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E' finita l'illusione
Massimo Riva su
la Repubblica

La notizia non è cattiva, ma pessima. Innanzitutto in termini contabili: con il buco di tre miliardi di euro in agosto, il fabbisogno pubblico dei primi otto mesi dell'anno diventa una voragine di 34 miliardi, addirittura il 60 per cento in più rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente. Ciò significa che l'impegno assunto dal governo di contenere il disavanzo 2002 attorno all'1 per cento del Pil non è più una penosa bugia, ma un impudente inganno della pubblica opinione.
Di questo passo, volendo essere ottimisti, si può sperare di chiudere l'anno in corso un poco sopra il due per cento: ovvero su livelli analoghi a quelli del 2001. Come dire, insomma, che i quindici mesi della cura Tremonti sono trascorsi del tutto invano; anzi il malato sta peggiorando. Tant'è che, a questo punto, per raddrizzare le prospettive del bilancio 2003 diventa reale e fondata l'ipotesi di una manovra pesantissima da non meno di 30 miliardi di euro.
A rendere più fosco questo orizzonte c'è poi l'atteggiamento del governo, che non è più esagerato definire irresponsabile. Per spiegare il buco di agosto, infatti, il ministero dell'Economia si è trincerato dietro l'ovvia giustificazione della bassa crescita in atto nell'economia italiana. Peccato che un simile argomento, sulle bocche di Berlusconi e Tremonti, risulti essere per loro un "boomerang" micidiale. Che il divario fra entrate e uscite dell'Erario aumenti a causa della frenata congiunturale è un fatto, ma altrettanto è un fatto che esso ha assunto le proporzioni di una voragine proprio perché l'attuale governo ha voluto insistere nel fare previsioni di crescita che non stavano letteralmente né in cielo né in terra, dietro le quali ha mascherato la sua inerzia assoluta.
Per rispettare le promesse di Bengodi che aveva sparso a piene mani durante la campagna elettorale, l'accoppiata Berlusconi-Tremonti ha continuato a mentire agli italiani presentando un bilancio di previsione 2002 scritto con l'inchiostro della fantasia. Per il riequilibrio dei conti si è puntato tutto su una speranza di crescita dell'economia superiore al due per cento, che è stata mantenuta ferma per mesi e mesi: non solo a dispetto delle ben più basse stime delle maggiori autorità internazionale, ma perfino contro le indicazioni che la realtà delle rilevazioni statistiche fornivano implacabili trimestre dopo trimestre. Dunque, se i conti oggi non tornano, la colpa non è del rallentamento dell'economia, ma di chi quella frenata non poteva non vedere ma ha fatto finta di non vedere.
E, quel che è peggio, lo ha fatto deliberatamente. Tant'è che ancora in questi giorni, a meno di un mese dalla presentazione della manovra finanziaria per il 2003, l'intero governo insiste nel giurare sulle cifre di un Documento di programmazione (Dpef) che era già superato in primavera, quando è stato presentato, e oggi appare come una caricatura della realtà contabile della finanza pubblica. Qualcosa del genere accadde anche lo scorso anno, quando a fine settembre venne presentata una Finanziaria 2002 che ripeteva le stime calcolate prima della tragedia americana dell'11 settembre senza minimamente adeguarsi al radicale cambiamento di prospettive che il crollo delle Twin Towers avrebbe inesorabilmente provocato.
Sordi al monito secondo cui soltanto i cretini non cambiano mai idea, fermi agli slogan di una campagna elettorale miracolistica, il presidente Berlusconi e il fido ministro Tremonti hanno così creato le premesse del disastro finanziario del quale ora si cominciano a intuire le proporzioni. E adesso, non paghi di una catena di insuccessi sempre più evidenti, mostrano di non sapere fare altro che continuare su questa loro strada. È soltanto di ieri la notizia sull'aggravamento del buco dei conti pubblici in agosto, ma è appena di pochi giorni fa l'ilare annuncio del presidente del Consiglio al meeting ciellino di Rimini che "l'economia va".
Ma dove va, on. Presidente? Avevate previsto una crescita del Pil al 2,3 per cento per quest'anno. Poi, a primavera, il ministro Tremonti ha tentato di cambiare le carte in tavola parlando di un aumento dell'1,3 pur senza nulla fare per tamponare gli effetti di questo taglio sui saldi della finanza pubblica. Ora perfino un soggetto non privo di simpatie per il governo, come la Confindustria, prevede che sarà un lusso se la crescita 2002 sfiorerà l'uno per cento. Dove va, dunque, l'economia italiana? E, d'altro canto, dove potrebbe andare nel mezzo di una congiuntura internazionale debole tanto in Europa che negli Stati Uniti? È ovvio che si tratta di domande retoriche. Il punto vero è che qualcuno a Roma ha coltivato la delirante illusione che l'Italia potesse trasformarsi nella locomotiva di se stessa in un orizzonte congiunturale che diventava sempre più oscuro per tutti. Ora siano alla resa dei conti con questa follia che va ricordato aveva sedotto milioni di italiani. E il conto s'annuncia, ogni mese, sempre più salato, mentre chi dovrebbe porvi riparo continua a non voler prendere le misure con la realtà e a sfuggire all'assunzione delle proprie responsabilità.
Le uscite ordinarie dello Stato stanno sempre più sopravanzando le entrate ordinarie del medesimo. Di conseguenza il debito pubblico, che la saggia politica inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi stava riconducendo nel sentiero degli impegni assunti con l'unione monetaria, minaccia di invertire il cammino del risanamento e di riportare il paese alla condizione di sorvegliato speciale in Europa. Il divario fra l'inflazione domestica e quella degli altri soci dell'Unione si sta di nuovo allargando e mette in serio pericolo la competitività di prezzo del "made in Italy". Ebbene, in questa inquietante congiuntura, il meglio che le menti della maggioranza berlusconiana sanno partorire per raddrizzare i saldi del bilancio è il ricorso a qualche condono (fiscale, forse previdenziale, magari anche edilizio). Tutto insomma, anche la replica delle peggiori imprese dell'era democristiana della decadenza, pur di non dover ammettere di aver perso il controllo dei conti pubblici e di non avere il coraggio politico (e forse neppure l'attrezzatura culturale) per affrontare i guasti provocati dal proprio incosciente ottimismo propagandistico.
Ma gli italiani, a cui più prima che poi toccherà pagare con lacrime e sangue il costo di queste follie, per il momento forse potranno consolarsi con il tragicomico spettacolo offerto in questi giorni da Palazzo Chigi. Dove il presidente del Consiglio nei panni di un novello Fregoli è impegnatissimo nella triplice veste che occupa nella crisi del calcio che lo vede recitare dalla parte della Rai come capo del governo, dalla parte di Mediaset come suo proprietario, dalla parte della Lega come principale del suo presidente Galliani e come patron del Milan. Questa sì è la grande politica, altro che quelle noiose bazzecole dei conti pubblici.


