruzione delle difese antiaeree irachene, perché ultimamente i loro tiri si erano fatti più efficaci e l'idea che i nostri jet vadano in missione e che qualcuno possa prenderli di mira così impunemente mi irrita». Abbiamo demolito strutture importanti a Nord e Sud del Paese, aggiunge, e non sappiamo «in quanto tempo l'Iraq potrebbe ripararle qualora il presidente Bush decidesse di invadere». Pace osserva che «le capacità difensive irachene sono state drasticamente ridotte», cosa che faciliterebbe un attacco Usa.

I COSTI - In un'intervista al Wall Street Journal , Lawrence Lindsey, il consigliere economico di Bush, avverte che una guerra costerà tra 100 e 200 miliardi di dollari (oltre 100-200 di euro), l'1-2 per cento del Pil, e l'America dovrà sobbarcarseli quasi per intero. Il conflitto di 11 anni fa costò 58 miliardi di dollari, di cui 48 miliardi pagati da Arabia Saudita, Giappone, Germania e in minor misura altri Paesi. Ma l'Arabia Saudita esita a lasciarsi coinvolgere, il Giappone è in gravi difficoltà economiche, e la Germania è contraria a un intervento



Ciampi: "Risanare i conti pubblici per essere competitivi"
Aldo Cazzullo su
La Stampa

Carlo Azeglio Ciampi taceva da più di un mese, e aveva accumulato alcune cose da dire. Le cifre dei conti pubblici, in particolare il dato sul fabbisogno del mese d'agosto, l'hanno preoccupato. Le schermaglie degli ultimi giorni, con il presidente del Consiglio che definisce l'opposizione "non ancora democratica", e l'opposizione che applaude un cineasta che definisce il presidente del Consiglio "estraneo alla democrazia", non ne hanno migliorato l'umore. Però chi si attendeva ieri da Ciampi toni accorati e animo polemico non aveva considerato lo spirito con cui il capo dello Stato ha avviato il suo "viaggio dell'attenzione" che l'ha già portato tra i carcerati di Nisida e i malati di Loreto e, ieri, tra i superstiti degli eccidi nazisti sull'Appennino pistoiese. Spirito di coesione nazionale, com'è nella linea del suo settennato. Ciampi ha detto in sostanza quattro cose. Attenzione ai conti pubblici; guai a sottovalutare l'allarme deficit, perché se è vero che la crisi riguarda anche altri, l'Italia non può prescindere dalle sue condizioni di partenza; che sono peggiori, perché nessuno tra i grandi paesi d'Europa ha alle spalle un debito come il nostro. Attenzione al Mezzogiorno: la disparità con il Nord non diminuisce, e protratta com'è nel tempo si fa intollerabile; gli imprenditori devono fare di più per delocalizzare la produzione e portare lavoro al Sud, la nostra "nuova frontiera". Attenzione a non perdere contatto con l'Europa: l'Italia tenga presente il patto di stabilità e contribuisca ai lavori della Convenzione in vista della stesura della Costituzione europea, sostenendo la necessità di una politica economica comune e del rafforzamento del ruolo di pace che Bruxelles può giocare nel mondo. Attenzione alle regole della dialettica repubblicana: in Italia non esistono partiti non democratici; governo e opposizione sono legittimati dal voto e si riconoscono nella Costituzione. Alla vigilia della presentazione della finanziaria, l'indicazione di Ciampi al governo è chiara: "In primo luogo bisogna consolidare il risanamento dei conti pubblici". L'economia mondiale vive "una fase di stanchezza", per uscirne occorre "un impegno a 360 gradi": innovazione, formazione, infrastrutture, opere pubbliche; ma in primo luogo contenimento del deficit. Che tende a crescere in numerosi paesi europei; "ma è doveroso tener conto che la nostra struttura finanziaria è più esposta alle variazioni dei tassi di interesse, dato il gravame di un debito il cui servizio pesa in misura ancora rilevante sul bilancio dello Stato". E l'economia italiana sarà più forte quando decollerà il Mezzogiorno. "Dico agli imprenditori e alle forze sindacali di questa Italia prospera: guardate a Sud, alla nostra "nuova frontiera" interna, per trovare spazi al vostro stesso sviluppo". Perché "non è accettabile per la coscienza nazionale" che al Nord vi sia la piena occupazione e al Sud tassi di disoccupazione due, tre o anche quattro volte più alti. Ciampi non rinuncia a difendere il ruolo dell'euro, che nel suo discorso al meeting di Cl Berlusconi aveva indicato come fattore di inflazione; anzi, invita ad andare oltre sulla via dell'integrazione economica e politica. "L'euro, di cui constatiamo l'utilità, come pilastro di stabilità, a ogni accenno di nuove difficoltà dei mercati internazionali, è stato per il processo di unificazione europea un traguardo fondamentale, ma soltanto un traguardo di tappa".



Prodi: "Politica comune sul dramma immigrazione"
Sergio Sergi su
l'Unità

Ormai da anni, almeno cinque, da quando è stato varato il Trattato di Amsterdam, l'Europa lotta con sè stessa per mettere in pratica una politica comune in materia di asilo e d'immigrazione. "Ma io non demordo", ha detto ieri Romano Prodi, presidente della Commissione. "So bene - ha aggiunto - che non è facile, eppure non c'è nulla da fare: il fenomeno dell'immigrazione va affrontato uniti. Ci vuole una politica comune. Se c'è una politica comune degli europei, le immigrazioni indiscriminate possono essere controllate. Un singolo Stato non è in grado di ottenere risultati efficaci". Sollecitato a commentare la tragedia di Porto Empedocle, Prodi ha gettato nuovamente il sasso nello stagno delle forti resistenze governative che rallentano il movimento verso la creazione di un vero "spazio di libertà, sicurezza e giustizia" nell'Unione Europea. Perchè, il nodo, sta proprio qui, nell'impresa "complessa e difficile, - come l'ha giudicata il presidente della Commissione, - di far accettare ai governi una cessione parziale della loro sovranità".
É questo il senso della battaglia che si sta svolgendo in seno alla Convenzione europea per le riforme istituzionali: provare a trasferire dal campo dei governi a quello europeo alcune competenze, a cominciare dalla gestione della politica di asilo, d'immigrazione, di prevenzione e lotta alla criminalità e al terrorismo. É, per usare i termini gergali, la battaglia tra una visione "intergovernativa" dell'Unione e una più "comunitarizzata".
Il presidente Prodi ha sottolineato che episodi come quello accaduto davanti alle coste siciliane "si ripetono da tempo". Ma è andato all'attacco aggiungendo che "è altrettanto da tanto tempo che noi facciamo pressione sugli Stati perchè si arrivi ad una politica comune". Prodi ha detto che, a parole, molti Stati, tra cui l'Italia, hanno accolto con entusiasmo le proposte (l'esecutivo comunitario, con il commissario Antonio Vitorino, in effetti, ha sfornato dal vertice di Tampere, nel 1999, in poi, una quantità importante di iniziative). Ma, poi, lo scoglio sta sempre lì, rappresentato dalla riluttanza, ed è dir poco, dei governi a cedere poteri. Prodi ha ricordato le proposte per il controllo comune delle frontiere ma ha nuovamente sollecitato anche le numerose iniziative per giungere ad una collaborazione con gli Stati di transito e di origine dei fenomeni d'immigrazione.

