prima pagina pagina precedente salva il testo




Un carabiniere fedele allo Stato
Ma diffidente verso i potenti
Giorgio Bocca su
la Repubblica

Venti anni dopo il ricordo del generale Dalla Chiesa è di un grande servitore dello Stato che ha pagato con la vita la lotta alla mafia da altri vissuta come complicità e omertà, che non è una piccola differenza. La sua fama era di un uomo potente e segreto che aveva alle spalle tutte le risorse dello Stato. La gente immagina che uomini come lui dispongano della forza dello Stato, delle sue impunità, di un forte e unanime appoggio. E invece sono quasi sempre uomini di minoranza che hanno come principale nemico, come sordo nemico proprio l'apparato burocratico dello Stato. Fra gli uomini politici, di governo, fra gli stessi carabinieri Dalla Chiesa era più temuto che amato.
Del generale invidiavano i successi, ne temevano le ambizioni quasi che in pectore nutrisse disegni gaullisti. La fedeltà allo Stato conviveva dunque in lui con la diffidenza verso i potenti dello Stato dalle cui insidie si difendeva chiedendo e ottenendo autonomia: i lunghi anni trascorsi in Sicilia per combattere la mafia gli avevano insegnato che il modo migliore di farlo era di combatterla con pochi e fidati uomini, con mezzi e metodi al di fuori della polizia ordinaria. Anche per combattere il terrorismo aveva messo assieme come un capitano di ventura una sua compagnia con una cinquantina di uomini poliziotti, carabinieri, guardie di finanza, una compagnia di esperti interarma, scelti da lui convinto che in questo Paese se si vuol fare qualcosa di serio bisogna affidarsi ai pochi, evitare la pigrizia e l'inefficienza delle grandi macchine statali.
Una cinquantina di persone che non sarebbero mai venute alla ribalta, che dovevano condividere le fortune ma anche le avversità a quella autonomia. Al generale piaceva la retorica risorgimentale che gli veniva dalla tradizione familiare piemontese, aristocratica, militaresca. Lo ascoltavo con un po' di sconcerto quando ripeteva che lui gli alamari li portava impressi sulla carne, ma toltasi questa retorica soddisfazione pensava da uomo esperto e intelligente.
Aveva capito che la lotta al terrorismo non era una qualsiasi operazione di polizia, che dietro a quei terroristi fuori tempo dalle idee confuse c'era però un fenomeno politico di retroguardia che coinvolgeva centinaia di migliaia di persone in parte erede di una cultura e di aspettative rivoluzionarie. Da combattere non solo con i mitra ma con la testa in una guerra psicologica in gran parte ignota allo Stato e dentro una democrazia garantista poco adatta alle soluzioni sbrigative.
Partendo dall'esperienza con la mafia, anomala ma anche essa guerra diversa, il generale capì il terrorismo, inventò modi efficienti per combatterlo. Capì che il controllo delle prigioni, di cui ottenne la sorveglianza, era il mezzo principe per venire a contatto diretto con i terroristi, per coglierne le contraddizioni, per infiltrarli, per ascoltarne le conversazioni. E che attraverso le prigioni si poteva usare un altro mezzo di conoscenza e anche di dissuasione, il confronto con i parenti. Certo il generale non era un garantista, non arretrava di fronte a operazioni radicali, non esitava a mentire per la ragion poliziesca.
Una volta scrissi sul giornale che la sua versione dell'arresto di Curcio e Franceschini a un posto di blocco vicino a Pinerolo era incredibile e lui passandomi vicino in casa di amici a Milano mormorava: "Cosa dovevo fare secondo lei, un comunicato per dire che avevamo infiltrato nelle Br il prete spretato Girotto?"
Era un carabiniere con gli alamari impressi sulla pelle ma era anche un uomo di pronta e sottile intelligenza. Finito il suo servizio accettò di andare a Palermo come prefetto e subito le invidie e i processi alle intenzioni si scatenarono. Certo, se l'uomo che aveva vinto il terrorismo fosse riuscito a domare anche la mafia nessun traguardo gli sarebbe stato precluso, neppure la presidenza della Repubblica. Ma forse aveva accettato per ragioni meno ambiziose, forse per una crisi di astinenza comprensibile in uno che per otto anni era stato un protagonista, misterioso ma presente quasi ogni giorno sui media con titoli e fotografie.
Andò a Palermo e sulle prime la società mafiosa non capiva se facesse sul serio, pensò che presto si sarebbe ammansito. Così lo riverivano, lo invitavano, fingevano di non capire i suoi rifiuti, ma in lui aumentava la vis pugnandi, e anche la voglia di sfida personale come era stata quella del prefetto Mori, il prefetto di ferro.
Ha contato in tutto ciò il matrimonio con una donna giovane e bella? Certamente sì, l'uomo, il carabiniere era anche un romantico. Il giorno che mi chiamò a Palermo per l'ultima intervista volle portarmi a pranzo con sua moglie in un ristorante di lusso a Mondello. Voleva che i signori di Palermo vedessero che non aveva paura, voleva che stupissero per il suo coraggio e ci riuscì quando entrammo nelle terrazza che dava sul mare, ci fu ai tavoli come un ondeggiamento, come se facessero uno sforzo per non fuggire. E lui in quella tensione raddoppiava la sua allegra cortesia. Solo alla fine del pranzo sembrò colto da una pesante tristezza. “Quando riparte per Milano?”, chiese. “Stasera”, gli dissi. “Fortunato lei”, disse lui “e mi dia una mano”.


