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Cosa Nostra, rapporti segreti - "Previti e Dell'Utri nel mirino"
Giuseppe D'avanzo su
La Repubblica

"IDDU, pensa sulu a iddu", vanno dicendo i mafiosi. La legge sul legittimo sospetto carezzerà contro pelo gli "uomini d'onore" di Cosa Nostra siciliana. Quel cavillo di legge, programmato per liberare il Re e gli amici del Re dai legacci milanesi, li attossicherà come un veleno. Peggio della revisione del falso in bilancio. I mammasantissima sono sprofondati nelle galere "umiliati e vessati", come dice Leoluca Bagarella, con l'assoluto isolamento imposto dal 41bis. Non riescono a controllare come vorrebbero, come dovrebbero, gli "affari di famiglia". Non possono garantire ai picciotti e alle loro famiglie una vita decente e onorata. Mentre sulla "loro" Sicilia piovono miliardi di euro, là fuori, in libertà, ci sono solo le donne.
Tutti i maschi Riina e Bagarella di Corleone sono in galera, così i Madonia di Resuttana, così i Gravano di Brancaccio... Sono stati buoni e zitti per quasi dieci anni. Dopo le bombe del 1993, nessun attentato, nessun morto ammazzato, nemmeno una minaccia che è una, nemmeno un botto al tritolo. Quasi dieci anni di tregua e di "invisibilità". I tempi, alla fine, sarebbero cambiati e bisognava aver pazienza. Hanno avuto pazienza. Hanno fatto quel che dovevano, alle elezioni del 2001 come si è capito dalle loro conversazioni intercettate. Ne hanno ottenuto rassicurazioni e "promesse". Hanno cercato di fare "politica" a loro volta, di trovare anche vie di compromesso. Passato l'inverno del 2002, Pietro Aglieri, per conto delle famiglie di Palermo e di Bernardo Provenzano, ha offerto la "dissociazione" in cambio un "trattato di pace" con lo Stato italiano. Un buco nell'acqua. Ci ha provato Leoluca Bagarella con i toni minacciosi dello stile dei Corleonesi. Ancora niente. Ora Cosa Nostra si prepara a mettere da parte pazienza e diplomazia per afferrare di nuovo le armi e spargere ancora terrore e morte e veleni.
Non è uno "scenario", non è cabala di "analista". Sono notizie "soffiate" agli agenti sul campo del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde) da "attendibili fonti d'ambiente": la mafia siciliana è pronta a lanciare "un'operazione di forte impatto con ricadute destabilizzanti sul piano politico e idonea, comunque, a far capire allo Stato (come non sono stati in grado di fare Pietro Aglieri e Leoluca Bagarella) che i capi di Cosa Nostra non intendono accettare lo status-quo". Le informazioni dell'intelligence incrociano e si sovrappongono alle indicazioni raccolte dal Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia criminale. "Attendibili fonti fiduciarie" degli investigatori della Polizia criminale annunciano "un progetto di aggressione che avrà inizio con azioni in toto non percettibili all'opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti".
Secondo le "voci di dentro" di Cosa Nostra, due uomini sono in gravissimo pericolo. Si chiamano Marcello Dell'Utri e Cesare Previti. Ma le manovre "non percettibili all'opinione pubblica", più cupe di una minaccia di morte, sono già cominciate stringendo d'assedio Gianfranco Micciché, ministro junior e coordinatore di Forza Italia in Sicilia.
Repubblica è in grado di ricostruire gli annunci cattivi di una nuova stagione di violenze attraverso i documenti del Sisde e della Polizia criminale e le conferme di qualificate fonti investigative.
* * *
Il mafioso si "deve fare la galera". La galera, per un mafioso, è la regola e prova di "mafiosità". L'ergastolo, no. L'ergastolo è più atroce della morte perché è la lenta fine del potere, l'annichilimento del comando. Salvatore Riina dice che "sei o sette anni di branda" non sono un problema e sono il meno. Fino a quando là fuori sanno che, prima o poi, il boss ne verrà fuori, la famiglia e gli affari della cosca saranno al sicuro. Se là fuori sanno che il capo mafioso è in carcere per la vita, prima o poi, il tradimento lo travolgerà e, con lui, la famiglia di sangue e di mafia.


