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Un successo annunciato e il problema del «dopo»
Stefano Folli sul
Corriere della Sera

Su un punto nessuno ha dubbi: il girotondo di oggi a San Giovanni sarà un grande successo popolare. Certo più imponente di quanto si attendessero gli organizzatori ancora un paio di settimane fa. Si capisce perché: la manifestazione di Roma si è caricata via via di nuovi significati. Non solo la protesta contro la legge Cirami e la politica berlusconiana sulla giustizia, che pure resta il cardine. In sostanza il super girotondo si è trasformato - e non era difficile prevederlo - in un atto d'accusa generale contro il governo della destra. La legalità, ma anche l'articolo 18. L'economia, ma anche la guerra in Iraq e la linea filo-americana del presidente del Consiglio. Secondo una miscela insondabile, ma con una parte della piazza - ad esempio Rifondazione - che tenterà di fissare l'attenzione sul conflitto sociale e sulla guerra.
In altri termini, un ricco dossier e un mare di gente. Segno che Moretti e Flores d'Arcais hanno saputo evocare un sentimento reale, concretamente diffuso nell'elettorato della sinistra sconfitta il 13 maggio 2001. Hanno creato le premesse per un bagno rigenerante collettivo. Come ha detto all' Unità Vittorio Foa, nome storico della sinistra, «vado volentieri a una manifestazione che contiene molti elementi di spontaneità e che è un segno di risveglio di fronte alla grave crisi in cui ci troviamo».
L a domanda che ormai da tempo molti si pongono è che cosa accadrà il giorno dopo, quando il girotondo sarà finito. Perché è chiaro che gestire in termini politici e organizzativi la protesta di due o trecentomila persone non è la stessa cosa che amministrare il buon esito di un seminario con ottanta partecipanti.
Come è logico, l'insidia odierna per il vertice politico dell'Ulivo in crisi consiste nel vedersi di fatto delegittimato dal «movimento». Del resto, tutto è cominciato con la famosa invettiva di Nanni Moretti a piazza Navona, tanto efficace quanto distruttiva per la leadership ulivista e diessina. Da allora la questione non è stata realmente risolta. E' vero che il Moretti di oggi è molto più cauto, attento a non fare a Berlusconi il regalo più gradito: una polemica devastante tra la piazza e i partiti, tra la base della sinistra e i suoi dirigenti. Ma il rischio è nelle cose, quando si mette l'accento sulla «democrazia in pericolo». Se siamo a un passo dalla dittatura, come afferma l'astrofisica Margherita Hack, il giudizio sull'opposizione istituzionale non può non essere pessimistico e negativo.
Del resto Flores d'Arcais tiene sotto tiro la figura tradizionale del politico di professione, uomo d'apparato e di mestiere. E fonda il futuro del «movimento» proprio sulla capacità di creare un modo diverso di fare politica. Quindi anche un nuovo tipo umano di politico. Se non è una delegittimazione indiretta dei vari D'Alema, Rutelli e Fassino, poco ci manca.



Un girotondo privo di meta
Contro il governo e la sinistra moderata
Paolo Franchi sul
Corriere della Sera

Magari non sarà proprio «storica», come sostengono, con una certa enfasi, alcuni dei promotori. Di certo, però, la manifestazione nazionale dei girotondini in programma oggi a Roma rappresenta un evento politico rilevante. Meritevole, quindi, non di un'infastidita alzata di spalle, ma piuttosto di una riflessione attenta; soprattutto da parte di quegli stati maggiori del centrosinistra che, al di là dei distinguo e delle precisazioni diplomatiche, sono il primo obiettivo di un movimento largamente inedito che si è già rivelato capace di esprimere il senso comune di una parte vasta dell'elettorato ulivista. È a loro, infatti, che il popolo dei girotondi, e prima ancora i suoi leader e i suoi intellettuali, pongono abbastanza seccamente l'alternativa: accodatevi a noi, al nostro modo di intendere l'opposizione a Berlusconi e al centrodestra, oppure toglietevi di mezzo. Di che si tratta? Forse sarebbe il caso di cominciare a dire che l'estremismo e il massimalismo, così spesso invocati, c'entrano con i girotondi un po' come Platone: e cioè poco, per non dire nulla.