Il blocco di prezzi e tariffe tra contratti e caro-vita
Alfredo Recanatesi su
La Stampa

Quel frammento di riforma dell'art.18 usato dal governo per dividere il fronte sindacale rischia di costare molto in termini finanziari, di principi, di armonia istituzionale.
I termini finanziari sono quelli già compresi nel Patto per l'Italia, ossia i finanziamenti delle tutele previste da quello stesso patto come contropartita alla abolizione dell'obbligo del reintegro per i licenziamenti senza giusta causa effettuati nei pochi casi previsti dall'accordo.
Ora a quei costi si aggiungono quelli in termini di principi e in termini di armonia istituzionale. I primi consistono nel sacrificio del liberismo che l'attuale governo, anzi l'intera coalizione, aveva posto come cardine della sua politica economica. Il blocco, o la sospensione, di un adeguamento di tariffe già esaminato e ritenuto congruo dalle preposte dell'Autority è un atto dirigistico che contraddice ogni logica liberista, comunque, in ogni caso e a maggior ragione se in assenza di una motivazione tecnica.
Non c'è, infatti, motivazione nell'inflazione - il governo ha ripetutamente escluso che costituisca un problema - e non c'è neppure nella normativa che presiede all'attività delle Autority nell'esame e nell'approvazione dei motivi di adeguamento delle tariffe dal momento che nessuno mai ha sollevato questioni in questo senso e che, quand'anche ve ne fossero di fondate, in nessun caso giustificherebbero un decreto legge (che la Costituzione ammette solo per acclarati motivi di urgenza).

In un governo nel quale, tra l'altro, abbondano gli economisti queste valutazioni e obiezioni non possono certo sfuggire, tanto più quando quegli economisti erano puntualmente tra i primi a bollare, e giustamente, di miope statalismo gli interventi dirigistici su prezzi e tariffe quando a queste pratiche, in anni ormai molto lontani, si faceva frequente ricorso.
Ma, ad evidenza, su tutto ha fatto premio la ragion politica, vale a dire l'esigenza ritenuta prioritaria di dare un segnale forte di sostegno alle posizioni di Cisl ed Uil, firmatarie del Patto per l'Italia, dopo il forte rumore mediatico fatto sull'inflazione, sulla conseguente perdita di potere d'acquisto di salari e stipendi, sulla rivendicazione di un recupero nelle prossime e imminenti tornate contrattuali, e prima di un autunno che si prospetta lacerato da scontri politici e da tensioni sociali.
Le analisi e le polemiche sull'inflazione, sui panieri, sugli arrotondamenti e sui furbi che hanno approfittato del passaggio dalla lira all'euro possiamo anche farle per il puro gusto di approfondire la realtà nella quale tutti noi viviamo, ma non contano niente.
Conta la politica di un governo che si è posto l'obiettivo di dividere il fronte sindacale e che per perseguirlo si trova a dover affrontare costi molto più alti di quelli che probabilmente aveva messo in conto.
Così è stato per la riforma dell'art. 18, minima ma costata lacerazioni e scioperi, e così è per questo blocco, costato la reputazione liberale che l'Italia si andava costruendo, per riguardare a detta degli esperti la sola energia elettrica. Il bilancio di queste iniziative chiunque è in grado di farlo da sé.