Un Paese su misura
Curzio Maltese su
La Repubblica

Non c'è crisi economica che tenga. Non c'è patto con Bruxelles o con i sindacati, né terremoto o cataclisma, né venti di guerra o di recessione che possano distrarre il governo Berlusconi dalle sue ossessioni: giustizia e televisione. Di ritorno dal matrimonio più pacchiano del secolo, il premier ha convocato il consiglio dei ministri per procedere d'urgenza verso i due grandi obiettivi dell'autunno, anzi di settembre, perché di tempo ce n'è davvero poco. Il primo obiettivo, portare a casa la legge Cirami prima che Ilda Boccassini si alzi nell'aula del tribunale di Milano per chiedere la condanna di Cesare Previti. Il secondo, varare in fretta una riforma del sistema televisivo per impedire che la sentenza della Corte Costituzionale del 24 settembre costringa Retequattro ad andare sul satellite, come stabilito già cinque anni fa dalla legge antitrust.
Tutto il resto può attendere: la Finanziaria, l'Europa, il Medio Oriente, l'inizio dell'anno scolastico e perfino del campionato di calcio, la fame nel mondo e la sete a Palermo. Il Paese guarda con ansia alla corsa contro il tempo dello statista di Arcore: ce la farà il nostro eroe a vincere la battaglia d'autunno contro una magistratura che vorrebbe privarlo in un colpo solo di Previti ed Emilio Fede? Anche il resto del mondo è incuriosito e guarda alla vicenda con meno ansia e più sense of humour: quante leggi su misura sono disposti a sopportare gli italiani prima di ribellarsi?
Se la legge Cirami è stata studiata dagli avvocati di Berlusconi eletti in Parlamento, la riforma della televisione dev'essere stata concepita direttamente dall'interessato e poi consegnata nelle mani del ministro Gasparri, il quale tuttavia declama con passione, un po' come il posteggiatore Apicella con le canzoni. Nel merito del provvedimento ha già scritto Giovanni Valentini con chiarezza fin dal titolo ("Una riforma per Mediaset"). Basti ricordare i tre effetti concreti della sedicente riforma: 1) Con l'abolizione del divieto di incrociare proprietà di quotidiani e tv, Berlusconi può finalmente intestare a se stesso Il Giornale e Il Foglio. E' il lato comico della storia;
2) L'allargamento delle reti nazionali concessionarie dello Stato da undici, già record europeo, a quindici comprese ReteMia e TeleCapri (record mondiale in assenza di mercato), oltre a configurare un vero "miracolo italiano", consente alle tre reti Mediaset di rientrare nel tetto del 20 per cento. Guardacaso, il 20 per cento di quindici fa esattamente tre.
Esiste comunque l'impegno a discutere e nel caso aggiornare l'elenco. Probabilmente nel senso che se Berlusconi compra una quarta rete si passa a venti e così via, sempre in multiplo di
3) La permanenza di Retequattro "su terra" permette a Mediaset di guadagnare milioni di pubblicità (non molti, ma di questi tempi e con questo governo è meglio tutelarsi) e soprattutto impedisce di liberare frequenze utili a creare il temuto "terzo polo" .
Più che una legge fotografia, come la Cirami, la riforma Gasparri è dunque un poster del presidente del consiglio con autografo, doppiopetto e sorriso. Berlusconi ha già detto di non trarne alcun vantaggio. Del resto, il Cavaliere è uomo di parola. Se dice che non ha interessi personali in queste leggi vale senz'altro la pena di credergli. Come quando giura che non ci saranno condoni e non comprerà Nesta.
Berlusconi non fa nulla per nascondere la sua strategia. Invece di risolvere come promesso le sue anomalie, dal conflitto d'interessi al dominio sui media ai processi pendenti, sta sfornando leggi anomale. Pazienza se la Cirami bloccherà i processi per mafia e se la riforma televisiva è un macigno sul libero mercato. L'utopia finale è un Paese a misura di un uomo e dei suoi interessi. Può farlo perché ha una larga e fedele (o servile?) maggioranza in Parlamento, ottenuta con il voto degli italiani, seppure non la maggioranza assoluta. Ma se in campagna elettorale avesse promesso leggi ad personam su tv e giustizia, piuttosto che miracoli economici e regali fiscali, quanti voti avrebbe preso?
Sono questi i fatti concreti per cui milioni d'italiani scendono in piazza da un anno, non per Cofferati o addirittura per Moretti e tantomeno contro qualche pezzo di nomenclatura di sinistra malato di narcisismo. Come se non bastasse a offendere l'intelligenza dei cittadini l'atteggiamento canzonatorio del premier che esce con Letta dal Consiglio dei ministri mentre si discute la sua riforma, sceneggiando il suo drammatico conflitto d'interessi come fosse un vaudeville. O le risibili e finte proteste di Confalonieri.


Via alla nuova legge per le tv, Berlusconi non vota
Paolo Conti sul
Corriere della Sera

Il disegno di legge Gasparri approvato ieri affronta in sostanza tre nodi principali: fine del divieto (per gli editori) di incrocio proprietari tv-carta stampata, nascita del concetto di "sistema integrato delle comunicazioni" nel quale nessuno potrà totalizzare più del 20% di risorse e itinerario per la privatizzazione della Rai. Il tutto in vista dell'imminente approdo al sistema digitale che potrà permettere (come dice il ministro delle Comunicazioni nella relazione al disegno di legge) la nascita di 144 diversi canali. Gasparri, presentandola alla stampa, ha molto insistito su un punto: "Non è un testo definitivo, la discussione è aperta a tutti i confronti"