A scendere in piazza, secondo lo storico Paul Ginsborg, sarebbero ceti medi di tipo nuovo, i cosiddetti «ceti medi riflessivi». Può essere. Ma probabilmente è più esatto parlare di «ceti medi radicalizzati», e su un terreno molto particolare, quello della legalità e della giustizia.
Di un mondo convinto che la cosiddetta «rivoluzione» iniziata con Mani Pulite, dopo aver ottenuto la sua prima vittoria con l'abbattimento delle classi dirigenti della Prima Repubblica, non sia andata in porto e alla lunga si sia paradossalmente risolta nella vittoria di Berlusconi, per un motivo sin troppo semplice e chiaro. E cioè perché il centrosinistra, nella sua stagione di governo, lungi da dare a Berlusconi medesimo e ai suoi alleati l'atteso e meritato colpo di grazia, si sarebbe viceversa dedicato a pratiche consociative e compromissorie (valga per tutti l'esempio della Bicamerale), consentendo così agli sconfitti di rialzare la testa e di tornare a vincere. Per organizzare la controffensiva e la riscossa, dunque, non resterebbe che tornare a sollevare la bandiera inopinatamente lasciata cadere negli anni trascorsi: in poche parole, fare della battaglia sulla giustizia la battaglia politica per eccellenza, meglio ancora la battaglia di liberazione del Paese dal centrodestra e dal suo padre padrone.



Non è la Rai. Tv in piazza
Diretta sulla 7. Reportage degli ex «Sciuscià» che lavoreranno gratis per dare copertura all'evento
«Operazione Voltaire» I collaboratori di Santoro rimasti senza contratto realizzeranno uno speciale in onda su una serie di tv locali. Diretta radio di Popolare Network
MI. B. su
il Manifesto

ROMA - La Rai, il servizio pubblico, non ha ritenuto degna di copertura in diretta la manifestazione di oggi. Oggi immagini e voci del maxi girotondo arriveranno comunque anche in diretta radio e tv. La 7 proporrà, a partire dalle 15, una no stop di 4 ore: sei telecamere tra i manifestanti, tre troupe, ospiti in studio e, tra i commentatori in collegamento (ovviamente non da piazza San Giovanni), Massimo D'Alema. Par condicio? Diretta anche sulle radio del circuito Popolare Network, che farà sentire agli ascoltatori anche gran parte di quel che accade sul palco, tra interventi e musica. Chi è in piazza a Roma può ascoltare la diretta sintonizzandosi su Radio Rock (Fm 106.6), che per l'occasione collabora con Radio Popolare. I giornalisti di Sciuscià rimasti senza contratto grazie al diktat bulgaro, lanciano invece l'«operazione Voltaire», in nome di un pluralismo che garantisca anche le voci dissonanti. L'iniziativa, uno «sciopero al contrario» di giornalisti e tecnici disoccupati che lavoreranno gratis per fare comunque «servizio pubblico», spiega il giornalista Paolo Mondani, è stata presentata ieri alla Federazione nazionale della stampa. Tutti concordi, da Paolo Serventi Longhi, segretario della Fnsi, a Roberto Natale, dell'Usigrai, sull'errore commesso dalla Rai: «Vergognoso», il no alla diretta, secondo Natale. «Di rara stoltezza», incalza il diessino Beppe Giulietti.



Carceri, Castelli attacca la sinistra: «Fomenta rivolte di detenuti contro il governo»
sommari de
l'Unità

La sinistra che fomenta rivolte carcerarie per mettere in difficoltà il governo. Roberto Castelli, ministro della Giustizia, sferra un attacco rabbioso alla sinistra e a l'Unità, sullo scottante tema delle condizioni dei detenuti, ipotizzando scenari apocalittici.