I conti non tornano
Maroni ai ferri corti con Cisl Uil
Felicia Masocco su
l'Unità

I conti dello Stato vanno male, più delle previsioni che già guardavano al peggio. Praticamente è un disastro, lo riconosce perfino il Tesoro costretto a giustificarsi con "l'andamento non soddisfacente dell'economia". Il fabbisogno pubblico è fuori controllo, l'importante indicatore di agosto, l'ultimo prima della defininizione della Finanziaria, decreta un "rosso" di 3 miliardi di euro a fronte di un avanzo di 2,828 miliardi dello stesso mese dello scorso anno. Nei primi otto mesi del 2002 il fabbisogno ha toccato quota 34,1 miliardi quando l'anno precedente era pari a 21,232 miliardi. L'incremento secco è di circa 13 miliardi di euro, la bellezza del 60,6% in più.
In pratica significa che non c'è un euro per finanziare le promesse berlusconiane a cominciare dalla riduzione delle tasse e gli ammortizzatori sociali, cioè per i due cardini del famigerato Patto per l'Italia che ha introdotto la libertà di licenziare e sarà inoltre dura per i dipendenti pubblici vedere tutelato il potere d'acquisto dei loro stipendi. E ne faranno le spese anche scuola e sanità.
Ce n'è abbastanza per far puntare i piedi a Cisl e Uil che ora reclamano il mantenimento degli impegni presi dal governo. "Altrimenti sarà sciopero, magari insieme a Cofferati", rompe gli indugi il segretario della Uil Luigi Angeletti dopo che il numero uno della Cisl Savino Pezzotta aveva dato a Maroni il suo aut-aut sul rinnovo dei contratti pubblici. Il patto stretto in luglio comincia a mostrare crepe vistose, mentre l'opposizione attacca: ci vuole una nota aggiuntiva alla Finanziaria, il governo riferisca in Parlamento.
Lavoratori e famiglie sono chiamati a pagare l'incapacità e la malafede del governo e pagheranno due volte. Un'altra conseguenza sarà infatti una Finanziaria salatissima che rischia di rivalersi sulla spesa sociale, pensioni in primis. Perché oltre alle ipotesi dei condoni su cui pesa il veto della Ue, il governo difetta di idee su come far cassa e ripianare il buco che ha provocato. Conti alla mano ci vorrà una "correzione" di 15 miliardi, al netto degli interventi su scuola, fisco e pubblico impiego, fa notare l'ex ministro dell'Industria Pierluigi Bersani, oggi responsabile economico dei Ds. "I dati dal fabbisogno lo confermano - dice -. Ci sono tendenze visibili che sono state ignorate. Chiediamo al governo di tornare in Parlamento e di smettere di attribuire le cose che non vanno all'opposizione. Questo significa ritardare la cura".
Il catastrofico balzo in avanti del fabbisogno agostano battezza dunque in malo modo l'apertura della stagione della Finanziaria, in barba alle tante rassicurazioni e ai miracoli economici cui a questo punto non crede più nessuno. Una manovra "virtuale", senza alcuna attinenza con la realtà come quella presentata lo scorso anno trascinerebbe l'Italia in un tunnel. Il peggio "deve ancora venire" per Vincenzo Visco, ex titolare del Tesoro: "Visti i dati di oggi -spiega - il rischio è che per la prima volta dal '95 il debito pubblico smetta di diminuire rispetto al Pil. Se questo si verifica per l'Italia sarebbe un colpo durissimo. Anche perché, avverte, a novembre con l'autotassazione vedremo gli effetti sul gettito della Tremonti-bis e dei provvedimenti senza copertura varati dal governo. Chiuderemo l'anno con un fabbisogno sopra i 40 miliardi". Come dire che tutto il risanamento degli anni passati "se ne va in fumo in un solo anno di governo della destra". Fare finta di nulla a questo punto non è più possibile, "Cosa altro deve accadere affinchè il Governo modifichi il Dpef?", si domanda il responsabile economico della Margherita Enrico Letta; mentre il capogruppo della Margherita alla Camera, Pierluigi Castagnetti, prevede una Finanziaria "pesantissima".