ANTITRUST - E' il punto più delicato e atteso. Dopo un prologo dedicato, nei primi articoli, alla garanzia e alla tutela dei principi di libertà, pluralismo, imparzialità dell'informazione, si arriva all'articolo 13. Nessun "soggetto iscritto all'albo degli operatori della comunicazione" potrà conseguire ricavi superiori al 20% delle risorse complessive del settore integrato delle comunicazioni. Per capire bene cosa accadrà bisogna tenere conto che, per Gasparri e il suo disegno di legge, il sistema integrato sarà composto da molti ingredienti (pubblicità, discografia, giornali quotidiani e periodici, tv e radio, produzione e distribuzione cinematografica, telematica ma non la telefonia) e che per "risorse" si intende non solo la pubblicità (tradizionale, sponsorizzazioni e televendite) ma anche il canone Rai, le convenzioni con gli enti pubblici, vendite di beni e abbonamenti. Chi agisce nel mondo della telecomunicazione (il riferimento più chiaro è a Telecom) e detiene già il 40% di quel singolo mercato non potrà superare il 10% delle risorse di tutto il settore delle comunicazioni (nella prima versione il tetto era del 5%). L'articolo 12 vieta a chiunque, una volta messo a regime il digitale, di possedere più del 20% dei programmi tv o dei programmi radio.

PRIVATIZZAZIONE RAI - Il futuro della tv pubblica è quello della public company. L'articolo 19 prevede che entro il 31 gennaio 2004 verrà avviata "l'alienazione della partecipazione dello Stato nella società Rai. A stabilire quote da mettere sul mercato e tempi di presentazione provvederà il Cipe ma è verosimile che per molto tempo il ministero dell'Economia (in quanto proprietario del disciolto Iri, un tempo padrone della Rai) manterrà la maggioranza delle quote. Nessun azionista potrà possedere più dell'1% e nessun patto di sindacato potrà superare il 2%. Il Consiglio di amministrazione verrà composto da 9 membri indicati dall'assemblea dei soci, che a loro volta eleggeranno il presidente il quale dovrà sottoporsi al voto della commissione parlamentare di Vigilanza: la conferma avverrà solo se ci sarà il sì dei due terzi dei membri. Fino al 31 dicembre 2005 la Rai non potrà dismettere "rami di azienda". I ricavi dalla vendita delle quote Rai per il 75% andranno a sanare il debito pubblico e per il 25% finanzieranno il passaggio al digitale. E su questo punto sono previsti obblighi per la Rai. Entro il 1 luglio 2003 dovrà raggiungere col sistema digitale il 50% della popolazione, entro il 1° gennaio 2004 il 60% ed entro il 1° gennaio 2005 l'80%.

RETE 4 E RAITRE - L'articolo 21 e l'articolo 22 prevedono che, nella transizione dall'attuale sistema analogico (la tv che oggi arriva nelle nostre case) al digitale, Rete 4, Tele" nero continuino a trasmettere in analogico mentre Raitre resterà una rete Rai come le altre (senza limiti gestionali). La norma vanificherà qualsiasi effetto della sentenza della Corte costituzionale annunciata per il 24 settembre e che si pronuncerà sulla ipotesi di incostituzionalità della legge Maccanico nella parte in cui affida all'Autorità delle Telecomunicazioni la decisione sui tempi del definitivo passaggio al digitale con lo spegnimento del segnale analogico. Commenta Gasparri: "Non sono il primo e non sarò l'ultimo a immaginare un sistema transitorio". In quanto al futuro: ""Non intendiamo chiedere deleghe al Parlamento ma quando sarà approvata la legge intendiamo realizzare un codice delle norme esistenti del settore che sono molte".

LA REAZIONE MEDIASET - Tiepidi i primi riscontri da Mediaset. Commenta il suo presidente Fedele Confalonieri: "Abbiamo diverse preoccupazioni. Il limite del 20% ai fatturati di ogni singolo operatore sulle risorse complessive del sistema integrato della comunicazione ci pare troppo stretto e sicuramente sarà un handicap per le aziende italiane alle prese con concorrenti stranieri ben più grandi e liberi nei loro Paesi".