Castelli, se questo è un ministro
Giorgio Bocca su
la Repubblica

IL MINISTRO della Giustizia Roberto Castelli conosce l'arte della provocazione: si presenta davanti ai microfoni con il suo faccino da "Monsù Travet", umile e fedele servitore dello Stato, fa un sorrisetto impacciato e a voce bassa con l'aria di parlare delle previsioni del tempo o di qulche altro luogo comune dice cose che non stanno né in cielo né in terra, e intanto gli si accende negli occhi un sorrisetto compiaciuto: "Sentito? Io quel che ho da dire lo dico. Voi di sinistra, dopo aver scatenato la piazza a Genova, al Palavobis di Milano e con i girotondi, ora cercate di fomentare la rivolta nelle carceri perper creare delle difficoltà al governo. Io ingegnere Castelli da Lecco sono fatto così quel che devo dire lo dico: voi fomentate la rivolta nelle carceri".

Il capo del governo è a New York, impegnato nella grande politica internazionale e anche se fosse qui, secondo un suo metodo sperimentato, prenderebbe le distanze, lascerebbe a Castelli la responsabilità di simili dichiarazioni. Li ha scelti e addestrati per questo, tener viva nel paese una tensione da guerra fredda, convincere il moderatismo italico che il nemico comunista è sempre pronto a colpire.

Quando su un grande giornale un disegnatore satirico, come si autodefinisce, commemora la tragedia delle due Torri trasformandone una in un braccio che tende il pugno chiuso dei comunisti al cielo per far capire l'origine sempiterna del terrorismo, si ha una idea di quanto sia diffuso, voluto, apprezzato questo maccartismo delirante. I provocatori si alternano nel loro viscido mestiere, in gara fra di loro a chi è più pronto alla diffamazione degli avversari.

Appena nel Paese si ristabilisce un minimo di rapporto civile e ragionevole partono con i loro attacchi esagerati, assurdi, non sostenibili ma capaci di tener vive le paure e le rabbie su cui si regge questa loro destra composita e impari ai problemi reali del paese. Chi non sa che lo stato delle carceri è a un livello esplosivo, che le condizioni dei carcerati non sono da paese civile, che la vita negli istituti penitenziari superaffollati è un inferno?

Ma il ministro della Giustizia finge di ignorarlo, non ha il coraggio di assumere le responsabilità sue e del governo, tira fuori dalla sua testolina di Monsù Travet la scusa ridicola della sinistra che fomenta la rivolta dei carcerati. Ignora che fu la sinistra negli anni di piombo a respingere il tentativo dei Nap di usare la rabbia carceraria per il terrorismo. I provocatori alla Castelli servono a tenere viva la tensione e a far dimenticare l'incapacità di governo.

In altri tempi l'attuale presidente del Consiglio definì Bossi uno sfasciacarrozze e affermò che con lui era impossibile ogni accordo governativo. Ma ora ne ha bisogno per tenere in piedi la coalizione e, usa i leghisti per i ministeri più esposti, gli fa persino qualche concessione balorda sull'immigrazione. Ma governare sul filo dei ricatti non è cosa semplice, l'acqua sporca trova sempre il modo di uscire, un Parlamento ormai abituato al peggio deve sentire un parlamentare come il magistrato Mancuso affermare che il nostro presidente del Consiglio non è un uomo libero ma - in sostanza - uno che viene ricattato dal suo avvocato di fiducia, l'onorevole Previti. La contraddizione insuperabile del berlusconismo è la sua pretesa di riformare lo Stato distruggendolo, di fare delle riforme vere e propire controriforme, di cooptare nell'amministrazione coloro che vogliono usarla ai loro fini personali.