Sinistra in piazza per andare dove?
Paolo Franchi sul
Corriere della Sera

Può sembrare un'ovvietà, ma ci sono tempi in cui le ovvietà hanno bisogno di conferme: manifestare in piazza le proprie convinzioni, come ha voluto ricordare il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, è un diritto sacrosanto. E di questo diritto (è ancora Casini a segnalarlo) il centrodestra, quando era all'opposizione, si è avvalso, portando a Roma un milione di persone. Fu, quella, una grande e combattiva manifestazione democratica, che, scrivemmo allora, il centrosinistra avrebbe fatto male a non tenere nel dovuto conto. Anche la manifestazione nazionale del 14 settembre sarà, ne siamo certi, grande, combattiva e democratica; e anche il governo attuale farà bene a rifletterci su. Ma il ragionamento non può esaurirsi qui. Perché quello del 14 settembre è solo il primo degli appuntamenti di un autunno che già si annuncia politicamente e socialmente surriscaldato. E prima ancora perché, da quando piazza è piazza, il problema dei gruppi dirigenti politici è di stabilire quale ruolo attribuirle, come governarla, verso quali obiettivi cercare di indirizzarla. Sempre che, naturalmente, non si preferisca cullarsi nell'indignazione in servizio permanente effettivo, nel culto dei movimenti, nella retorica di una società civile pervasa da ottimi sentimenti in ogni circostanza tranne, chissà perché, quando si tratta di votare.
Sugli obiettivi del movimento, sui suoi sbocchi politici, però, la nebbia è ancora fitta. Tutti, o quasi, assicurano di non coltivare alcuna velleità di sfrattare il centrodestra mediante spallata: nessun combinato disposto, per cercare di togliere di mezzo Silvio Berlusconi, tra le proteste per la politica giudiziaria del governo, le lotte sociali (a cominciare dallo sciopero generale della Cgil), i movimenti.
Tutti, o quasi, assicurano di avere in animo un lavoro di lunga lena, che consenta al centrosinistra non solo di rimotivare il proprio elettorato, e di convincere chi si è astenuto a ritornare, quando sarà il momento, alle urne, ma anche di guadagnare alle proprie ragioni anche una parte degli italiani che hanno votato per il centrodestra.
Non c'è motivo per non credere a tante assicurazioni. Il fatto è, però, che non manca solo un progetto di lungo periodo: nessuno si perita, per cominciare, di indicare quali risultati concreti le opposizioni politiche e sociali potrebbero non solo invocare, ma anche provarsi a strappare qui e ora. Perché siamo in un sistema maggioritario, e queste sarebbero pratiche consociative da Prima Repubblica? Ma via. Se così fosse, nessuno saprebbe indicare di cosa mai dovrebbe occuparsi un'opposizione tra un'elezione e l'altra, oltre che di dipingere il governo in carica come il peggiore dei governi possibili. Più realistico, invece, è pensare che una simile difficoltà (usiamo pure questo cortese eufemismo) derivi soprattutto da due altri fattori.
Il primo è, sotto il profilo democratico, anche in vista del prossimo autunno, il più pericoloso: gran parte degli stati maggiori e del popolo del centrosinistra, così come, del resto, gran parte degli stati maggiori e del popolo del centrodestra, continua a non essere affatto persuasa della legittimità democratica dell'avversario, e a considerarlo, anzi, Nemico Assoluto.
Il secondo motivo lo ha indicato assai bene, sull' Unità , Emanuele Macaluso: "Prima che con Berlusconi, la sinistra e il centrosinistra debbono fare i conti su tutti i piani, senza illudersi che quello giudiziario sia risolutivo, con una mutazione sociale che né la sinistra né il "centro democratico" hanno influenzato", e dal quale la destra ("una realtà corposa") ha viceversa tratto alimento. E a qualcosa di simile, ci pare, si riferisce anche Massimo D'Alema quando sostiene che, per vincere, non basta "l'opposizione a qualcuno, fosse pure una destra illiberale e aggressiva". Se le cose stanno così, è davvero difficile pensare di venirne a capo anche con il più affollato dei girotondi.