Ecco il condono post-tangentopoli
Roberto Petrini su
La Repubblica

ROMA - La febbre del primo condono post-tangentopoli sale. Piccoli imprenditori, bottegai, evasori incalliti o gente che semplicemente vuole mettersi al riparo dal fisco sono in fermento. I commercialisti sono assediati dalle richieste di informazioni e notizie. Berlusconi ha detto "concordato di massa" ma in realtà gli uffici delle Finanze e le amministrazioni stanno lavorando giorno e notte alla preparazione della più grande sanatoria degli ultimi dieci anni (l'ultima fu del 1991, prima di Mani Pulite), quella che passa sotto il nome di "condono tombale", la prima da quando siamo in Europa, la più contestata dalle opposizioni che parlano di "licenza di evadere": la cifra, confermano al Tesoro, è già nel menù della Finanziaria, si tratta di 8 miliardi di euro (cioè 16 mila miliardi di vecchie lire). Per comporre l'intera manovra da 20 miliardi, altri 7 miliardi, secondo i tecnici di Via Venti Settembre, verranno da tagli e altri 5 da misure varie allo studio. Tutto mentre il deficit quest'anno sta correndo verso l'1,8 per cento del pil rispetto all'obiettivo dell'1,1 per cento.
Il "prezzo" del 25 per cento in più rispetto al dichiarato per sanare ciascuno degli anni dal 1997 al 2001, resta una delle ipotesi più probabili anche se ancora si discute e si lima il provvedimento, con l'obiettivo di rendere appetibile l'offerta di perdono che lo Stato sta per lanciare agli evasori. Una delle questioni-chiave resta quella penale: chi ha evaso ha commesso almeno uno dei reati che vanno dalla dichiarazione infedele a quella fraudolenta, e che sono puniti fino a 6 anni di reclusione. Per questi, come è avvenuto per lo scudo fiscale, si pensa di ricorrere all'istituto della "non punibilità" che rimane limitata alle due fattispecie e non si estende a tutti i reati come l'amnistia e che, soprattutto, non ha bisogno della maggioranza dei due terzi in Parlamento per essere approvata. Fuori gioco ormai anche l'ostacolo del falso in bilancio: i tempi per perseguirlo attraverso querela di parte sono scaduti un mese e mezzo fa e dunque chi lo ha commesso in passato può chiedere tranquillamente il condono per sé e la sua azienda.
Vale la pena sottolineare che il concordato è atteso in aula da una maggioranza compatta che, ha dichiarato Luigi Vitali di Forza Italia, avrà il compito di trasformarlo in "condono tombale". Secondo Vitali, che ieri ha già preannunciato un emendamento alla Finanziaria, il gettito salirebbe così a 10 miliardi di euro e riguarderà Irpef, Irpeg e Iva ma anche imposte di successione e donazioni, di registro, ipotecarie e catastali.
Intanto Berlusconi, il giorno dopo aver confermato l'arrivo del condono, ieri in una pausa del consiglio dei ministri ha parlato di una Finanziaria "di rigore, di sviluppo e non banale" e ha detto che oggi darà altri dettagli nel suo intervento alla Fiera del Levante.


Giustizia, l'Ulivo prepara l'ostruzionismo
Dino Marturano sul
Corriere della Sera

Dibattito ad oltranza sulla "Cirami", anche in seduta notturna, fino a venerdì 13 settembre. Lunedì mattina parla il capogruppo ds Luciano Violante (cui replicherà Carlo Taormina di FI), nel pomeriggio interviene il leader dell'Ulivo Francesco Rutelli e poi, via via, il centrosinistra schiererà forse 200-220 deputati compresi Fassino, D'Alema e Castagnetti chiedendo che ognuno di loro possa parlare almeno 30 minuti. Ma il tempo complessivo per la discussione generale non cambia, mette le mani avanti Donato Bruno (FI) che presiede le commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia insieme al collega Gaetano Pecorella (FI): "Parleranno tutti ma dovremmo dividere un tetto di ore stabilito per il numero degli interventi". L'opposizione, che in prima battuta chiederà di accantonare una "legge impresentabile", tenterà di dilatare la discussione: "Presenteremo una lunga lista di audizioni", annuncia Carlo Leoni (Ds).

DEBUTTO ALLA CAMERA - La legge che reintroduce il legittimo sospetto tra le cause di rimessione (trasferimento; ndr ) del processo, ha preso il via in commissione alla Camera con le relazioni di Isabella Bertolini (FI) e Gianfranco Anedda (An): per ora il clima è disteso e le schermaglie procedurali si sono limitate a una polemica sui tempi di convocazione dei deputati. Anche ieri il premier ha detto che "il provvedimento farà la sua strada". E Berlusconi lo ha ripetuto alla luce della disponibilità a emendare il testo manifestata dal professor Pecorella, anche suo avvocato nel processo Sme-Ariosto per il quale la difesa ha chiesto il trasferimento a Brescia, confermando così che non possono sfuggire i dubbi di incostituzionalità sollevati da Ciampi. Ma l'Ulivo non crede all'apertura. Avverte infatti il segretario ds Piero Fassino: "Non ci accontentiamo di annunci propagandistici, perché non spetta a noi fornire l'onere della prova. E' chi ha voluto un provvedimento sbagliato che deve dimostrare di volerlo cambiare". Ci si prepara dunque a una guerra di posizione ma Bruno Tabacci (Udc) invita l'Ulivo a non perdere tempo: "Le aperture vanno sempre colte anche perchè lo spirito dell'opposizione giustifica opposti estremismi. Se ci sono punti di incontro anche in altri progetti, sarebbe sbagliato non coglierli. Così anche i "girotondinì" avrebbero meno ragioni per girare intorno ai palazzi".