Non sono gaffe
Stefano Anastasia * su
il Manifesto

Alla drammaticità delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane non mancava che un ministro provocatore. Meno di un mese fa si affaccia nel penitenziario di Cagliari e offende l'intelligenza dei quasi sessantamila detenuti dicendo loro che si levassero dalla testa di continuare a villeggiare in un hotel a cinque stelle. Quanto al nuovo regolamento penitenziario e alle sue promesse di migliori condizioni di detenzione, il ministro non esita a dire che andrebbe cancellato. E ieri, a pochi giorni dall'inizio di una nuova fase di mobilitazione nelle carceri e sulle carceri, l'ineffabile guardasigilli soffia sul fuoco della protesta evocando rivolte fomentate dai suoi avversari politici. La situazione sarebbe veramente grave, se non fosse che i detenuti italiani hanno già in altre occasioni mostrato di possedere la prudenza e il senso di responsabilità che al ministro difetta. La situazione sarebbe ridicola, se non fosse che, sparandole grosse, Castelli delinea un programma, fatto di espansione del sistema penitenziario e del controllo penale. Il continuo ritornello sulla costruzione di nuove carceri va infatti correlato non solo ai propositi di revisione del regolamento penitenziario, all'abbandono della riforma dell'assistenza sanitaria dei detenuti e alla rimozione di tutte quelle stelle che campeggiano nelle insegne luminose delle patrie galere. A questi propositi di più carceri e maggiore sofferenza penale, si aggiungono infatti le scelte specifiche di politica criminale: una legge sull'immigrazione che, aumentando la clandestinità, aumenta l'esposizione al rischio di devianza (e dunque la criminalizzazione) dei migranti; una proposta di legge che intende inasprire le pene per i minori autori di reato e trasferirli automaticamente nelle carceri per adulti al compimento del diciottesimo anno d'età; la ripetuta minaccia di reintrodurre nella legislazione sulle droghe l'odiosa dose media giornaliera cancellata dal referendum del 1993, reintroduzione che renderebbe automaticamente perseguibili per spaccio le persone che venissero trovate con una quantità di stupefacenti ad essa superiore.

Messi insieme questi tasselli ne vien fuori un quadro agghiacciante, in cui le bussole ministeriali sono la legge, l'ordine e l'uso simbolico della giustizia penale. Beffarda è dunque la pervicacia con cui la maggioranza persegue nel contempo l'elaborazione delle più arzigogolate proposte volte ad ampliare gli strumenti processuali a tutela degli imputati. Beffarda e incomprensibile, se non fosse che una netta linea di demarcazione divide gli uni dagli altri, i condannandi (tossici, migranti e poveracci), destinatari delle attenzioni del ministro Castelli, dagli imputati, destinatari delle attenzioni della maggioranza parlamentare. E' così che il legittimo sospetto per i potenti diventa l'altra faccia della criminalizzazione dei poveri cristi. Secondo i migliori canoni dell'ideologia liberista, la giustizia penale del governo si limita a restituire i propri utenti alle proprie determinazioni sociali: gli uni dentro, gli altri fuori. Per questo, nonostante tutte le riserve sulla mistica del castigo penale che cova in tanto popolo della sinistra, oggi abbiamo deciso di essere in piazza, a Regina Coeli la mattina, per testimoniare solidarietà ai detenuti in sciopero, a San Giovanni il pomeriggio, contro una politica della giustizia del privilegio e della discriminazione.

Quanto a Castelli e alle sue irresponsabili dichiarazioni, non ci resta che invitare tutti i parlamentari, ma proprio tutti, a visitare le carceri del proprio collegio a partire da domani, ad ascoltare le ragioni dei detenuti, a elaborare un programma minimo per rendere le carceri meno affollate e più vivibili: è questo il miglior antidoto al veleno che l'apprendista stregone di via Arenula sta spargendo sulla civile protesta dei detenuti italiani.

* Presidente nazionale di Antigone,associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale


"Non punto la pistola al Cavaliere ma so perché ha perso l'onore"
Intervista all'ex ministro della giustizia Filippo Mancuso
Antonello Caporale su
la Repubblica

ROMA
-Onorevole Mancuso, lei è un uomo avvilito, stanco, deluso dalla mancata nomina a giudice costituzionale.
"Esattamente in questi termini mi dipingeranno. Questi signori sono capaci di credere che Attilio Regolo si sia fatto maciullare per fare la reclàme a una ditta di chiodi!".

E' però un fatto che solo da qualche mese ha scoperto che Berlusconi non è un uomo libero. E soltanto da poche settimane è convinto che in Forza Italia ci sia un gruppo di altissimi e specialissimi fetentoni.
"Ho parlato oggi e ho parlato ieri. Oggi come ieri in nome di quel che reputo un interesse superiore: salvare i valori fondanti di Forza Italia, quelli che hanno garantito a questa maggioranza il governo del Paese".