Ma il patto di stabilità per ora non si tocca
Andrea Bonanni sul
Corriere della Sera

Si sono riuniti per sette ore a Bruxelles, nelle stanze ben guardate del Centre Borchette , mentre dalle capitali arrivavano notizie sempre più allarmanti sui dati dei bilanci pubblici. Ma nessuno dei quindici dirigenti dei ministeri economici nazionali, che con i responsabili della Commissione compongono il Comitato economico e finanziario dell'Unione, ha sollevato ieri la questione di una revisione dei criteri del Patto di stabilità.
Eppure, la Germania barcolla, con un deficit tendenziale che nei primi sei mesi è andato al 3,5 per cento del Pil e con le spese, ancora non quantificate, necessarie per far fronte ai disastri causati dalle alluvioni dello scorso agosto.
Eppure, la Francia stenta a tenere il ritmo, con un fabbisogno che, se tutto va bene, si collocherà attorno al 2,5% mentre la crescita rallenta al di sotto della soglia del 3% considerata indispensabile per raggiungere il pareggio nel 2004. Il Portogallo, intanto, ha già chiaramente sfondato il tetto di Maastricht, avendo chiuso il 2001 con un indebitamento del 4,1% del Pil, ben al di sopra del limite del 3%.
Quanto alle notizie che arrivano dall'Italia, mese dopo mese, sono sempre più sconfortanti. I conti italiani segnano una costante flessione rispetto all'anno scorso mentre le previsioni di crescita del governo si rivelano invariabilmente troppo ottimiste. L'obiettivo di un deficit all'1,1 per cento appare ormai praticamente irraggiungibile e molti analisti pensano che a fine anno potrebbe superare la soglia di rischio del 2%.
Ma i governi europei non sembrano per ora intenzionati a cedere. Il ministro delle Finanze tedesco assicura che, alla fine, la Germania chiuderà il 2002 con un deficit tra il 2,6 e il 2,9%, dunque al di sotto del tetto previsto dal Patto di stabilità. E questo grazie anche al fatto che le prudenti previsioni di Berlino sulla crescita economica (0,75%) potranno essere quasi certamente rispettate. La Francia si prepara a rinviare i tagli alle tasse, annunciati solo pochi mesi fa da Chirac in campagna elettorale, pur di non far salire l'indebitamento. Il Portogallo ha già varato una manovra economica draconiana, che dovrebbe riportare il fabbisogno di quest'anno al di sotto del 3%.

In realtà, al quartier generale di Bruxelles, dove ieri erano riuniti gli strateghi di questo malconcio esercito delle finanze pubbliche, i bollettini di sconfitta che arrivano dal fronte della crescita economica non suonano ancora come un annuncio di disfatta. La battaglia per portare tutti i bilanci in pareggio nel 2003 è perduta? Pazienza: si rinvia di un anno la data programmata per la vittoria. Ma non per questo si rinuncia all'obiettivo finale.
Il problema, semmai, è quello di modulare gli interventi della Commissione. Di trovare i tempi e i modi per gli avvertimenti e le raccomandazioni che Bruxelles è tenuta a dare ai Paesi meno disciplinati. Di rendere più efficiente e meno punitivo il sistema di sorveglianza multilaterale dei conti pubblici. Ieri, si è deciso che "entro settembre" l'esecutivo comunitario presenterà il suo rapporto sul Portogallo, che verrà trasmesso al Comitato economico e finanziario e che arriverà ai ministri non prima di novembre per la sanzione definitiva. Per Lisbona non ci sono scappatoie: ha infranto il patto nel 2001 e verrà ammonita. Quanto al caso tedesco, da Bruxelles non uscirà una parola prima delle elezioni del 22 settembre. Quello che succederà dopo dipenderà in larga misura dal bilancio 2003 che il nuovo governo dovrà varare: se sarà credibilmente orientato a una drastica riduzione del deficit, non è detto che debba scattare la raccomandazione.
Lo stesso discorso dovrebbe valere per la Francia e per l'Italia. I ministri economici ne discuteranno, probabilmente, nel corso della riunione informale prevista per il fine settimana a Copenhagen. Ma, per ora, non si vedono segnali che l'Unione si prepari a scoperchiare il vaso di Pandora del Patto di stabilità mettendo in discussione il rigore finanziario che sta dietro alla stabilità dell'euro.


Botta e risposta ad Johannesburg
Prodi: nessuna novità nelle proposte del premier
Paola Orefice su
Il Messaggero

"Non vedo novità nelle proposte annunciate da Berlusconi", attacca Romano Prodi. Ribatte Silvio Berlusconi: "E' vero che l'E-government e la De-Tax non sono novità, ma l'obiettivo deve essere quello di andare avanti con cose che possono essere applicate". Un botta e risposta a distanza, anche se tutti e due si trovano a Johannesburg, tra il presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio. I due giocano di fioretto. Forse, per i più maliziosi, una anticipazione su quella che potrebbe essere una sfida più infuocata. Una sfida che si potrebbe aprire già nel 2004 quando Prodi terminerà il suo mandato di presidente della Commissione europea e, quindi, in veste di leader del centrosinistra, potrebbe mettere in atto la sua opposizione contro il concorrente Berlusconi.
Ancora Prodi a Berlusconi: "Sono proposte che Berlusconi ha fatto altre volte e che l'Europa ha già detto di appoggiare". Ammette Berlusconi: "E' vero. Si tratta di progetti già presentati al G8, ma sono una novità per tanti paesi che non fanno parte del G8 e che non erano venuti alla conferenza di Palermo sull'E-government in maggio". Ma non è tutto. Il presidente del Consiglio dice: "Noi abbiamo scelto la strada della concretezza. Qui, invece, abbiamo assistito a molti discorsi, spesso teorici. Noi ci siamo distinti per non aver detto alcuna delle frasi d'obbligo, come il ringraziamento al paese ospitante. Un vezzo da abolire".

Per il vicepresidente del gruppo della Margherita alla Camera, Franco Monaco, "non sorprende che Berlusconi pretenda di sostituire la nozione di "sviluppo sostenibile" con quella di "sviluppo duraturo"". Laura Cima e Luana Zanella dei Verdi accusano il presidente del Consiglio di aver preso "lucciole per lanterne e, al summit, intervenendo sul tema caldo dell'aborto, lo definisce una sorta di metodo di controllo delle nascite. Un'altra gaffe davanti al mondo intero". Per il senatore ds, Fausto Giovannelli "sembra di essere tornati ai tempi di Napoleone e casa Savoia. L'Italia è di nuovo un "nano politico"". Delusi Greenpeace e Legambiente perché Berlusconi "ha ignorato il protocollo di Kyoto" sull'ambiente. Critico anche il presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio: "E' avvilente e deludente proporre l'E-model per i bilanci degli Stati a popoli che non hanno né acqua né medicine".