IL NODO EMENDAMENTI - All'esame della Camera ora ci sono 17 disegni di legge sul legittimo sospetto. Solo la "Cirami", però, è già stata approvata dal Senato e il relatore Anedda dice che è quello il testo da mandare in aula: "Al momento non prevedo emendamenti". Sulla stessa linea la Bertolini: "Aspettiamo il dibattito, poi vedremo". E il sottosegretario alla Giustizia Iole Santelli (FI) afferma che ogni cambiamento ("Anche se al Senato sono già stati esaminati i possibili profili di incostituzionalità") è legato a un comportamento non ostruzionistico del centrosinistra. Ma Filippo Mancuso, fuoriuscito da FI dopo il "tradimento" che lo ha stoppato sulla via della Consulta, smonta l'impostazione della Santelli: "La legge è incostituzionale. E' pacifico che si tratta di uno dei tanti espedienti per fare salvi i timori di Cesare Previti, tentativo più grave degli altri perché esperito in sede legislativa e non durante il processo (Imi-Sir di Milano; ndr )". Poi l'ex Guardasigilli attacca anche l'Ulivo: "Non dovrebbero pronunciare con turpitudine il nome di Previti perché loro hanno mandato alla Corte costituzionale un socio in affari di Previti".
Anche Pierluigi Mantini (Margherita) dice che "le aperture di questi giorni possono apparire estemporanee e strumentali": "E' errato sostenere la prevalenza del principio della terzietà del giudice sull'altro principio costituzionale del giudice naturale. E' ovvio che il giudice debba essere "terzo". Ma proprio per questo deve essere "predeterminato" e non può essere nella disponibilità dell'imputato e dei suoi sospetti". Aggiunge Mantini: "Il "sospetto", in termini soggettivi, può sempre in astratto dirsi "legittimo". Ma per essere oggetto di valutazione occorrono parametri legali che consentano il giudizio".


Immigrazione, il governo litiga sulla sanatoria.
Maristella Iervasi e Massimo Solani su
l'Unità

Muro contro muro per ore, a mostrare i muscoli e a minacciare crisi di governo, e alla fine il braccio di ferro ha prodotto un compromesso che, se da una parte mette tutti d'accordo, dall'altra lascia schiumante di rabbia la Lega. Ci sono volute cinque ore di un Consiglio dei ministri incandescente per sciogliere il nodo della regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari dipendenti, ma alla fine il decreto legge è passato, e consentirà la regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari con contratto sia a tempo determinato (minimo un anno) sia a tempo indeterminato. Un risultato che permette di guadare la voragine che continua a dividere i centristi dell'Udc dagli oltranzisti della Lega, fino a tarda sera non disposti a cedere di un passo sulle anticipazioni rilasciate dal ministro Maroni una settimana fa. O il contratto di lavoro a tempo indeterminato o tutti a casa, avevano più volte ripetuto nel pomeriggio i leghisti. E ci sono voluto delicate mediazioni e trattative difficili per condurre in porto, solo a tarda sera, il decreto sull'emersione. Un atto che è uscito da palazzo Chigi abbinato a quello che obbliga gli extracomunitari a fornire le impronte digitali entro un anno, probabilmente al momento del rinnovo del permesso di soggiorno. Un obbligo cui saranno sottoposti anche i cittadini italiani, che potranno attendere però almeno quattro anni, ovvero fino al possesso della nuova carta di identità elettronica.
Alla riunione gli uomini del Carroccio si erano presentati con atteggiamento spavaldo ed il coltello fra i denti, sventolando di fronte a sè la prima pagina della Padania che titolava "Bossi: extracomunitari, fuorilegge che chiedono la regolarizzazzione". Volti distesi e grandi sorrisi al loro arrivo, l'aria di chi avrebbe facilmente vinto la partita senza nemmeno versare una goccia di sudore: "andiamo a sistemare la questione" aveva ringhiato il leader della Lega al suo arrivo a Palazzo Chigi. Il solito atteggiamento del ministro per le Riforme, insomma, solo che dietro alla spavalderia di facciata questa volta si nascondeva il sentore di un possibile fallimento; una paura che Bossi aveva già espresso sparando come di consueto dalle pagine del suo quotidiano. "Se in Consiglio dei ministri il decreto legge Maroni sui clandestini in nero dovesse essere modificato - aveva dichiarato - la Lega non firmerebbe. Qualcuno dovrebbe poi spiegare alla gente perché si continua nelle stesse politiche della sinistra". Un mettere le mani avanti che suonava come un campanello d'allarme per chi come i leghisti sulla "deportazione" dei clandestini aveva messo in ballo la propria faccia di fronte agli elettori. Ed è proprio per questo motivo che a Palazzo Chigi la Lega ha alzato più volte la voce, arrivando persino a minacciare la crisi di governo.
Raggiunto l'accordo, la maggioranza ha così scongiurato in extremis un fallimento politico che rischiava di gettare nel caos l'intero paese: passato il fine settimana, infatti, all'esecutivo sarebbero rimasti solamente un giorno e mezzo di tempo per riunirsi di nuovo e firmare il decreto. Troppo poco, considerati gli impegni dei ministri. Troppo poco perché la distribuzione dei kit per la regolarizzazione dei lavoratori subordinati partirà martedì mattina, giorno in cui entrerà in vigore anche la Bossi-Fini. Il rischio, evidente, era che la mattina del dieci settembre gli interessati alla regolarizzazione si trovassero in coda alle poste senza sapere ancora quale destino li attendesse. Il tutto mentre grazie alle indicazioni contenute nella nuova legge sull'immigrazione, le forze dell'ordine daranno il via alle espulsioni e ai controlli nelle aziende per scovare i datori di lavoro che impiegano in nero gli immigrati. Una confusione che sarebbe stata di certo pericolosa per il paese, ma innanzitutto una figuraccia per il governo della comunicazione e dei proclami pubblicitari.
Mentre al riparo da occhi indiscreti fervevano le trattative, col passare delle ore si è fatto sempre più evidente l'imbarazzo di un esecutivo che era praticamente giunto ad un passo da un fallimento gravissimo, soprattutto per la propria immagine di compagine coesa e maggioranza salda. Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui, nel corso del pomeriggio e della serata sono stati via via affrontati i problemi minori che erano all'ordine del giorno, come il problema delle Rca auto sollevato da Marzano o ancora la riforma del sistema radio televisivo di Gasparri. Mosse che hanno consentito alla maggioranza di prender tempo, lasciando a fine agenda il vero nodo scottante della riunione.
A quel nodo, poi, non c'è arrivato nemmeno il premier, visto che Berlusconi poco dopo le ventuno ha lasciato il consiglio (come avevano già fatto Urbani e Castelli) per un invito ad una cena di rappresentanza insieme al ministro per gli italiani all'estero Mirko Tremaglia. Una apparizione fugace, nel corso della quale il premier si è ben guardato dallo spiegare ai giornalisti cosa stesse succedendo, limitandosi ai soliti annunci sugli impegni a venire. Primo fra tutti la visita di oggi alla Fiera del Levante a Bari durante la quale, ha spiegato, anticiperà i contenuti della prossima Finanziaria.
Il solito annuncio ad effetto che si è andato ad assommare a quello che il presidente del Consiglio aveva già provveduto a propinare a tutti gli italiani qualche ora prima, quando si era presentato in compagnia del ministro Pisanu per gloriarsi della "Vie libere", ennesima operazione di polizia contro immigrati e criminalità. Snocciolando i dati del "pattuglione" ("1.205 immigrati espulsi" ha scandito tronfio il ministro Pisanu) l'esecutivo ha però dimostrato ancora una volta la propria dimestichezza coi balletti di cifre. È bastato infatti scorrere quei dati per accorgersi che nel numero degli espulsi, il governo aveva incluso anche quegli immigrati che, fermati, sono ora ospiti dei centri di permanenza temporanea. Un numero gonfiato ma con innocenza, c'è da giurarlo.