“Il girotondo è la nostra unica televisione”
Marco Galluzzo sul
Corriere della Sera

"Il girotondo è la nostra unica televisione. E il nostro programma minimo è farci sentire. Quella della spallata, dell'assedio al Parlamento, è solo uno dei tanti vaniloqui del centrodestra. Se Cofferati dice che una spallata al governo è una cosa irrealistica dice una cosa importante, ma anche scontata". Francesco Pardi detto Pancho, professore universitario e girotondista doc, la mette così: nessuno ha mai pensato di scardinare il governo. La società civile che scende in piazza, organizza girotondi e trasforma in leader politico Nanni Moretti, "non si è mai fatta illusioni". Conferma, con etica minimalista, il decano dei girotondisti, l'economista Paolo Sylos Labini : "Il 14 settembre io sarò in piazza per potermi fare la barba la mattina guardandomi in faccia, per una sorta di imperativo kantiano, per non provare vergogna di essere italiano, ma senza nessun secondo fine".
Affermare che nessuno, nel centrosinistra, abbia mai vagheggiato di una spallata al governo (a forza di piazza, o di scioperi, o di qualcos'altro) significa probabilmente affermare il falso. Ma ora che anche uno dei leader morali del movimento, Sergio Cofferati, giudica "irrealistica" l'ipotesi, c'è uno spunto in più per ragionare sugli obiettivi delle proteste di piazza. La prossima, il 14 settembre, aspira a superare i record dei precedenti girotondi e a raccogliere a Roma, in Piazza del Popolo, fino a 100 mila persone. Un'ulteriore occasione per analizzare il rapporto fra movimento e partiti dell'Ulivo. Occasione che qualcuno nel centrodestra teme, e che altri, come il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini , giudicano con serenità: "Se le manifestazioni sono pacifiche, nessuno deve averne paura. Una democrazia intollerante ha già perso la sfida".
Ma nella piazza cova anche "il tic del totalitarismo", almeno secondo l'approccio del presidente del Senato, Marcello Pera. E certamente, riflette Emanuele Macaluso , anima critica dei Ds, cova "la tentazione demenziale di fare opposizione su tutto": "L'affermazione di Cofferati è importante proprio per questo, perché prende la distanze da una forma di infantilismo politico che ritiene scioperi e manifestazioni strumenti idonei a scardinare una maggioranza". Ed è infantilismo politico anche "la manifestazione senza progetto, quella che dice solo no, che serve solo a fare bollire la stessa pentola".
Dal retropensiero di una spallata, al deficit di propositività: il girotondo come forme alternativa di opposizione - afferma Pardi - "non si è mai accollato l'onere della proposta". "Siamo troppo giovani - riflette Pardi - finora abbiamo fatto attività politica in modo trasversale, coinvolgendo l'intellettuale e il manovale, ricchi e poveri, ma nulla di più. D'Alema dice che non basta l'antiberlusconismo. E' una regola che vale per tutti, ma innanzitutto per i partiti: vorrei capire quali proposte ha formulato lui negli ultimi anni. Affiancarci al socialismo europeo mi sembra un'idea non nuova e soprattutto molto fumosa". Una fase due dei movimenti, proposte di leggi popolari col marchio dei girotondi? "Ci stiamo pensando, credo che a breve abbracceremo anche questa fase".
Per Sylos Labini invece "la piazza basta e avanza, e se non basta chi se ne frega, l'importante è riuscire a illuminare l'opinione pubblica".