L'esempio di Bloomberg
Conflitto di interessi fra New York e legge Frattini
Giovanni Sartori sul
Corriere della Sera

Il ministro Frattini, nella sua intervista al Corriere dell'1 settembre, si spericola in due affermazioni: 1) che la decisione dell' Ethics Board di New York (che Frattini dà mostra di non avere letto, visto che l'ente in questione si chiama Conflict of Interest Board ) "è molto più blanda" della sua legge, e che 2) l'opinione del suddetto Board consiste in un "accordo tra le parti e non in un obbligo di vendita". Al contempo il premier Berlusconi dichiarava, tutto giulivo, che il sindaco di New York, Bloomberg, "non vende le azioni tv, vende il resto". Infine, e di rincalzo, il professor Mannoni (che deve la sua notorietà al fatto di essere il mio "fisso" nel contraddirmi) scrive sul Giornale che si aspetta questa mia obiezione: "Che cosa c'entra l'amministrazione comunale di New York con i media?". Già, cosa c'entra? La domanda è sua, risponda lei. La domanda pertinente è invece sulla paragonabilità. Secondo Frattini, quando lui sollevò il paragone tra i due, gli "venne risposto che Bloomberg è solo un sindaco e in confronto a Berlusconi è un piccolo proprietario di tv". Pertanto lo "fa veramente ridere che oggi ci si lanci sul caso Bloomberg". Eppure, dopo aver debitamente riso, in quel paragone si rilancia anche Frattini. Incautamente, si vedrà.
Anche se è vero, come è vero, che Bloomberg è un pesce da dieci a cento volte più piccolo di Berlusconi, entrambi sono pesci della stessa specie, e cioè sotto ispezione per lo stesso motivo. L'ispezione su Bloomberg si è testé conclusa. Cosa ci può insegnare sul caso Berlusconi? A detta di Frattini, come ho già detto, la cura americana è molto più blanda della sua. Se così fosse, perché non la adotta? Perché vuol essere, con Berlusconi, più cattivo del necessario?
La "notizia" che piace a Berlusconi è che Bloomberg si tiene la sua tv. Il fatto che Bloomberg venda il resto (non è esatto, ma il Cavaliere la mette così) non lo scuote. Invece lo dovrebbe scuotere moltissimo. Via Publitalia, via le assicurazioni, via tutto? Non ci credo. Ma quel che lo dovrebbe davvero allarmare è che in tutto il procedimento di New York nessuno ha mai invocato la Costituzione. In Italia ci è stato raccontato che toccare Berlusconi era incostituzionale, che toccandolo si violava il principio della proprietà privata, dell'eguaglianza, e altri ancora. Ma anche la Costituzione americana tutela la proprietà e l'eguaglianza. Eppure Bloomberg non l'ha mai invocata a sua tutela. Per l'ovvia ragione che la difesa costituzionale è speciosa, e che in America non reggerebbe un giorno.
Dunque, perché viene consentito a Bloomberg di tenersi la sua tv? Io avevo già previsto otto mesi fa che non sarebbe stata toccata; e questo perché si riduce a essere un servizio di informazione finanziaria di nessuna rilevanza politica e senza rapporti di affari con la città di cui è sindaco. Ma se Berlusconi cadesse sotto le grinfie del Board di New York, allora è sicuro che la prima dismissione che gli sarebbe stata imposta è proprio quella di Mediaset.

Anche se è vero, come è vero, che Bloomberg è un pesce da dieci a cento volte più piccolo di Berlusconi, entrambi sono pesci della stessa specie, e cioè sotto ispezione per lo stesso motivo. L'ispezione su Bloomberg si è testé conclusa. Cosa ci può insegnare sul caso Berlusconi? A detta di Frattini, come ho già detto, la cura americana è molto più blanda della sua. Se così fosse, perché non la adotta? Perché vuol essere, con Berlusconi, più cattivo del necessario?
La "notizia" che piace a Berlusconi è che Bloomberg si tiene la sua tv. Il fatto che Bloomberg venda il resto (non è esatto, ma il Cavaliere la mette così) non lo scuote. Invece lo dovrebbe scuotere moltissimo. Via Publitalia, via le assicurazioni, via tutto? Non ci credo. Ma quel che lo dovrebbe davvero allarmare è che in tutto il procedimento di New York nessuno ha mai invocato la Costituzione. In Italia ci è stato raccontato che toccare Berlusconi era incostituzionale, che toccandolo si violava il principio della proprietà privata, dell'eguaglianza, e altri ancora. Ma anche la Costituzione americana tutela la proprietà e l'eguaglianza. Eppure Bloomberg non l'ha mai invocata a sua tutela. Per l'ovvia ragione che la difesa costituzionale è speciosa, e che in America non reggerebbe un giorno.
Dunque, perché viene consentito a Bloomberg di tenersi la sua tv? Io avevo già previsto otto mesi fa che non sarebbe stata toccata; e questo perché si riduce a essere un servizio di informazione finanziaria di nessuna rilevanza politica e senza rapporti di affari con la città di cui è sindaco. Ma se Berlusconi cadesse sotto le grinfie del Board di New York, allora è sicuro che la prima dismissione che gli sarebbe stata imposta è proprio quella di Mediaset.