I senza canotta
Massimo Gramellini su
La Stampa

Si può essere di sinistra, pur essendo benestanti? Parliamo di "sinistra" nell'accezione attuale del termine, che comprende chiunque la pensi in modo diverso da Emilio Fede. Rinfacciano a D'Alema di avere la barca e di essersi fatto fare le scarpe, lui che a Prodi le aveva fatte così bene. Instillano il sospetto che il pigolante Agnoletto, che fatichiamo a immaginare su una moto, giri addirittura in Porsche.
Le vittime negano, querelano, ma si sentono comunque a disagio. E non si conosce ancora la reazione di Nanni Moretti, che il Bossi ha accusato di manifestare col cachemere, invece che in canotta come lui, cioè come il Popolo. Proprio qui sta il punto. L'ostentazione della ricchezza è sempre volgare e in un "progressista" anche di più. Però oggi il Popolo cos'è, chi è? I senzatetto e i senzaniente, d'accordo.
Ma poi? Gli insegnanti e gli altri impiegati a reddito fisso che rappresentano la polpa dei girotondini non fanno parte del Popolo almeno quanto gli artigiani che votano Lega? Basta investire parte dello stipendio in un abito di buon taglio o nella visita a una mostra per non rientrare più nella categoria?
A dar retta ai luoghi comuni della destra sbrisolona, per essere Popolo e ancora di più per rappresentarlo degnamente, bisogna mangiare roba unta, vestirsi senza cura e guardare Miss Italia alla tv, magari cambiando precipitosamente canale non appena ci si accorge, come l'altra sera, che le ragazze parlano di volontariato e senza neppure mostrare le tette.


Cento aerei americani e inglesi contro l'Irak. Blair: "Pronti al tributo di sangue"
Bruno Marolo su
l'Unità