Un evento significativo si svolgerà domani, e per tre giorni, a Bruxelles per fare il punto sulle iniziative europee per combattere il "traffico di esseri umani".
La conferenza è organizzata dall'OIM (l'organizzazione internazionale dei migranti), dal parlamento e della Commissione e si concluderà con l'approvazione di una dichiarazione. Va ricordato che il 19 luglio scorso, il Consiglio dei ministri Ue, su proposta della Commissione, ha adottato una "decisione-quadro" sulla "tratta" delle persone che prevede, tra le altre norme, una sanzione di non meno otto anni di carcere per chi è individuato come responsabile del traffico.


La scommessa perduta da Confindustria
Massimo Giannini su
la Repubblica

Mentre le famiglie italiane continuano a pagare troppo cara la più odiosa delle "tasse", l'inflazione, il presidente della Repubblica toglie al governo l'ultimo alibi pre-elettorale: "meno tasse per tutti" resta un bello slogan, ma per adesso non se ne fa niente. Per l'anno prossimo l'Italia si può scordare le promesse di Berlusconi: avrà ancora bisogno di una manovra finanziaria severa. Per rimettere in ordine il bilancio dello Stato serve molto di più del rapporto talmudico che Tremonti immagina di avere con i numeri.
Mentre il Cavaliere continua a pagare troppo cara l'improvvisazione dei suoi ministri, che pasticciano sui crediti d'imposta per il Sud e sui decreti taglia-spese, il presidente della Confindustria chiede al governo l'ultimo aiuto post-elettorale: una Finanziaria di sgravi per l'impresa, "azionista di riferimento" del centrodestra. Mette le mani avanti con tanto di lettera. Torna a dialogare con l'Ulivo per chiedere un'"operazione di verità" sulle cifre dell'economia. Finge di fare la "faccia feroce". Ma ha l'aria di voler negoziare nuovi favori.
La mossa di Ciampi è tempestiva e preoccupata. Alla vigilia della presentazione della Legge Finanziaria, il Capo dello Stato indica una chiara priorità: "consolidare il risanamento dei conti pubblici". L'aveva spiegato a Berlusconi due settimane fa, durante il primo faccia a faccia al Quirinale dopo le ferie estive: "interventi strutturali" e "pieno rispetto del Patto di stabilità" concordato a Bruxelles. Ora rafforza il suo richiamo, calcando la mano sull'aspetto più inquietante dell'"anomalia italiana", il debito pubblico.
Il percorso di rientro che lo stesso Ciampi, da ministro del Tesoro, aveva pianificato con la Commissione nel '98, si è interrotto. Il debito è tornato a salire, rispetto al Pil. Questo è il segnale che inquieta l'Unione. Questo è il segnale che il Colle chiede ora di invertire. A Berlusconi e Tremonti il presidente della Repubblica offre una cornice istituzionale, nella quale inquadrare una Finanziaria corposa sul piano delle quantità e rigorosa sul piano della qualità. Ma gli lancia comunque un avvertimento preciso. Non è tempo di allegri spargimenti di denaro pubblico. La prossima manovra richiederà altri sacrifici.
La Confindustria lo ha capito. Ed agisce di conseguenza. La mossa di D'Amato è intempestiva e disperata. Con la sua lettera al premier, il leader degli industriali prova a giocare d'anticipo una partita che lo vede in campo in posizioni di assoluta debolezza. Appena una settimana fa aveva invocato "una Finanziaria di svolta", fatta di "riforme vere" e di "rilancio della competitività che finora è mancata". Oggi D'Amato sa che non avrà mai le prime, e che gli sfuggirà anche il secondo.
E' il risultato del pessimo ciclo della congiuntura internazionale e della cattiva gestione della politica economica interna. Ma è anche il frutto di una strategia confindustriale che, alla prova dei fatti, si sta dimostrando perdente. D'Amato ha concesso al governo "un'apertura di credito" che non ha riscontro in 50 anni di storia della Confederazione. Ha condotto una battaglia strenua e insensata sull'articolo 18. Ha investito il suo "capitale" di leader sulla firma di un Patto per l'Italia, che lui stesso ha salutato come "una riforma epocale, tra le più importanti nella storia degli ultimi trent'anni".
Ha puntato su una sedicente "alleanza per la modernizzazione" con Cisl e Uil, trovando sponda nel governo per isolare la Cgil di Sergio Cofferati. Ancora il 5 luglio scorso, giorno della firma di quel Patto e del via libera al Dpef che lo inglobava, ha scommesso per il 2002 su una crescita dell'economia dell'1,3% e dell'inflazione del 2,2%. Dopo tanta sémina, non si vede il raccolto. La delega in bianco a Berlusconi, sul piano politico, è costata cara alla Confindustria: sul fronte esterno un'accusa di collateralismo che non arriva solo dalla Cgil, sul fronte interno una fronda sempre latente ma comunque crescente. La campagna ostinata sui licenziamenti ha avuto come unico risultato quello di rinsaldare l'opposizione sociale con l'opposizione politica.
Il Patto per l'Italia si sta rivelando quello che si sospettava, una scatola quasi vuota: per gli ammortizzatori sociali e la prima tranche della riforma fiscale non ci sono le risorse (poco meno di 7 miliardi di euro), degli avvisi comuni su arbitrato, trasferimento di rami d'azienda e sommerso non c'è traccia, il tavolo sulla formazione è rinchiuso in qualche scantinato del ministero del Tesoro, la sessione di politica dei redditi non è ancora partita, la mitica flessibilità non si vede e le uniche assunzioni a tempo determinato si continuano a fare grazie agli accordi sul lavoro interinale firmati ai tempi di Tiziano Treu. I sindacati sono effettivamente divisi, ma Pezzotta e Angeletti allentano i freni delle politiche rivendicative.
La crescita, per ammissione dello stesso Centro studi di viale Astronomia, sarà dello 0,6%. L'inflazione, come da verdetto dell'Istat, viaggia verso il 2,5%. Questi disastrosi risultati sono stati al centro di una discussione animata, nella giunta confindustriale di una settimana fa. Più di uno, tra gli industriali presenti, ha puntato il dito sugli errori strategici e tattici compiuti dalla Confederazione in questi mesi. Per D'Amato non si è trattato di un "processo". Il leader non rischia nulla, sul piano degli equilibri di potere. Ma sa bene che tra gli imprenditori crescono disillusione e timore.
La disillusione nasce da una consapevolezza: con un'economia così debole, e una finanza pubblica così malridotta, la Finanziaria non porterà benefici. Al contrario, l'impressione diffusa è che se ci saranno sacrifici da fare, stavolta toccherà proprio alle imprese. Il Cavaliere si è impegnato troppe volte, pubblicamente, ad alleggerire la pressione fiscale sui redditi più bassi, già provati dal crollo dei consumi. E se è vero che i soldi si prendono dove ci sono, l'unico posto dove cercarli oggi è il bilancio delle aziende. Il timore nasce da una certezza: con un'inflazione al 2,4% ad agosto, e con un ministro delle Attività produttive che continua a ripetere "non c'è problema", gli industriali hanno messo nel conto una stagione di conflitti in fabbrica come non si vedeva da oltre un decennio.
Come si diceva una volta, Cgil, Cisl e Uil marciano divise, ma colpiranno unite. A fine anno scadono i contratti del pubblico impiego, dei metalmeccanici e del commercio. A seguire scadranno anche gli altri. Le tre sigle presenteranno piattaforme diverse, ma lo faranno proprio nel modo che D'Amato temeva di più: con una rincorsa reciproca alla rivendicazione salariale. La politica dei redditi è ormai carta straccia, lo scarto tra inflazione reale e inflazione programmata è troppo alto per non innescare la miccia del conflitto redistributivo. D'Amato gioca la carta della lettera al premier, chiedendo un incontro urgente sulla Finanziaria. Pretende garanzie. Ma il suo rischia di essere un bluff che neanche Berlusconi può andare a guardare.
Dopo il rientro dei capitali e la legge sulle successioni, la Tremonti bis e i maxi-condoni, per ora il Cavaliere non ha più nulla da concedere. Ma sa che D'Amato non ha più altro da esigere, se non i pannicelli caldi caldi del Patto per l'Italia, che sicuramente non cambieranno il corso della storia. Il solo asso che la Confindustria poteva calare, e cioè una rinuncia agli sgravi fiscali per il prossimo anno in cambio di una riforma seria delle pensioni, D'Amato non ha esitato a bruciarlo, sull'altare dell'isolamento di Cofferati. Siglato il Patto con Cisl e Uil, il leader confindustriale si è legato le mani con Pezzotta e Angeletti, ai quali nessuno potrà mai strappare il minimo intervento sulla spesa previdenziale.
L'unico che darebbe risultati strutturali dal punto di vista dei conti pubblici, e soluzioni efficaci dal punto di vista dell'equità sociale. L'orizzonte delle riforme si allontana. Il Paese torna ad affrontare i problemi dell'oggi con le solite logiche dell'emergenza, e torna a rimandare gli appuntamenti del domani con le vecchie formule del "tutto si aggiusta". Dal Patto per l'Italia di Berlusconi e D'Amato non ci si poteva aspettare di più.