Un grande girotondo: liberare Berlusconi dalle catene.
"Il condizionamento di Previti, del circolo dei "previtisti" su Berlusconi è tale da costringerlo a perdere l'onore. E di Berlusconi si può dire tutto: l'uomo è a volte superficiale, sicuramente un narciso, con una inguaribile disposizione alla menzogna. Ma è comunque molto migliore di quel che è costretto ad essere per colpa di Previti".


Cosa sa?
"Non lo dico a lei".

Notitia criminis?
"Non mi va di aggiungere altro, né lo farei qui".

Prima lancia il sasso, poi ritira la mano.
"Ritiro? Ho detto che Berlusconi è soggiogato da Previti, subisce da quest'uomo un ricatto morale e psicologico. Aggiungo che secondo me Berlusconi sarebbe ben felice di disfarsene e completo la mia posizione dicendo che i rilievi mossi non sono smentibili".

Lei semina il terrore, Vespa non la inviterà mai nel suo programma.
"Io voglio bene a Forza Italia e so che ci sono tante brave persone".

E allora perché lo fa?
"Le ho appena riferito il giudizio che questi signori possono avere anche per i sacrifici più alti, come quello di Attilio Regolo. Figurarsi per me! Non credono affatto possibile che io sia mosso soltanto dal desiderio di tutelare questa maggioranza ed evitarle imposizioni indecorose come lo è questa legge sul legittimo sospetto".

Onorevole Mancuso, cosa vuol fare?
"Far crescere l'inquietudine in vista del voto a scrutinio segreto".

Allora, arrivederci.
"Arrivederci. Ehm, e se chiudessimo l'intervista con un post scriptum?".

Post scriptum.
"Nemmeno la legge sul legittimo sospetto basterà a salvarlo. Previti ha di nuovo sbagliato a fare i conti, ah ah ah...".


Lunardi: appalti sospesi
tagli di spesa
brevissime del
Corriere

Sulle opere pubbliche scoppia un nuovo caso nel governo. Il ministro delle Infrastrutture, Lunardi, ha sospeso cautelativamente tutti gli appalti in partenza finanziati dal suo dicastero, per verificare «le effettive disponibilità di bilancio» in seguito al decreto legge «taglia-deficit» che vincola le spese dei ministeri. La sospensione potrebbe riguardare opere per 14 miliardi di euro, fra cui le metropolitane di Roma e la ferrovia per Malpensa. Ma Palazzo Chigi, ha praticamente sconfessato l'iniziativa. E il Tesoro parla di «zelo eccessivo e inopportuno».


Avvocati troppo furbi
Giusto processo non vuol dire impunità
lettera di Antonio Di Pietro* a
La Stampa