Washington Non parole, ma bombe. Cento aerei americani e britannici hanno bombardato il comando dell'aviazione irakena, con il triplice obiettivo di preparare l'invasione, aumentare la pressione sui militari con la speranza che si rivoltino contro il regime, e segnalare al mondo che George Bush ha deciso per la guerra: chi vuol essergli amico dovrà adeguarsi. Il primo a rispondere all'appello è stato come sempre il premier britannico Tony Blair, che sabato è ospite di Bush a Camp David. Ha assicurato che il suo paese è pronto a pagare un “tributo di sangue” all'alleanza con gli Stati Uniti. Molto meno entusiasti si sono dimostrati il russo Vladimir Putin, il cinese Jiang Zemin e il francese Jacques Chirac, consultati venerdì al telefono.
Lunedì toccherà al canadese Jean Chretien, che incontrerà Bush a Detroit ma ha già detto di non avere truppe disponibili. Silvio Berlusconi sarà a New York dall'11 al 13 settembre con Bush e altre decine di capi di governo invitati alla commemorazione della tragica giornata di un anno fa. Venerdì a mezzogiorno parlerà all'assemblea generale dell'Onu. Aveva annunciato l'intenzione di invitare alla prudenza il suo amico americano. Non ha ancora un appuntamento, ma la diplomazia italiana si sta dando da fare per ottenerlo.
In ogni caso Bush non chiede consigli, ma annuncia fatti compiuti. Il comando centrale americano, che da Tampa in Florida dirige le operazioni in Irak, ha presentato il bombardamento di giovedì sera come ordinaria amministrazione: Stati Uniti e Gran Bretagna pattugliano le zone di non sorvolo a nord e a sud di Baghdad, e reagiscono immancabilmente con il lancio di missili ogni volta che la contraerea irakena li inquadra con i radar. Un portavoce militare irakeno ha affermato che sono stati colpiti “obiettivi civili” presso la città di Rutbah, sulla strada tra Baghdad e il confine con la Giordania. La verità è diversa. Non si tratta di ordinaria amministrazione, e le strutture bombardate non sono civili. Secondo fonti militari britanniche citate dalla Bbc all'attacco hanno partecipato un centinaio di cacciabombardieri, aerei cisterna e radar volanti. La città di Rutbah si trova a sud ovest di Baghdad, sulla rotta che dovrebbero seguire i paracadutisti in caso di invasione. Il comando della difesa aerea irakena in questo settore è ovviamente il primo obiettivo da distruggere. L'azione di giovedì dimostra che Bush rompe gli indugi. Da questo momento si fa sul serio, anche se i preparativi richiederanno almeno tre mesi.
Esclusa la possibilità di usare le basi in Arabia Saudita, o di lanciare un numero sufficiente di truppe d'assalto dalle navi, gli Stati Uniti dovranno probabilmente sfruttare al massimo l'aeroporto di Aviano e le installazioni militari sotto il loro controllo in Germania e in Gran Bretagna. Con il cancelliere tedesco Schroeder è iniziata un'opera di ricucitura, dopo settimane di polemiche. La Germania ha confermato che rimane alleata degli Stati Uniti contro il terrorismo: una frase generica, che per ora dimostra soltanto la volontà di non litigare in pubblico.
Tony Blair, invece, non ha dubbi. Oltre al prezzo di sangue che si è detto disposto a pagare ha accettato anche un prezzo politico. La chiesa anglicana, il partito laburista e i sondaggi di opinione puntano risolutamente in direzione contraria alla guerra. Eppure il premier, prima di partire per Washington, ha spiegato alla Bbc che la relazione speciale con gli Stati Uniti è più importante per lui di ogni altra considerazione. “Nei momenti di crisi – ha sostenuto – non bastano le espressioni di solidarietà. Sarebbe troppo facile. I nostri alleati (americani) hanno bisogno di sapere che siamo pronti a impegnarci, che saremo al loro fianco quando si comincerà a sparare”.
Blair ha provato, senza successo, a convincere altri personaggi chiave. Ha ricevuto a Londra il ministro degli esteri saudita, principe Saud, e ha telefonato a Putin e a Chirac. La risposta del presidente russo, annunciata dall'agenzia ufficiale, è stata irremovibile: “Dubito profondamente che ci sia motivo per usare la forza in Irak”.
Silvio Berlusconi parlerà all'onu un giorno dopo Bush. A Washington viene dato per scontato che ascolterà attentamente e prenderà atto come sempre della volontà del più forte. Il presidente americano non ha bisogno di chiamarlo prima di approvare la stesura definitiva del proprio discorso. Si riserva invece di consultare Tony Blair a Camp David. Per ora viene presa in considerazione l'idea di sollecitare dal consiglio di sicurezza un ultimatum all'Irak, in termini tali da renderlo inaccettabile e giustificare la risposta armata. In mancanza di prove più forti, gli Stati Uniti hanno consegnato all'Onu foto scattate dai loro satelliti spia nel centro di ricerche nucleari di Tawaitha, dove gli irakeni hanno costruito nuovi edifici.
Saddam è sul punto di ottenere la bomba atomica? L'ex segretario di stato George Shultz pensa di sì, e invita a colpire senza indugio. “Chi ha un serpente a sonagli in cortile – scrive sul Washington Post – non aspetta che morda per abbatterlo”. L'ex presidente Bill Clinton è scettico. “Non è stato Saddam Hussein – ha dichiarato – a uccidere 3100 persone l'11 settembre dell'anno scorso. E' stato Osama Bin Laden, e per quanto ne sappiamo è ancora vivo. E' lui la più grande minaccia per la nostra sicurezza”.