L'inflazione a +2,4%: è il livello più alto da marzo
Bianca Di Giovanni su
l'Unità

Inflazione più "calda" del previsto. Ad agosto l'indice sui prezzi elaborato dall'Istat sale al 2,4% rispetto al 2,3 ipotizzato nel dato provvisorio. Rispetto a luglio significa un aumento dello 0,2%. A far lievitare il livello medio dei prezzi al consumo - rivelano i ricercatori - è stato quasi esclusivamente il capitolo "ricreazione, spettacolo e cultura" - settore importante in un mese estivo - il cui incremento è stato del 2,4% invece del preliminare 0,1%. Risultano così confermate le denunce dei consumatori, che per tutte le settimane estive rivelavano segnalazioni di "prezzi-pazzi" nei luoghi di villeggiatura. Tra le diverse città quella dove il caro vita ha segnato il livello maggiore è stata Cagliari con un'inflazione al 3,3%, seguita da Venezia (3,2%) e Trieste e Trento (3,1%). La più 'virtuosà è stata invece Campobasso con un'inflazione di appena l'1,6%.
Se si esclude il picco del 2,5% toccato a marzo, agosto registra il tasso più elevato degli ultimi otto mesi. Insomma, si torna ai livelli di fine 2001. E non solo. Si resta al di sopra di quel 2% indicato dalla Bce come soglia invalicabile e leggermente al di sopra del 2,2% indicato nell'ultimo Dpef (quella programmata per quest'anno è dell'1,7%). Eppure il ministro per le Attività produttive si dichiara per nulla preoccupato. "Anzi, quel dato mi spinge a dire che l'inflazione è sotto controllo. Un tasso al 2,4% in un paese che ancora ricorda un'inflazione addirittura a due cifre, non è assolutamente un dato preoccupante. Anzi, direi che ci spinge a dire che l'inflazione è sotto controllo".
Immediata la replica di Pier Luigi Bersani. "Certamente nella storia abbiamo avuto una inflazione a due cifre, ma ne siamo anche usciti - osserva il responsabile economico dei ds - Più che il dato preoccupano i commenti del governo. Abbiamo davanti venti di guerra che potrebbero rinfocolare il prezzo del petrolio. Spero che il governo rifletta per predisporre un pacchetto di misure per tutelarsi". "Sconcertanti" per il segretario ds Piero Fassino "le reazioni del governo di fronte agli andamenti dell'economia. Tutti i ministri, a partire dal presidente del consiglio e da Tremonti, minimizzano". Drastico il commento dell'ex ministro Vincenzo Visco. "È un consuntivo disastroso per il governo, la cui posizione sul rinnovo dei contratti non è più credibile. Si conferma una situazione molto spiacevole: noi cresciamo come la Germania o meno ma abbiamo un'inflazione più che doppia: loro chiuderanno a 1,1%, noi più o meno a 2,2%". Questo - secondo Visco - dimostra che "si è perso più di un anno di tempo su questioni come le liberalizzazioni o il change over". Proprio sul passaggio alla moneta unica (causa di un surriscaldamento dei prezzi anche in altri Paesi europei) l'ex ministro del Tesoro spiega che "noi avevamo programmato un monitoraggio ma il governo non lo ha fatto perché fa sempre il contrario e i risultati si vedono". Sulla stessa linea Enrico Letta (Margherita): "I timori delle scorse settimane si dimostrano legittimi e fondati.". Data l'attuale situazione la posizione del governo sui rinnovi contrattuali "non è più credibile. Era credibile quella espressa a Rimini dal presidente Berlusconi (i contratti dovranno tener conto dell'inflazione reale, ndr) ma si è trattato di un temporale di fine agosto".