Imposta? Frattini, Mannoni e soci negano a perdifiato che il procedimento americano sia obbligante. Anche nella sua succitata intervista, Frattini sottolinea che Bloomberg e il Board hanno soltanto negoziato. Allora se Bloomberg dice sempre di sì, deve essere perché è un succubo o perché è stato folgorato sulla via di Assisi da San Francesco. Possibile? No, assurdo. È vero che i boards americani emettono soltanto una advisory opinion ; ma questo non toglie che il loro "opinare" sia vincolante. I boards non negoziano sull'esistenza o meno di un conflitto d'interesse; negoziano soltanto su quale ne sia il rimedio. Bloomberg è libero di dire no; ma in tal caso viene dichiarato in conflitto di interesse e sarebbe costretto a dimettersi. In materia il testo che ci arriva da New York è esemplare, mentre la legge per la quale Frattini ora chiede "tempi strettissimi" di approvazione non è più "dura"; è invece una turlupinatura.


Ma la differenza vera la farà solo Cofferati
Mario Pinzauti su
Il Nuovo

Massimo D'Alema l'ha detto e ridetto, ora anche lo scrive e lo stampa. Scrive e stampa nel suo ultimo libro, ”Oltre la paura”, che demonizzare l'avversario, cioè Berlusconi, serve a poco o a niente, mentre a molto servirebbe cercare e soprattutto trovare il consenso popolare.
Probabilmente mentre ripete e anche pubblica questa ricetta per la cura dei mali del centrosinistra, della sinistra in particolare, il presidente dei ds pensa un po' anche ai casi suoi, al “crucifige”di cui è stato oggetto da parte del popolo dell'Ulivo, del suo stesso partito per il patto della crostata e l'inciucio della Bicamerale e chissà che non rimugini,masticando amaro, anche sui gossips giornalistici d'agosto e i relativi velenosi commenti sulla sua nuova barca di 18 metri, tema su cui ogni tanto torna ancora qualche vignettista (ad esempio Forattini su “La Stampa”di domenica), inzuppando senza clemenza pane e biscotti.
E'certo che D'Alema, mentre di nuovo tenta di dimostrare quanto sia carina, utile e redditizia la politica in guanti gialli, pensa, preoccupandosi, ai girotondisti che sabato 14 settembre tornerano in piazza a Roma a dire, urlare, cantare che della giustizia e di altro, molto altro, Berlusconi sta facendo carne di porco, quindi, di nuovo, demonizzeranno il premier e, quel che è peggio (per il presidente dei ds) borbotteranno, forse sbotteranno anche contro l'opposizione per la sua miseria d'idee e di fatti, perché i suoi leadersi - nessuno escluso ma con D'Alema inesorabilmente in primo piano - sono logori, hanno il fiato corto e quanto alla paura (quella della sconfitta permanente) non sono oltre, ci sono dentro e potrebbero restarci per molto, per i quattro anni che ci dividono dalle prossime elezioni e anche dopo: a meno che…
A meno che Sergio Cofferati, l'uomo che al festival dell'”Unità” a Modena ha detto di collocarsi “in panchina”, come “ufficiale della riserva”, in tempi non biblici non colga, nella situazione politica, segnali di emergenza e decida, in tal caso, come egli stesso ha ipotizzato, di scendere in campo.
Allora i girotondisti potrebbero smetterla di brontolare e sbottare. Allora qualche consenso potrebbe arrivare, probabilmente senza dar retta alle ricette non disinteressate dell'emerito professor Massimo D'Alema. Allora, demonizzato o no, Berlusconi potrebbe correre qualche pericolo più serio di quelli da cui, con rude tenerezza padana, lo mette in guardia Bossi quando gli fa notare che come Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri, capo di Forza Italia e della Casa delle Libertà, consigliere e interlocutore numero uno di Bush, Blair, Aznar, Putin e tanti altri potenti della terra, paroliere delle canzoni napoletane musicate da Apicella, giardiniere di Villa Certosa a Portorotondo e molto altro ancora lavora davvero troppo, più di quanto consentano le energie fisiche e intellettuali di una qualsiasi persona, anche se eccezionale o addirittura unica.

In attesa che su tutto questo sia fatta luce è difficile supporre che l'opposizione possa andare, in tempi brevi, ”oltre la paura”, come D'Alema auspica e invoca nel suo libro. Lo stesso Cofferati ha avvertito (sempre a Modena) che non c'è da aspettarsi un granchè dalle spallate a un governo che, evidentemente, grazie all'abilità, alle furbizie, anche alla fortuna del suo leader, ha la pelle dura, durissima, nonostante le difficoltà interne ed esterne. E' stato, questo, un impopolare ma onesto invito ad avere pazienza rivolto a un popolo, quello delle feste dell'”Unità”, dei girotondi, dei fax e delle e-mail, che pure urla, con rabbia e disperazione, la sua impazienza. Si ritorcerà contro chi ha avuto la franchezza e il coraggio di esprimerlo, oppure sarà apprezzato o addirittura applaudito e contribuirà a fare del suo autore un leader?
Anche questo è tutto da vedere e da verificare. Com'è da vedere e da verificare se la suggestiva formula indicata da Cofferati per la rivincita del centro-sinistra-un programma incisivo e credibile, un solo leader, la trasformazione dell'Ulivo in una federazione di forze coese dal reciproco rispetto (sic!) - sia applicabile o almeno proponibile a quell'armata Brancaleone che negli ultimi due-tre anni è stato e talvolta è ancora il centro-sinistra oppure sia destinata,e già in partenza, a finire nei libri dei sogni, più o meno come accade per le ricette dette, ripetute, scritte e pubblicate (per Mondatori, la casa editrice di Berlusconi) da Massimo D'Alema.