Santoro: "Sono pronto a lavorare anche gratis"
Fabio Martini su
La Stampa

La regia è sapiente, berlusconiana. Fabio Fazio sale sul palco e annuncia alla platea eccitatissima: "Vi presento un uomo, un mito, un eroe: Michele Santoro!". Dalle quinte si materializza il tribuno di "Sciuscià" e la gente della Festa dell'Unità lo accoglie con un battimani formidabile, roba da far impallidire la rispettosa ovazione regalata due sere fa a Sergio Cofferati. E Santoro, che è uomo di spettacolo, capisce subito come sintonizzarsi con quella folla: sfila sul palco, si inchina e si mette la mano sul cuore. La gente della Festa è in visibilio e a qualcuno viene in mente di mettersi a cantare "Bella ciao". E nel giro di pochi secondi centinaia di persone cantano l'"inno" della Resistenza che proprio Santoro aveva canticchiato in una delle sue ultime trasmissioni. Pathos, tanti occhi lucidi, battimani e la prima notizia della serata: il cuore dei militanti batte per Santoro, è lui il re di Modena. Da anni l'applausometro della Festa nazionale dell'Unità è sensore affidabile per capire gli umori che circolano a sinistra: ebbene Santoro la "vittima", a quanto pare, emoziona persino più di Cofferati, il sindacalista che sa dire no, ma che cerca sempre di appellarsi alla ragione, ai fatti, ai numeri. E Santoro contraccambia, regalando alla Festa dell'Unità un tric e trac di battute: "Costiamo troppo? Raidue non ci vuole? Su Riatre sono pronto a lavorare senza stipendio. E sarebbe un bel risparmio, visto che il mio compenso non è basso!". Berlusconi? "La nostra lotta è come quella di David contro Golia e si sa come è finito Golia...". Una pausa: "Naturalmente intendo il sistema, non Berlusconi, al quale auguro lunghissima vita". Ma al quale riserva una battuta fortissima: "La mafia, Tangentopoli e Berlusconi sono tre poteri costuiti in modo illegale". Persino Craxi è riesumato: "Neppure quando l'Avanti scrisse che eravamo i nipotini di Goebbels, Bettino Craxi da Presidente del Consiglio tentò di chiudere la nostra trasmissione". E nel comizio di Santoro c'è anche un attacco durissimo ai capi del centro-sinistra: "La leadership dell'Ulivo vada dal Capo dello Stato e gli dica: se tu Ciampi non ci metti una pezza a questo monopolio televisivo di Berlusconi, noi chiameremo la nostra gente a ribellarsi! E se non ci credete voi, D'Alema, Fassino, Rutelli, Veltroni, io dico: avanti Cofferati!". Ovazioni. Santoro non si ferma più: "Facendo ste' corna, come Berlusconi, non ho mai avuto alcun tipo di condanna". Il futuro? "Se la Rai ci licenzierà, accenderemo le telecamere per strada, con il satellite tutto diventa possibile, anche se il problema sarebbe la pubblicità...". E poi l'accusa più argomentata: "C'è una generale tendenza a tenere la Rai sotto quota, ad eliminare le grandi produzioni seriali, perché il ribasso dei costi è funzionale alle tv di Berlusconi: se Mediaset fa meno profitti, se Mediaset non fa 500 miliardi di vecchie lire di utili, perde valore in Borsa e si vende meno facilmente".