Vittorio Foa applaude Moretti: “E' bravo”
Goffredo De Marchis su
la Repubblica

"Dico subito che chiamarli girotondi non mi entusiasma. Sono qualcosa di più serio e di più grosso". C'era anche Vittorio Foa a Piazza San Giovanni. C'era e ha concluso la manifestazione parlando dal palco vietato ai politici.
Quasi un milione di persone hanno risposto all'appello di Nanni Moretti. Per il centrosinistra rappresentano più un aiuto o più una responsabilità, un problema, un fenomeno difficile da gestire?
"Come tutte le cose nuove, il movimento di sabato crea qualche difficoltà ai partiti. Ed è vero che nel mondo della politica si tende a fare resistenza quando c'è qualcosa di diverso che chiede di dire la sua. Ma secondo me in quel movimento prevale una spinta positiva per il centrosinistra".
Qual è il messaggio della manifestazione?
"Io ho avvertito un clima di serenità, un desiderio di affrontare il futuro in modo deciso ma sereno. E non solo. Sabato è stata rivalutata l'opinione e glielo dice un vecchio politico della sinistra come me. Noi abbiamo vissuto l'impegno pubblico esclusivamente nella chiave della militanza e i partiti d'opinione li abbiamo sempre guardati dall'alto in basso, come qualcosa di inferiore. Oggi invece l'opinione conta. Non solo nei momenti elettorali, ma nella vita quotidiana, nell'atteggiamento morale, nell'impegno civile. Nell'opinione ci sono tante cose, c'è qualcosa di nuovo e di più ricco. Dopo la manifestazione mi ha chiamato un vecchio compagno: Vittorio, mi ha detto, è finito il proselitismo, è finito l'assillo di avere un sentire comune. Ha ragione: si può essere rigorosi essendo rispettosi. Esistono alcuni principi fondamentali, guai a lasciarli calpestare. Ma è una battaglia che si può fare rispettando gli altri, anche quelli che non la pensano come te".
Si è sentita la distanza tra movimenti e partiti?
"Capisco questa preoccupazione. Nella vita umana si è sempre timorosi del confronto. Ma è sbagliato dare una lettura conflittuale del rapporto tra movimenti e partiti. Quella piazza è una spinta, uno stimolo. E ho apprezzato la partecipazione dei Ds. Abbracciando il mio amico Piero Fassino ho sentito fortissima la presenza del partito fra quella gente".
Uno degli obbiettivi di Moretti è parlare anche agli elettori del centrodestra. E' possibile?
"Il centrodestra ha dei problemi molto seri. Sono divisi su quasi tutto. Eppure, con l'eccezione meritoria di alcuni ambienti cattolici, sono uniti nella difesa dell'impunità del governo e del suo capo e nella difesa del conflitto d'interessi che in poche parole significa autorizzare l'uso personale e aziendale del potere politico. Questo è un fatto inquietante".
Insomma, la missione di Moretti è impossibile.
"Io guardo Fini. Quando ha cominciato la dissociazione dall'autoritarismo sono stato uno dei pochi ad apprezzarlo pubblicamente, anche e soprattutto in nome del mio vecchio antifascismo. Diedi un'intervista al "Secolo d'Italia", fui deplorato da molti della mia parte. Non me la presi, ci voleva del coraggio per fare quello che ha fatto lui. Oggi sono deluso: quest'uomo e quel partito dicono sempre di sì. E lo dicono a uno come Previti... La fedeltà al conflitto d'interessi e al concetto d'impunità è diventata un elemento costitutivo dell'alleanza di governo. E' gravissimo. Io dico che su questo non si deve mollare di un millimetro e qui torna la mia vecchia intransigenza di militante del partito d'azione".
E gli elettori del centrodestra?
"Li rispetto. Se voglio che aprano gli occhi non posso pensare che siano solo egoisti, cretini o ignoranti, devo dare loro fiducia. Proprio nel momento in cui rivendico l'intransigenza su alcuni valori a cominciare dal fatto che la legge è uguale per tutti non posso credere che una parte del Paese non capisca certi errori. Pensiamo all'economia. Perché Berlusconi non deve spiegare che le cose vanno male, che le tasse non potranno essere diminuite? In Germania Schroeder ha detto al popolo: annullo la promessa di abbassare le imposte, quei soldi vanno ai Lander colpiti dall'alluvione. Dicendo che la solidarietà devono pagarla tutti ha guadagnato quattro punti nei sondaggi. Non dire la verità è un pericolo per l'Italia, affidarsi alle invenzioni fantasiose di Tremonti danneggia il Paese e mi rattrista. Berlusconi dica la verità, così possiamo vederci tutti più chiaro".
Qual è il futuro dei girotondi?
"Hanno un futuro solo se cambiano, se non pensano di ripetersi, se diventeranno diversi da oggi. I movimenti hanno un senso quando presentano delle novità, sennò diventano pezzi della tradizione e muoiono. Per esempio, devono smetterla di fare appello al "cittadino", come se fosse una cosa opposta ai partiti. I partiti, per fortuna, sono fatti di cittadini e di cittadine".
Come se la cava il Moretti politico?
"A me il suo discorso è piaciuto. Può essere che abbia voglia di dedicarsi un anno o due alla politica prima di tornare ai suoi alti impegni. Forse può cambiare mestiere per un po' e certo non fa tutto questo per divertimento. In lui c'è una sofferenza reale, la necessità di battersi e di prendere posizione".
E' un errore la presa di distanza di alcuni dirigenti della sinistra nei confronti dei girotondi?
"Ognuno ha il diritto di fare quello che gli pare. Se D'Alema non vuole andare fa bene a non andare. Mi ha sorpreso la formula usata da alcuni militanti di Rifondazione: il mio partito mi ha dato il permesso di partecipare, mi lascia libero. Ecco, questo è il vecchio linguaggio della sinistra".
D'Alema dice qualcosa di più: i girotondi non bastano.
"E' così ovvio che non bastano. Però non è vero che la sinistra parte da zero. Non è vero. Lo stesso D'Alema non parte da zero e forse un giorno sarà un ottimo ministro degli Esteri. Abbiamo tante cose da rimettere in piedi, ma queste cose ci sono".
Come dovrebbe rispondere l'Ulivo adesso?
"Ha già dato una risposta positiva sabato. La partecipazione del centrosinistra alla manifestazione non è stata occasionale, ma molto consapevole. Quello che bisogna fare a partire da oggi lo diranno altri. Domani io compio 92 anni, sono così vecchio da avere, non solo il dovere, ma anche il diritto di non mettere il naso dappertutto".
Però sabato era in piazza.
"E sono molto contento di esserci stato".