Sui girotondi soffia già il vento della rivalità
Fabio Martini su
La Stampa

Per ora è soltanto un venticello. Ma la gelosia, si sa, inizia con un soffio e poi non sai mai come va finire. Alla vigilia della kermesse girotondina del 14 settembre, tra i capi del movimento cominciano a spuntare rivalità, dissapori, personalismi. Giorni fa non è finita bene una chiacchierata tra Nando Dalla Chiesa e Paolo Flores d´Arcais. "Quando ci vediamo per parlare del 14?", aveva chiesto il primo. E Flores: "Il 3 settembre". Dalla Chiesa: "Come il 3? Quel giorno è il ventesimo anniversario della morte di mio padre, non potrò esserci...". Flores: "Mi dispiace molto, ma d´altra parte non posso ricordarmi di tutte le ricorrenze...". Conclusione crudele di una chiacchierata, soprattutto per un ambiente che ha costruito una politica sul culto della memoria e degli anniversarsi. Naturalmente le diffidenze non intaccheranno il crescente successo di una manifestazione "costruita" con grande sapienza dai suoi organizzatori. Da settimane ormai illustri personalità istituzionali, premier compreso, stanno dottamente discettando sulle virtù e sui pericoli della Piazza con l´effetto di dilatare l´audience e di conseguenza anche l´interesse e le intenzioni di partecipazione. Ma proprio il successo, a volte, può dare un po´ alla testa. Soprattutto quando la testa è quella di personaggi capaci di grandi passioni e di vibranti indignazioni, ma non sempre permeabili alle argomentazioni altrui. Il movimento dei girotondi, all´inizio, è cresciuto spontaneamente, ma ora le tante sigle via via germinate stanno arrivando al dunque e oggi il "Comitato dei 9 saggi" dovrà sciogliere gli ultimi dubbi: tra i capi girotondini chi parlerà dal palco di piazza del Popolo? Con quale ordine? E i partiti? Potranno almeno portare le bandiere? Nel comitato dei 9 saggi sono rappresentati i movimenti e le realtà più importanti e dunque c´è Paolo Flores d´Arcais, direttore di Micromega; c´è Nanni Moretti che rappresenta sé stesso ma soprattutto chi la pensa come lui; c´è Paolo Sylos Labini, in rappresentanza di "Opposizione civile" (Elio Veltri, Enzo Marzo); c´è Pancho Pardi, leader dei Professori di Firenze; c´è Federico Orlando di "Articolo 21"; Emilia Cestelli delle "Girandole"; Daria Colombo dei "Girotondi" di Milano; Silvia Bonucci e Marina Astrologo dei "Girotondi di Roma". Come è ovvio con tanti movimenti riuniti attorno allo stesso tavolo cominciano a spuntare idee diverse, ma a sentire Nando Dalla Chiesa, che guida i 40 parlamentari di "La legge è uguale per tutti" - il problema non è soltanto la diversità di approcci: "E´ l´atteggiamento di alcuni primi della classe dentro i movimenti che mi preoccupa. C´è chi rilascia interviste, spiegando già che la manifestazione sarà così o colà. C´è il rischio di una sorta di "cencellismo" sul diritto al microfono". Una delle "mamme" del Movimento, la giornalista milanese Daria Colombo (che è anche moglie di Roberto Vecchioni), minimizza: "Nessun dissapore tra noi e chi sostiene che ci siano, vedrà che non è vero. Al massimo può esserci stato qualche malinteso".



Santoro: "Mi censurano, è un atto da fascisti"
Antonello Caporale su
la Repubblica

Michele Santoro, ma quanto guadagni?
"Perché lo chiedi a me e solo a me?"
Perché hai detto che lavori gratis pur di andare in onda.
"Questo è il mio sacrificio per pagarmi la libertà di espressione. Non è poco, ma è quello che posso fare".
Io chiedevo per curiosità.
"Se lo chiedi a Ferrara, Lerner o Vespa. Se lo chiedi anche al tuo direttore, io sono pronto a dare le mie cifre. Così si capirà finalmente a che livello sono".
Non ti incavolare perché io non c'entro.
"Noto una punta di supponenza che non mi piace. L'atto che stiamo subendo è squisitamente di matrice fascista. Il mio programma credo porti alla Rai qualcosa come 200 milioni a puntata, se ne disfano, perché?".
In Bulgaria fece capire qualcosa.
"Appunto, Berlusconi non vuole che andiamo in onda perché sa che il mio programma è come un giornale, è un appuntamento fisso e imprescindibile per centinaia di migliaia di cittadini. La tv è un prolungamento della mente di chi sta a casa".
E' un po' come un partito. Tu vai alle feste dell'Unità, la gente canta Bella Ciao.
"Grazie a Bella ciao io mi sono salvato il culo per qualche tempo. Era un editoriale a difesa della mia libertà. L'audience subì un picco altissimo in quei minuti".

Secondo me gli stai proprio sullo stomaco a Berlusconi, perché l'ha detto da Sofia, infischiandosene che è la capitale della Bulgaria e che non faceva una bella figura a emanare un diktat bulgaro.
"Berlusconi conosce la televisione e sa che di questi tempi, in una stagione di grandi conflitti sociali insieme al moto ondoso creato dalle leggi sulla giustizia, un programma come il mio...".
L'avrebbe potuto comunicare privatamente a Baldassarre. Invece il presidente della Rai giura che non l'ha mai sentito.
"Baldassarre tende a dare una versione non puntuale della realtà. Dice che avrei violato leggi, regolamenti e questo non mi risulta".
Saccà?
"Mah, Saccà"
Bugiardo?
"Dice che Sciuscià è finito come format televisivo. Come fa a dirlo è un mistero. Credo che abbia bisogno di un bravo consulente all'immagine".
Ha ingaggiato un giovane promettente, Klaus Davi.
"L'immagine alta, non questa".
Oltre al girotondo resta come estrema possibilità un blocco stradale.
"Ma se domani chiudono un giornale, non perché perde copie ma perché non piace a qualcuno, sarebbe giusto e prudente stare zitti? Qui si mette in discussione il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Chiedo: è un diritto che merita di essere difeso?".
Un girotondo intorno a Santoro dunque?
"Si scende in piazza, Santoro fa quello che pensa giusto e in tv dice quello che crede senza badare al ricavo e senza dover accontentare un padrone. La sinistra, ripeto, a me non ha dato mai niente, semmai ha tolto".
La sinistra non ti è amica, ma perché allora Berlusconi va sempre da Vespa?
"E perché?".
Rutelli chi l'ha fatto parlare?
"Avrei fatto ponti d'oro, salti di gioia se Berlusconi fosse venuto da me nell'ultima giornata di campagna elettorale".
Non ci viene e non ti vuole vedere.
"Questo l'ho capito".