Crisi Powell-Bush
"No alla guerra. Resto solo per disciplina"
Bruno Marolo su
l'Unità

Colin Powell ne ha abbastanza. Cerca una via di uscita da un governo dove ormai si sente a disagio. Secondo il settimanale Time, che cita fonti molto vicine a lui, ha deciso di andarsene alla fine del mandato di George Bush nel 2004, anche se il presidente dovesse essere rieletto. Colin Powell è stato preso in contropiede dall'ultima sortita del vicepresidente Dick Cheney, secondo il quale il ritorno degli ispettori dell'Onu in Irak "non servirebbe assolutamente a nulla" e l'obiettivo degli Stati Uniti è rovesciare il regime di Saddam Hussein. Ancora una volta si è alzato un coro di proteste in tutto il mondo e il segretario di stato ha dovuto correre ai ripari.
In una intervista alla Bbc Powell ha assicurato che gli americani, come tutti gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu, gli Usa vogliono il ritorno degli ispettori, almeno "come primo passo". L'ultima frase toglie ogni valore al resto del discorso, ma Powell non poteva prendere una posizione diversa. Nel frattempo infatti è trapelato che il discorso di Cheney era stato approvato in anticipo da George Bush, anche se nessun altro membro del governo era stato informato. Il presidente ha perfino aggiunto al testo alcune frasi di suo pugno. Non è stato lui a dettare a Cheney il giudizio sprezzante sugli ispettori, ma non c'è dubbio che Bush ha il cuore a destra, e i suoi collaboratori moderati devono sopportare continue umiliazioni.
Secondo Time, Colin Powell ha confidato agli amici più cari di avere preso alcune decisioni. Primo: rimarrà segretario di stato fino alla fine del mandato qualunque cosa succeda, anche se Bush dovesse invadere l'Irak contro il suo parere. Secondo: non accetterà alcun incarico di governo dopo le elezioni presidenziali del 2004. Soltanto la prospettiva di un grande quanto improbabile successo, come un accordo di pace definitivo tra israeliani e palestinesi, potrebbe indurlo a collaborare per qualche mese in più con l'amministrazione Bush. Terzo: non si presenterà mai candidato per la Casa Bianca, neppure se nel 2008 il partito repubblicano si rivolgesse a lui per un cambiamento di rotta.

Il discorso di Cheney è sembrato inopportuno ad alcuni consiglieri della Casa Bianca. Gli Stati Uniti non saranno pronti per la guerra per diversi mesi ancora, e sembra inutile abbandonarsi alla retorica prima del tempo. Poco alla volta però emergono i retroscena. I settimanali Time e Newsweek presentano ricostruzioni diverse ma concordano su un punto: l'idea non è stata del solo Cheney. Egli e il presidente Bush credevano arrivato il momento di "una gigantesca spinta" contro la corrente contraria alla guerra, che stava prendendo il sopravvento. Bush ha indicato i temi che gli stavano a cuore. Pare che Cheney, leggendo il discorso, sia andato addirittura oltre. La sostanza però è chiara. Per Bush l'eventuale ritorno degli ispettori sarebbe soltanto "un primo passo". Il suo obiettivo è l'eliminazione di Saddam. Non sempre, tuttavia, volere è potere.


"Non tradirci sull'ambiente"
Appello di Prodi a Putin
Marco Marozzi su
la Repubblica

"Un appello, un appello alla Russia con tutta la forza perché firmi il Protocollo di Kyoto. E un grazie. Sarebbe un ulteriore, immenso passo per l'avvicinamento fra quel Paese e l'Europa unita. L'adesione della Russia è indispensabile per far partire l'accordo e sarebbe un segnale importantissimo sia per le nazioni che hanno firmato e firmeranno sia per quelle che ritengono di non farlo".
Romano Prodi parte alle sette di sera da Bruxelles con il telefono che squilla fino all'ultimo istante prima dell'imbarco, con documenti che ha ricevuto, raccolto, consultato per tutto il giorno e la sera di sabato, appena tornato da Copenaghen. Con una speranza: "Che la Russia sia davvero con noi, con l'Europa. Europa lei e noi. L'ho detto da tempo che certe sfide bisogna affrontarle per il senso che hanno, per ciò che rappresentano per noi e per le persone che siamo chiamati a rappresentare. Anche se c'è il rischio che non si raggiunga il successo. Almeno subito... L'adesione di Mosca sarebbe un messaggio per il futuro: morale, politico, ma anche di decisiva importanza materiale. Per la Russia e per il mondo".