La festa dei girotondi e l'opinione pubblica
sul
Corriere della Sera

Non deve essere stato facile per i politici del centrosinistra esclusi dal palcoscenico della grandiosa piazza San Giovanni a Roma imporsi un bagno di umiltà e stare lì sotto con il naso per aria ad ascoltare i discorsi di persone senza gradi, elettori semplici. Ma poi, quasi tutti quelli che hanno ripudiato la tattica dell'assenza, perdente come al solito, si sono trovati contenti. Hanno capito che la loro famosa "legittimazione" nasceva proprio di lì, dalle opinioni e dal voto di quelle centinaia di migliaia di uomini e di donne, simbolo di tante altre piazze disseminate in ogni regione, e che non potranno fare un passo senza la forza di quella massa che si è riunita spontaneamente per protestare contro il governo, per esprimere il no di mezza Italia a leggi che incrinano la Costituzione, che preoccupano tutte le persone di buona volontà e di serena coscienza, di ogni idea politica, che credono nei principi del vivere civile e nell'eguaglianza. Quelli che hanno parlato sono stati clementi, non hanno infierito, non hanno rigirato i coltelli nelle piaghe, non hanno tirato fuori la Bicamerale, la rovinosa dismissione di Prodi, la politica sbagliata della passata legislatura, l'opposizione senz'anima fatta fino a quel giorno di febbraio quando Nanni Moretti si infuriò in piazza Navona.
In piazza San Giovanni, sette mesi dopo, il regista si è comportato come un maestro benigno che annulla ai bambinetti il compito il classe andato male. Solo un paio di cose ha voluto dire, ma senz'astio, ai politici impauriti di perdere la leadership , timorosi della popolarità di Cofferati, di Gino Strada, di altri: discutete di problemi concreti, non litigate sul nulla, non fate più i capricci, non perdete tempo in continui e logoranti scontri personalistici ai vertici, sigle, gelosie e ripicche di cui non ci importa niente. E poi ha aggiunto quel che stava sul gozzo a lui e ad altri milioni di italiani: se capiterà, magari tra qualche anno, l'occasione di vincere le elezioni, "questa volta fatela la legge sul conflitto di interessi".
Tutto questo in una piazza pacifica, festosa, priva di odio, dov'erano rappresentati paesi e città, generazioni, classi sociali, la borghesia riflessiva, quelli delle partite Iva, elettori pentiti di Berlusconi, mamme con i bambini, intere famiglie, giovani, uomini e donne che non erano mai scesi in piazza e l'hanno fatto in un momento che considerano grave per la Repubblica. L'Ulivo ne è uscito rafforzato, i conflitti tra rappresentanti e rappresentati si sono smussati, l'unità tra partiti e movimenti sembra ritrovata.
Le reazioni sono state nervose. Berlusconi, una settimana fa, aveva definito "disdicevole", chissà perché, la manifestazione. Commentatori spiazzati dal grande successo hanno scritto che l'opposizione radicale non porta lontano, ma è, invece, una carta vincente per Berlusconi. Che cosa auspicano? La compromissione forzata, il tremebondo consociativismo? Non sanno in effetti che cosa vuol dire opposizione democratica in un libero Parlamento. Dove radicale, piuttosto, è la "tirannia della maggioranza", secondo la dizione di Tocqueville. Quando poi la priorità assoluta di questa maggioranza è una legge - la legge Cirami sul legittimo sospetto - che si propone di salvare il presidente del Consiglio e Cesare Previti da una possibile sentenza di condanna per corruzione di magistrati, si capisce come la situazione sia fuori da ogni regola, pericolosa per le istituzioni. Non sanno che cosa vuol dire opposizione, ma dimenticano anche che la società civile che si è mossa e che è in allarme, in una sua nuova fase rispetto alla metà degli anni Ottanta, senza modelli, senza nostalgie, non è che un'espressione dell'opinione pubblica. Di opinione pubblica parlò Cicerone in una lettera al suo amico Attico nel 50 a.C.; ne parlarono Hume (solo sull'opinione si fonda il governo); Shakespeare; Machiavelli; Erasmo; Rousseau. Ne parlano sociologi e studiosi di oggi, conoscitori degli strumenti di comunicazione di massa. Forse non basta Iva Zanicchi, quando la cultura è nemica, dentro e fuori, e il popolo si desta. L'opinione pubblica è una forma di controllo sociale. È la nostra pelle sociale (Ernst Jünger). E secondo uno studioso americano, Edward A. Ross (1901) è un tribunale che critica e controlla il governo. Con il terrore che ha il Cavaliere per i tribunali!