C'era una volta il diritto di sciopero
Vittorio Longhi su
il Manifesto

Meno diritto di sciopero, meno potere ai sindacati, più libertà alle imprese di imporre le proprie condizioni ed eliminare chi si oppone. Il nuovo codice del lavoro della Federazione russa, approvato dalla Duma lo scorso dicembre e in vigore da febbraio, con l'ovvio sostegno della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, mira a rendere sempre più marginale il ruolo deisindacati, soprattutto i più piccoli, in nome di un improrogabile bisogno di flessibilità. E' forte, perciò, l'opposizione delle organizzazioni del lavoro, sia nazionali sia internazionali, che denunciano la chiara volontà del governo e delle imprese di indebolire i sindacati. A luglio, il direttore generale dell'Organizzazione mondiale del lavoro, Juan Somavia, ha incontrato il ministro del lavoro Aleksandr Pochinok proprio per discutere della riforma del lavoro, insieme ad altre questioni economiche e sociali, come la necessità di contrastare lo sfruttamento minorile e di valutare l'impatto sociale che avrebbe l'eventuale ingresso del paese nel Wto. "La Federazione russa è arrivata a un momento di svolta del proprio sviluppo - ha detto Somavia - ma si deve ancora lavorare molto per migliorare il codice, ci sono circa 32 nuove misure che alcuni ministeri e le parti sociali dovrebbero rivedere insieme". All'agenzia Onu si erano rivolte, infatti, le maggiori organizzazioni sindacali russe affinché l'Oil intervenisse per modificare la nuova legge. "L'adozione del codice - secondo il segretario generale della confederazione Vkt, Alexader Bugaev - ha spostato l'equilibrio delle forze a favore delle imprese. In passato il datore di lavoro, anche se in posizione dominante, era obbligato a cercare l'accordo con isindacati. Oggi, invece, l'impresa può limitarsi a "prendere atto" dell'opinione del sindacato, agendo poi come vuole nei rapporti con i dipendenti". Infatti, le due parti ora sono tenute a stipulare i contratti collettivi entro un periodo massimo di tre mesi e ogni richiesta dei rappresentanti dei lavoratori che viene rigettata dall'impresa è semplicemente registrata a parte, in un "protocollo di disaccordo", obbligando il sindacato ad accettare passivamente quanto offerto.
Il nuovo sistema tende a penalizzare in modo particolare le sigle minori. Il codice lascia il diritto di negoziare e stipulare accordi collettivi solo alle organizzazioni principali, cioè a quelle categorie che appartengono a strutture nazionali. I sindacati locali autonomi e indipendenti, perciò, non possono partecipare ad alcun negoziato, anche se in un'azienda o in un determinato distretto industriale sono assenti i rappresentati delle confederazioni. Le tutele diminuiscono anche per i sindacalisti. I lavoratori impegnati nella difesa dei diritti trovavano, in passato, protezione dalle minacce di ritorsioni e di licenziamenti, mentre ora quel privilegio spetta solo ai rappresentanti di alto livello e solo ai membri delle grandi confederazioni.

Senza dubbio, però, la legge che più colpisce i diritti acquisiti dai lavoratori russi da almeno ottant'anni è quella che regola gli scioperi. Incrociare le braccia per difendere quei diritti non è più possibile per diverse categorie del settore pubblico: nelle ferrovie, nel trasporto aereo, nelle centrali d'energia nucleare, nell'esercito e nelle varie agenzie governative. In base a un ampio e appositamente non ben definito criterio di "assicurazione dei servizi minimi indispensabili" si vuole privare della più efficace forma di protesta la stragrande maggioranza dei dipendenti dello stato. Nel privato, scioperare è ancora possibile, ma comunque molto difficile. L'azione è considerata legale solo se approvata dai due terzi dei lavoratori di un'impresa, a prescindere dai sindacati che lo promuovono e dal numero degli iscritti che partecipano. È chiara l'impossibilità di invocare uno sciopero per le categorie minori, soprattutto all'interno delle aziende più grandi - la maggioranza in Russia. L'unico caso che riconosce questo diritto automaticamente è quello in cui l'azienda ritardi di oltre 15 giorni il pagamento dello stipendio, lasciando però piena libertà di sostituzione degli scioperanti, pur non licenziandoli. Nel difficile momento di trasformazione sociale ed economica che la Russia sta ancora attraversando, il governo pare non avere altre strade da seguire se non quella dichiaratamente neoliberista, unico percorso possibile secondo Banca mondiale e Fmi per le economie in crisi, che per l'ex Unione sovietica significa chiudere la stagione delle tutele del lavoro e riaprire quella della speculazione e dello sfruttamento.