CARO Direttore, dopo la modifica dell'art. 111 della Costituzione in tema di «giusto processo», da molte parti (specie da quelle del Polo) si stanno proponendo in questi ultimi tempi leggi che in realtà ne violano lo spirito e la ratio.
Eppure c'è un aspetto di quella norma che, se opportunamente valorizzato, potrebbe rimettere in discussione la portata catastrofica delle interpretazioni strumentali che ne vengono date. Mi riferisco al principio della «ragionevole durata dei processi» introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999.
La durata di un processo è ragionevole se la sentenza finale ha ancora un significato per l'individuo a cui si riferisce e per la società in cui vive ed opera. Se invece l'opera dei giudici perde incisività e significato; se le sentenze non sono più provvedimenti attraverso cui le situazioni concrete sono tempestivamente ricondotte sotto l'imperio della legge, allora la Costituzione viene violata nella sostanza.
Ecco perché - ogni volta che non si riesce ad emanare una sentenza di merito (di condanna o assoluzione che sia) per intervenuta «prescrizione» - di fatto si ha una sostanziale «non vigenza» della legge, quindi una rinuncia ad uno «Stato di diritto».
E ciò che sta accadendo in Italia, specie da quando il codice di procedura penale viene «adattato» (anche con discutibili interventi legislativi) e utilizzato strumentalmente dai difensori degli imputati per rinviare sine die il giorno del giudizio per i loro assistiti (all'insegna del vecchio detto «processo rinviato, processo mezzo salvato»).
E' tempo allora di affrontare lo spinoso capitolo della «deontologia professionale» della classe forense. Questa ha sempre ritenuto che sia un suo insindacabile diritto rallentare il corso della giustizia con eccezioni di ogni tipo, impugnazioni anche le più strumentali e soprattutto tacendo eventuali errori «in procedendo» dei magistrati per poi «sparare l'eccezione» al momento opportuno e far regredire il procedimento alle fasi precedenti fino a determinare la prescrizione del reato.
Questo atteggiamento «furbesco» era concepibile quando vigeva il «sistema inquisitorio», ove alla difesa non rimaneva che un atteggiamento «di rimessa», giacché la prova si poteva formare nelle segrete stanze del magistrato.
Ora, invece, con il vigente «sistema inquisitorio» la prova si forma nel contraddittorio vivo tra le parti. Che senso ha, allora, che i difensori degli imputati si mantengano la possibilità di calare il classico «asso nella manica» dell'eccezione procedurale solo all'ultimo momento e dopo che magari per anni ne erano a conoscenza? Perché deve essere loro consentito di ostacolare il corso della giustizia?
La difesa di un imputato è una cosa. Altra è la ricerca della sua impunità attraverso sotterfugi e marchingegni da azzeccagarbugli.

* Presidente Italia dei Valori


Carte di credito: la diffidenza è dura a morire
Il 26% dei 30 milioni di italiani "bancarizzati" ne possiede almeno una, ma solo l' 8% la usa tre o più volte al mese.
I risultati dell'inchiesta effettuata dall'Eurisko su
Il Sole 24 Ore

Dal mondo del denaro di plastica arrivano buone notizie per le aziende bancarie. Sono almeno due, a leggere l'indagine realizzata da Eurisko in occasione del convegno “Carte 2002” organizzato dall'Abi. La prima è che il numero di carte di credito e di debito continua a crescere, anche grazie all'arrivo dell'euro. La seconda è che, in ambedue i casi, il livello di saturazione resta molto lontano, specialmente per quanto riguarda la frequenza di utilizzo.
"Terreno di caccia per le banche"
Si tratta insomma di un boccone ghiotto per le banche, alla continua ricerca di attività in grado di sostenere l'andamento dei ricavi.
In gioco, infatti, ci sono grandi numeri: la ricerca Eurisko ha messo sotto la lente del microscopio il grande popolo degli italiani “bancarizzati”, cioè i 30 milioni di persone che hanno un conto corrente o un deposito. Quasi il 70% di questi possiede il Pagobancomat, il 26% ha almeno una carta di credito, il 18% almeno una carta di credito bancaria e il 29% almeno una fidelity card.

Tuttavia i dati più interessanti (e in parte inattesi) sono quelli che riguardano l'utilizzo di questi strumenti. Nel caso più diffuso, quello del Bancomat, solo due possessori su dieci lo utilizzano più di tre volte al mese e altri due non lo usano mai. E la situazione non cambia per le carte di credito: solo l'8% degli intervistati la usa tre o più volte al mese.

Poche invece le sorprese dal punto di vista dell'analisi geografica. L'area dove le carte di credito sono più utilizzate è il Nord-Ovest (con una media mensile di 2,4 operazioni contro le 2,1 nazionali), seguita da Sud e Isole (2,2), dal Centro (1,8) e infine dal Nord-Est (1,6). Anche per il Bancomat il Nord-Ovest è in testa, ma seguito in questo caso da Nord-Est, Centro, Sud e Isole.
Ma numeri a parte, l'indagine Eurisko sottolinea che nel mondo del denaro di plastica esiste una netta spaccatura tra Bancomat e carte di credito per quanto riguarda il cosiddetto «profilo d'uso». Mentre il primo si distribuisce in modo uniforme tra tutti gli stili di vita, la carta di credito resta uno strumento abbastanza elitario. Per sintetizzare: il primo è considerato uno strumento di pagamento; la seconda è ancora una specie di status symbol.



   14 settembre 2002