Dietro alle sbarre rinunciamo anche all'aria
Adriano Sofri su
la Repubblica

Domenica, 15 settembre. Aria piccola. (Ci diamo due arie, una piccola, detta grande, e una più piccola, detta piccola: a turno, con la sezione giudiziaria). Non fa più troppo caldo, ma c'è il sole. Parecchi passeggiano - cioè vanno su e giù, 22 passi all'andata e 22 al ritorno - in calzoncini e ciabatte. A volte càpitano eventi: cinque rondini che inseguono una farfallina, un geco scivolato giù dal tetto e fermo sul muro come un tatuaggio spaventato, ai bordi dell'aria grande perfino un albero, un ailanto: fuori è un micidiale infestante, qui dentro un lussuoso intruso clandestino, scampato all'esclusione regolamentare di donne bambini cani gerani aironi aquiloni.
Insomma, alcuni stanno accoccolati a terra (sedili non ce n'è), zitti a occhi chiusi, o giocando a carte, per lo più a macchie etniche: maghrebini, bosniaci, albanesi, napoletani, toscani. Alcuni sfusi, un nigeriano, un mantovano. Gli arabi giocano con carte consunte, a ronda, una specie di scopa mista col rubamazzo; gli italiani con carte più nuove, a tresette e briscola, molto parlati.
L'aria c'è due volte, dalle 9 alle 11, e dall'una alle tre. Poi un'apertura supplementare in una stanza comune. Diciassette ore al giorno chiusi nelle celle: questo è un carcere cosiddetto aperto.
Quando entrai in galera, sei anni fa, o sessanta, non mi ricordo, c'erano 200 detenuti circa, ora ce ne sono 320, e diminuiti gli agenti. E questo è un carcere non grande, e che mette dell'impegno in cure ed educazione. Altrove si va molto peggio. Ora il cortile si riempie: scendono quelli che hanno guardato il Gran Premio di Monza. Da sette giorni
si fa lo sciopero del carrello, cioè del vitto, pane compreso, che viene distribuito con un carrello, donde la dizione.
Non è un digiuno, perché si consuma il cibo comprato in carcere o portato dai famigliari. Ammesso che si abbiano famigliari o euro. Gli stranieri, e molti italiani, non ne hanno. Dunque lo sciopero del vitto, anticamera dello sciopero della fame, gli equivale già per molti. Bisogna che chi può aiuti chi non ha. Bisogna che chi non ha ammetta di non avere - spesso se ne vergogna, per orgoglio. Bisogna che chi non vuole partecipare lo faccia senza subire pressioni. Anche in un posto così semplificato - poche persone, di un solo sesso, e ridotte all'ecce homo - le cose sono complicate.
Sapete che il sogno degli psicologi è di condurre i loro esperimenti in laboratori che riproducano la segregazione e il meccanismo carceriere-prigioniero, Grande Fratello compreso. Ma certi psicologi fraintendono, perché pensano che la sperimentazione in situazione estrema, la galera, addirittura il lager, sia rivelatrice per eccesso di ciò che giace dentro individui normali in condizioni normali: il che è vero solo un po', ed è molto più vero l'opposto, che situazioni forzate e perverse pervertono le persone e le storcono a tradire se stesse e il proprio prossimo. (Considerazione che vale anche per la discussione sui volonterosi carnefici dei fanatismi totalitari).
Ora ci mettiamo in cerchio, e parliamo di come continuare nella protesta indetta da Rebibbia e altre carceri maggiori. Poiché non si tratta né di una vertenza sindacale, che supponga una trattativa, né di una spallata, che ammetta un oltranzismo, ma di dare durata e calma a una testimonianza, si decide di passare a una settimana di sciopero dell'aria.
L'espressione è appropriata, fa immaginare una gente che boccheggia, una specie di apnea fisica e spirituale. Non si esca all'aria, né piccola né grande, per una settimana. Non si vada a camminare su e giù come le pantere spelate allo zoo, né ad appoggiarsi al muro con gli occhi chiusi, né a giocare a pallone, né a star seduti e guardare il cielo sopra di noi. Sacrificio da poco, direte: be', provateci. La galera è appunto un luogo estremo, dal quale sono abolite le cose di mezzo che fanno la vera vita, quelle di cui neanche ci si accorge più. In galera tutto è nulla, perché si è animali incattiviti e mutilati di tutto, e però i dettagli minimi si prendono un peso abnorme.
Ciascun detenuto è un Robinson che fa tesoro delle poche cianfrusaglie strappate al naufragio. L'aria non è una condizione data: è una concessione regolamentare e revocabile. L'aria del giorno - quella della notte è vietata per sempre. Come potreste saperlo, del resto? Il ministro della Giustizia immagina cose strane, fin dagli esordii, fin dalla visita notturna a Bolzaneto, quando vide persone già malmenate tenute a braccia e gambe larghe e faccia al muro, e gli fu spiegato che era perché i fermati maschi non molestassero le fermate femmine. E poco fa l'idea che il Regolamento penitenziario - mai applicato, del resto: se no avrei finalmente un interruttore della luce nel mio sgabuzzino - disegni carceri come hotel a cinque stelle.
Dice il ministro: "Io conosco bene i penitenziari". Ma su! Non ne ha un'idea. E come potrebbe averla? Lamenta che non si sia apprezzato che i detenuti di San Vittore fossero 2200 e siano 1400. Sia pure: ma in quale scatola di sardine sono andati a stiparsi gli 800 sfollati? Mentre Castelli rivendicava lo sfollamento di San Vittore, alle Vallette di Torino si chiudeva due giorni per tutto esaurito, e gli arrestati finivano in camere di sicurezza di polizia e carabinieri, misura d'emergenza come quelle che si prendono durante un terremoto o un'alluvione e vietata per legge.