Le tigri asiatiche sbranano gli analisti
Philippe Pons su
La Stampa

Quando, tra l'estate e l'autunno 1997, il tornado finanziario asiatico nato in Thailandia si allargò all'Indonesia e alla Malesia, e poi alla Corea del Sud, l'Asia "grintosa", quella per cui s'era parlato in maniera un po' troppo frettolosa di "miracolo", parve d'un tratto una causa persa.
Gli economisti e gli analisti finanziari che l'avevano innalzata al rango di modello ne scoprirono bruscamente i difetti: un indebitamento strabiliante, mancanza di trasparenza, sopravvalutazione degli assets, capitalismo "clientelare"... Le economie emergenti, campioni della crescita, sembrarono messe al tappeto per un lungo periodo.
Cinque anni dopo, sono di nuovo in espansione, c'informa la Banca asiatica di sviluppo (BAS): l'Asia orientale (Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia, più la Corea del Sud e la Cina) dovrebbe far registrare quest'anno una crescita media del 5,8 %. Certo, non si tratterà più di una crescita esponenziale (e gli effetti del rallentamento americano oscurano l'orizzonte), ma il vigore della domanda interna contribuisce a una crescita più equilibrata, e quindi meno vulnerabile alle fluttuazioni delle esportazioni.
Salvo shock esterni, secondo le stime della BAS nel 2003 la crescita regionale dovrebbe raggiungere il 6,2 %. Malgrado le incertezze dovute al ruolo importante delle esportazioni nella loro crescita, il risanamento delle economie asiatiche - sullo sfondo delle malversazioni che stanno sconvolgendo il modello di capitalismo rappresentato dagli Stati Uniti (vicende Enron, WorldCom, Merrill Lynch, Xerox...) - stimola a interrogarsi sulle "certezze" veicolate dal discorso liberale oltranzista che domina l'analisi economica, e che non ha risparmiato le sue lezioni a questa parte del mondo. Oggi, il "verme nella mela" si trova non nelle opache propaggini di un capitalismo detto "asiatico", ma nel centro stesso del sistema: a Wall Street.
Siamo di fronte a un incidente di percorso, oppure a una crisi rivelatrice dei traviamenti cui conduce la supremazia di mercati finanziari che hanno fatto del rialzo dei corsi una creazione di valore?
Comunque sia, la crisi di fiducia apertasi negli Stati Uniti - che si trovano oggi nella stessa condizione in cui versavano i paesi asiatici cinque anni fa, quando si trattava di "rimetterli al loro posto" - intacca seriamente la credibilità dei "visionari" del mercato: e non soltanto in materia di gestione dei portafogli, ma anche in termini di analisi economiche.
Da cinque anni a questa parte, le crisi dell'Asia orientale hanno infatti dato luogo a un florilegio di giudizi tanto allarmisti quanto scollegati dalle realtà economiche di questi paesi. Non c'è dubbio che nella genesi delle crisi asiatiche abbiano giocato cause specifiche di determinate modalità di sviluppo.
Le loro manchevolezze erano note, ma fino alla metà degli anni Novanta chi le denunciava era considerato uno sciagurato guastafeste dai finanzieri internazionali (i quali, occorre ricordarlo, all'epoca accettavano senza fare una piega le dittature e il "capitalismo clientelare").
Questi difetti furono d'altronde soltanto uno degli elementi delle crisi: secondo Kenneth Courtis, vicepresidente di Goldman Sachs Asia, il vero fattore scatenante fu il brutale apprezzamento del dollaro in rapporto allo yen deciso a metà degli anni Novanta da Tokyo e Washington, che in questo modo rovesciarono l'equilibrio dei cambi uscito dagli accordi del Plaza di dieci anni prima.
In una situazione in cui le valute asiatiche erano soggette all'egemonia del dollaro, sottolinea Courtis, il rialzo della divisa americana colpì in pieno paesi le cui basi finanziarie erano fragili, rendendo la crisi inevitabile.
In altri termini, non furono tanto i mali del "capitalismo asiatico" quanto la politica delle due potenze del Pacifico a provocare crisi che ben pochi finanzieri avevano saputo prevedere (a cominciare dagli esperti del Fondo Monetario Internazionale).
La crescita del commercio interregionale e della domanda interna, e l'introduzione di riforme drastiche del sistema bancario - che soprattutto nella Corea del Sud sono andate di pari passo con i progressi della democratizzazione - hanno permesso lo spettacolare risanamento delle economie asiatiche, favorito nel 1999-2000 da una congiuntura mondiale eccezionale.
Certo, molto lavoro di bonifica è ancora necessario per liberare l'orizzonte dal peso di una massa di debiti inesigibili, ma nell'insieme le economie asiatiche sono ripartite.
Il grande malato della regione rimane il Giappone, che comincia a uscire dai suoi guai, ma è vulnerabile all'instabilità dei mercati finanziari e al deprezzamento del dollaro. Anche nel suo caso, che cosa non si è scritto! Al principio dell'anno, "bomba finanziaria a scoppio ritardato", l'arcipelago si avviava a diventare una seconda Argentina...
Certo, il peggio non è mai escluso. Un crollo del mercato obbligazionario causato dall'espansione del deficit pubblico e da tassi d'interessi artificialmente bassi è uno scenario plausibile; e in giugno, in nome dell'ortodossia finanziaria, l'agenzia di valutazione Moody ha classificato i titoli del debito pubblico della seconda potenza economica mondiale allo stesso livello di quelli del Botswana...
In un periodo caratterizzato da un'elevata volatilità, l'indebitamento pubblico giapponese (pari al 130% del PIL), combinato con i crediti in sofferenza delle banche, costituisce un pericolo.
E se si verificasse un crollo in Giappone, i suoi effetti si farebbero sentire nell'intero pianeta. Rimane tuttavia vero che l'arcipelago dispone di 420 miliardi di dollari di riserve e di 1000 miliardi di dollari in investimenti all'estero.
Quanto al debito pubblico, esso è per il 95 % in mano ai suoi abitanti, i cui risparmi sono pari a 11.000 miliardi di dollari, ossia a un terzo del totale mondiale. In teoria, il rischio esiste.
In pratica, è modesto, anche se c'è il problema del peso su un sistema economico di un indebitamento prolungato nel tempo.
In contrasto con le speculazioni allarmistiche degli analisti finanziari, il settimanale americano Business Week scriveva recentemente: "Relax: Japan won't bring on financial Armageddon" ("Tranquilli: il Giappone non provocherà un'apocalisse finanziaria"). A chi credere? Giacché tra l'imminente tracollo finanziario fragorosamente annunciato al principio dell'anno e la situazione presente i problemi di fondo non sono cambiati...
Il Giappone ha avviato la trasformazione del suo capitalismo corporativo, inadatto alla globalizzazione. Si tratta di riforme reali e profonde, anche se possono talvolta apparire titubanti.



   3 settembre 2002