Fra venti di guerra e speranze di pace
Aldo Cazzullo su
La Stampa

Il clima da vigilia di guerra è nei gesti particolarmente bruschi e nei tratti particolarmente accigliati degli agenti di scorta, nella gravità dei volti gotici dell'establishment, nell'andirivieni del gommone con i sommozzatori della polizia in tenuta di guerra, che c'erano già negli anni scorsi ma quasi non venivano notati, nella sbarra all'ingresso vegliata dai diversi corpi delle forze dell'ordine oltre che dai vigilantes privati, negli scenari da economia bellica disegnati dagli economisti neokeynesiani come Jean-Paul Fitoussy e da economisti liberisti come Renato Brunetta, nei visi gravi e preoccupati dei grandi vecchi della scienza italiana, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, in nero già alle 9 del mattino, che conversa in sussurri con la nipote Piera sulla terrazza ad altezza dell'onda del lago. Forse è anche nel nervosismo dell'interprete di Shimon Peres che rifiuta di tradurre la domanda di una cronista italiana, "this is a speech not a question", lei fa troppi discorsi venga al dunque. Non è, la vigilia di guerra, nei gesti misurati e informali del ministro degli Esteri israeliano, che prima di affrontare le telecamere indugia un attimo in favore di specchio, cava velocemente un pettine con cui tampona la stempiatura, rinuncia ad accomodare il calzino corto che rivela il polpaccio. E' nelle sue parole, però. "Tra dieci, forse solo tra cinque anni, potrebbero esserci armi nucleari in Medio Oriente", dice Peres ai cronisti del Workshop Ambrosetti di Cernobbio. Se per quella data i nodi non fossero ancora stati sciolti, se pace e stabilità fossero remote come sono ora, "quelle armi potrebbero essere usate". Subito dopo, a porte chiuse, Peres ha proseguito il suo ragionamento, in termini ancora più terrificanti: "Qualcuno dice che quelle armi sarebbero Bombe rudimentali. Io dico che anche quella di Hiroshima era una Bomba rudimentale". L'evocazione del trauma nucleare del secolo scorso è la risposta israeliana all'immagine mortifera usata l'altro ieri da Amr Moussa, segretario della Lega Araba, già ministro degli Esteri di Mubarak, secondo cui "l'attacco a Baghdad spalancherebbe le porte dell'inferno". "Peres non si immischi nella questione irachena", ha ammonito Moussa a Cernobbio, forse ignaro che esattamente questo aveva detto poco prima il Nobel per la pace: Israele non avrà un ruolo diretto. "Saremo buoni soldati", ha detto Peres usando un'espressione che gli è cara, come già nel '91: perché il buon soldato sa anche restare con le armi al piede, in attesa che gli alleati facciano il lavoro per lui. "Qualunque sia la decisione di Bush, a noi andrà bene", ha tagliato corto Peres, con l'aria di chi sa qualcosa in più di quanto non dica. Anche Moussa, nel duello diplomatico a distanza, ha usato due lessici e due toni, uno per la stampa l'altro per gli ospiti. "L'Iraq accetterà gli ispettori Onu, c'è già un appuntamento fissato la settimana prossima tra il segretario generale Annan e il ministro degli Esteri Aziz", ha dichiarato alle agenzie. "Occorre costringere l'Iraq ad accettare gli ispettori Onu", ha corretto a porte chiuse. Qualora gli ispettori trovassero "evidenze", cioé prove, allora e solo allora potrebbe scattare la risposta armata, è la tesi della Lega Araba. Gli interlocutori italiani che hanno già preso posizione pubblicamente contro la guerra, come Carlo De Benedetti ed Enrico Letta, aggiungono di loro qualche distinguo. Letta è rimasto colpito dall'avvertimento di Richard Perle, presidente del Defence Council, molto influente negli ambienti diplomatici e militari americani, che ha messo in guardia sul flusso di finanziamenti che in particolare dall'Arabia Saudita continuano ad alimentare il terrorismo. "Non mi permetterei mai di contraddire un uomo dall'esperienza di Peres - è il ragionamento di De Benedetti -; mi limito a ricordare che se gli uomini di Bush padre hanno espresso dubbi, è perché l'allarme sull'ondata d´instabilità che la guerra potrebbe portare in paesi come l'Egitto e l'Arabia Saudita non pare infondato". Anche sulla Palestina si sono spese parole di pace in pubblico e pessimistiche considerazioni in privato. "Il negoziato continua, io stesso guido una delegazione di cinque ministri in contatto con i palestinesi", rassicura Peres. Ma poi nelle conversazioni "off the record" sbotta: "Sono nove anni che Arafat ci prende per il naso. Il terrorismo è un problema suo, che per causa sua diventa nostro. Dovreste provare a vivere come facciamo noi, tra allarmi continui che coinvolgono ognuno e in ogni luogo, a casa e in ufficio, i famigliari e le segretarie". Incombe il primo anniversario dell'11 settembre e la ricorrenza porta sinistri presagi, per Peres è "un'altra tappa della globalizzazione", dove sono le questioni strategiche a essere messe in comune, insieme con la paura. Bin Laden segna quella che il ministro degli Esteri israeliano definisce con formula suggestiva "la privatizzazione del terrore", elevando a sistema la teoria di lutti aperta dai conflitti religiosi in Asia e da quelli etnici in Africa. Un'analisi che in qualche modo Moussa condivide, traendone però la conclusione opposta: "Quando in Italia avevate le Br e in Germania avevano la Baader-Meinhof, nessuno ha accusato Italia e Germania, né tantomeno la cristianità, di terrorismo o complicità con il terrorismo". La guerra al terrore come guerra degli Stati contro privati; "anche un attacco all'Iraq non sarebbe una guerra all'Iraq, ma a Saddam", distingue Peres. "Perché di questo dovete darmi atto: Saddam è un assassino; e la Lega Araba non ha salvato né gli iraniani, né i kuwaitiani, né curdi e sciiti dalla sua furia omicida. Anche loro erano musulmani".


   7 settembre 2002