Per le carceri, alluvione e terremoto sono perenni. Il ministro chiede che si apprezzi l'accordo con l'Albania per il rimpatrio di detenuti in nuove galere di quel paese. Se non sbaglio, si tratterà, a pieno regime, di 700 persone. I carcerati sono 57.000, e quasi il doppio quelli che entrano ed escono in un anno senza contare i 20.000 sottoposti a detenzione domiciliare e altre misure. Il sovraffollamento è enorme: ma anche qui si rischia l'equivoco. Il sovraffollamento non è il problema: è una sua micidiale aggravante. E', per intenderci, il problema che un ingegnere si troverebbe di fronte se dovesse ricostruire un edificio inabitabile.
Qualunque progetto, qualunque prima pietra, dovrebbe passare prima per lo sgombero delle macerie. Senza ridurre la ressa di detenuti, non si troveranno spazio fisico né denari bastanti non dirò alla ricostruzione, ma alle riparazioni di fortuna. Già i soldi mancano, a spese di farmaci, di salari di chi lavora (degli stessi agenti e operatori).
La pubblica opinione sarà incuriosita di sapere che amnistie e indulti, espedienti poco meno che annuali fino a dodici anni fa, finirono del tutto perché il Parlamento votò una legge: sarebbero occorsi d'allora in poi i due terzi dei voti per qualunque provvedimento di clemenza. Maggioranza davvero introvabile, e iperbolica, dato che perfino per cambiare la Costituzione basta la maggioranza semplice. Istruttiva la circostanza di quella legge draconiana: un modo per farsi perdonare un'ultima amnistia appena varata, per reati di peculiare pertinenza dei partiti di allora.
C'è la sovrappopolazione della galera. Poi c'è la galera. Lontano come sono dalla concezione del mondo leghista, avevo tuttavia preso sul serio il Bossi che qualche anno fa neanche tanti - metteva in conto di essere condannato e si diceva deciso ad andare in galera. Ancora ieri l'altro sentivo scandire alle sorgenti del Po lo slogan: "Libertà". "Libertà - diranno - ma non per i delinquenti". Ma in galera, e nelle sezioni giudiziarie, le peggiori, ci sono migliaia di persone innocenti che non sono state giudicate, e che saranno assolte.
(Ce ne sono anche di giudicate e innocenti: per esempio io). E gli altri, sono persone che pagano, spesso esosamente, un debito, non bambolotti puntaspillo. E come lo pagano. Stare in gabbia è, per ogni animale vivente, terribile. Più terribile quando, come la maggioranza dei ragazzi che riempiono le carceri di oggi, abbiate due o quattro tipi di
epatite, o siate hiv-positivi, oppure, come molti fra gli anziani, siate diabetici e cardiopatici, o invalidi o handicappati. Quando vediate ogni giorno teste sbattute nei muri, ferraglia ingoiata, per paura, per un'offesa, per anestetizzarsi, o chissà perché. Ebbi davanti un giovane arabo, tremante e piangente, che per un suo terrore si era tagliato fino a sanguinare copiosamente.
Degli agenti cercavano di calmarlo, qualcuno gli diede un fazzoletto di carta per tamponare intanto le ferite. La carta intrisa di sangue gli cadde sul pavimento, lui la raccolse; gli dissi di non usarla più, che si era sporcata. Mi guardò e, con un'espressione che non dimentico, si infilò in bocca quello straccio di carta insanguinata e lo masticò e ingoiò. Così si sta in galera, sovraffollamento o no. E tutt'al più si sta come chi è buttato via, a giacere, inebetiti, spoliati, snervati. I detenuti stanno sull'orlo di un burrone: e siccome non c'è una finestra senza sbarre dalla quale buttarsi giù, tanti s'impiccano a pochi centimetri dal suolo.
E il ministro pensa di conoscere i penitenziari. Neanch'io li conosco. Si è chiesto che cosa significhi qui dentro una frase sugli hotel a cinque stelle, una frase sui deputati di sinistra che "creano il malcontento dei detenuti"? Il malcontento? Io sono ben poco indulgente con i governi di centrosinistra, quanto a giustizia e carceri. Di là a paventare che i deputati fomentino rivolte! Pietro Folena, persona piuttosto d'ordine, segue le carceri, e specialmente le romane, da anni. E i detenuti di Rebibbia che hanno proposto da mesi (con gli obiettivi del Giubileo!) queste manifestazioni, hanno auspicato dall'inizio che parlamentari di ogni schieramento volessero visitare le carceri, per proteggere e conoscere le buone ragioni della lotta, e la sua determinazione pacifica e anzi legalitaria.
Mi spiacerebbe che a un riflesso chiuso e risentito cedessero i radicali, che hanno i migliori titoli da vantare per l'attenzione assidua e coraggiosa alle carceri. Essi temono che la sinistra, o associazioni come la Caritas, l'Arci, il gruppo Abele, Antigone, vogliano "mettere il cappello" sulla protesta dei detenuti. Ma proprio i radicali sono stati i più ingiustamente esposti all'accusa di strumentalizzare la disperazione dei detenuti. Ben venga, chiunque, a mettere il cappello su questa feccia vilipesa. Ben fosse venuta, la grande manifestazione di San Giovanni, a metterci su un berrettino caldo. (C'è stata bensì la fedele presenza di Franca Rame e Dario Fo e don Ciotti a Regina Coeli).
Insomma, qui a Pisa stiamo in seconda fila, dietro le carceri maggiori che hanno promosso una lotta tanto più degna perchè non si fa illusioni. Da domani faremo a meno dell'aria. Tutti d'accordo, benchè abbiano una faccia mogia. L'aria dei cortili non rende liberi, ma almeno allarga un po' i polmoni. Rientriamo, consolati dalle ultime notizie. Il Pisa ha vinto due a zero fuori casa, e soprattutto le azzurre della pallavolo sono campionesse del mondo. Qualcosa riuscirà anche a noi, indoor.


Quelle Autorità passate di moda
Salvatore Bragantini sul
Corriere della Sera

La decisione di bloccare l'aumento delle tariffe elettriche appena concesso dall'Autorità per l'energia può essere commentata sotto molte angolazioni: dall'evidente interventismo dei poteri pubblici nelle attività economiche ai riflessi in termini di equità fra settori industriali e commerciali (tutti, in varia misura, passibili di produrre inflazione o di concorrere al deficit pubblico, compresi i risibili canoni pagati dalle emittenti, pubbliche e private, per l'uso del pubblico etere), alle domande su quale sia l'efficacia di misure di questo tipo, ai riflessi sulle prospettive di società quotate in Borsa.
Qui si vuole ragionare brevemente sui cambiamenti che questa decisione comporta nei rapporti fra governo, pubblica amministrazione ed autorità indipendenti di regolazione e garanzia, anche alla luce dei commenti di esponenti governativi che l'hanno accompagnata e di alcuni atti di governo che l'hanno preceduta.
Il filo rosso che lega fatti e parole, nonostante qualche barlume di ripensamento, è il tentativo di riportare in ambito ministeriale, e quindi sotto il controllo del governo, tutta una serie di decisioni che nel tempo sono state affidate a questi organismi indipendenti; tale tentativo si basa sul presupposto, errato storicamente, che il fiorire delle Autorità, l'espandersi dei loro poteri siano stati conseguenza della momentanea eclissi della politica, succeduta agli scandali emersi nel '92 e a quel collasso finanziario che ne è stato causa importantissima (e troppo allegramente trascurata da chi parla di rivoluzione politica per via giudiziaria, dimenticando che il sistema semplicemente non reggeva più). Rimossa la causa, secondo queste disinvolte ricostruzioni, andrebbero rimossi anche gli effetti, di qui la necessità di tagliare le unghie a un potere burocratico e democraticamente irresponsabile. Una via semplicemente impraticabile in un'economia moderna. Alcune Autorità sono nate ben prima dell'eruzione di Mani Pulite, e la causa del loro fiorire va identificata nell'impossibilità di arbitrare i conflitti economici fra privati col solo, rigido strumento della legislazione primaria. Questa deve limitarsi a stabilire principi-quadro e demandare la definizione delle regole di dettaglio, la loro revisione e la loro gestione alle Autorità. Pensiamo al mercato finanziario, sottoposto alle incessanti novità dell'ingegneria finanziaria e bisognoso di decisioni immediate; sarebbe impensabile un mercato moderno senza una Autorità preposta alla sua regolazione, e difatti gli Usa l'hanno dagli anni '30, noi (la Consob) dagli anni '70. Ma si pensi anche alla tutela della concorrenza (legge del '90) che richiede decisioni comportanti approfondite istruttorie sulla struttura dei diversi settori e una efficace interazione con l'Ue.
A questa causa se ne è aggiunta più di recente un'altra, legata alle privatizzazioni (e quindi solo per questa indiretta via collegabile alla crisi finanziaria e alle inchieste giudiziarie); alcune Autorità sono state infatti istituite per regolare il passaggio dal regime di monopolio a quello di concorrenza nei settori in cui operavano le società da privatizzare, fra esse anche l'Autorità per l'energia i cui provvedimenti sono stati congelati dal governo. Sembra che il governo intenda inviare a questa (e ad altre?) Autorità un atto di indirizzo, nel quale combinare un omaggio labiale alla indipendenza di questa, con istruzioni sul come essa debba esercitare la sua sorveglianza. Il modo è tartufesco e inappropriato.



Svezia felix
Mario Fazio su
La Stampa

In Svezia la vittoria dei socialdemocratici (insieme ai Verdi e agli ex comunisti) conferma la validità del loro modello politico che si diceva archiviato dopo 70 anni di predominio (con una breve parentesi), in quanto ha costi molto alti e richiede tasse pesanti.
Ma gli svedesi continuano ad accettare una forte pressione fiscale perché in cambio hanno benefici concreti, più alti che in altri Paesi: dalla sanità totalmente pubblica alla scuola e alla diffusione della cultura, all'assistenza e alla sicurezza sociale con speciale attenzione ai bambini e agli anziani, alla qualità dei quartieri di abitazioni sovvenzionate, ai trasporti pubblici che funzionano ad orologeria, all'ambiente e all'abbondanza di verde pubblico (80 metri quadri di verde per abitante a Stoccolma contro 9 a Roma e 8 a Milano).
Una domenica di bel tempo, da giugno a settembre, offre lo spettacolo di folle gioiose sui prati di centinaia di isole e isolette che formano una parte dello sterminato arcipelago. Il sistema è fondato sui principi di egualitarismo che hanno prodotto, nell'equilibrio pubblico-privato, la scomparsa o la forte diminuzione delle disparità sociali e delle tensioni nel mondo del lavoro, come nella vita quotidiana, nel costume e nei consumi.
Da qualche anno sono comparsi segni di malessere dovuti in gran parte alle difficoltà di inserimento di un gran numero di immigrati e alla comparsa di gruppi malavitosi, ma il sistema regge perché è fondato su fatti tangibili, non su formule o promesse come da noi.
Uno degli aspetti più interessanti, senza eguali in Europa, è l'applicazione effettiva dei principi ecologici nella politica nazionale e nelle amministrazioni locali. Le emissioni di gas-serra sono quasi dimezzate dal 1970 grazie soprattutto al contributo dell'energia idroelettrica per industrie e usi domestici (si pensi al riscaldamento elettrico nel lungo e gelido inverno).
Laghi e fiumi sono stati disinquinati. E' vietata ogni costruzione entro una fascia di 100-300 metri dalle rive dei laghi e del mare. Il rispetto rigoroso dell'ambiente non esclude grandi opere pubbliche localmente compatibili, come lo straordinario ponte sull'Öresund, tra Danimarca e Svezia. Non tutti i progetti per le città incontrano il favore dei cittadini, pronti a far sentire la loro voce.
Il più grande successo di partecipazione critica, che introdusse una nuova sensibilità nella politica urbana, risale ai primi anni '60, quando in attuazione del piano Markelius si stava radendo al suolo la parte più vecchia e povera di Stoccolma per costruire i nuovi centri direzionali e commerciali.
La rivolta popolare (divenuta tema di un dramma in cinque atti) impedì che le demolizioni fossero estese come previsto. Mi trovavo a Stoccolma. Mi spiegò perché lo scempio doveva essere bloccato un architetto di nome Bernadotte. Era il fratello del re.


   17 settembre 2002