"E' un discorso drammatico, - dice - che dovrebbe far pensare gli Usa. Per partire, Kyoto deve avere la firma di almeno 55 Paesi che emettano almeno il 55% del totale dei gas nocivi. Senza la Russia non si raggiunge quel 55%. Ma a monte ci sono gli Usa: poiché gli Usa non aderiscono, la Russia non può 'vendere' loro la sua 'quota non usata' di inquinamento, come prevedono gli accordi in un bilanciamento globale dei gas".
Ancora dollari e inquinamento? "La Russia firmando - dice Prodi - non solo darà un grande contributo al progresso del mondo e di sé stessa, ma credo che avrà anche un ritorno economico". A Johannesburg, ambientalisti accusano la Ue di essere timida. Il presidente non ci sta. "Andrò ad affermare che l'Unione ha avuto, ha, avrà un ruolo di guida, di leadership nella politica per uno sviluppo sostenibile. Questo è il nostro obiettivo. Doha, Monterrey, Kyoto... con tutti i limiti, hanno mostrato che l'innovazione passa attraverso di noi. E guardate cosa stiamo cercando di ottenere a Johannesburg su acqua ed energia. Piuttosto la speranza è che anche gli Usa cambino rotta e nostro compito è di far di tutto, da amici, perché lo comprendano".


Frattini inciampa nel caso Bloomberg
Stefano Passigli su
l'Unità

Smentendo le interessate e deformate versioni che delle norme americane in materia di conflitto di interessi ha sempre dato il centrodestra, le decisioni del Conflict of Interests Board di New York sul caso del sindaco Bloomberg confermano appieno la validità delle critiche e delle soluzioni avanzate dal centrosinistra per il macrospico conflitto di Silvio Berlusconi. Nel proporre il ricorso al cosiddetto "modello americano" l'Ulivo aveva ipotizzato la creazione di un'apposita Autorità incaricata di esaminare caso per caso in contraddittorio con i titolari di cariche di governo le situazioni di potenziale conflitto di interessi, e di determinarne la soluzione, ivi compreso - nei casi più estremi - l'obbligo di vendita. È esattamente quanto è avvenuto per Bloomberg: dopo una istruttoria in contraddittorio con gli avvocati del sindaco durata ben otto mesi, il Conflict of Interest Board ha assunto alcune importanti decisioni che è opportuno esaminare in dettaglio per confutare le fantasiose interpretazioni fattene dal centrodestra.
E per indicare quali emendamenti la Camera dovrà necessariamente apportare se si vuole ovviare alla palese incostituzionalità del testo licenziato dal Senato.
Poiché il centrodestra ha tentato di contrabbandare le decisioni del Board non come vincolanti ma come la semplice raccomandazione di un organo nominato dallo stesso Bloomberg, occore preliminarmente osservare che - contrariamente a quanto affermato da Giuliano Ferrare su 'Il Foglio' e dal ministro Frattini su 'Il Corriere della Sera' - il Board non è di mera nomina del sindaco; non siamo cioè in presenza di un caso di controllore-controllato, come avviene appunto nell'attuale proposta Frattini con il presidente dell'Autorità garante per la comunicazione. Il Board è infatti nominato per sei anni da sindaci che durano in carica quattro anni, con il risultato che solo casualmente un sindaco potrebbe venire esaminato da un Board da egli stesso nominato.
Si aggiunga che la nomina è sottoposta all'Advice and Consent, al beneplacito cioè del Consiglio comunale, procedura questa suggerita dall'Ulivo in Senato per l'elezione a maggioranza qualificata dei presidenti delle Autorità, ma espressamente rifiutata da Frattini. Le decisioni del Board possono dunque essere considerate veramente indipendenti, e in linea con la sua qualifica di "non-mayoral city agency", di Autorità cioè che gode effettivamente di quella autonomia che invece manca totalmente nella legge Frattini.
Ma veniamo alla sostanza del caso Bloomberg: la prima e forse più importante decisione assunta dalla Autorità di New York è che Bloomberg non può detenere, e dovrà quindi vendere, tutte le azioni di società che abbiano rapporti economici con la città di New York. Non sfugge che se applicata alla situazione di Berlusconi questo fondamentale principio implicherebbe che la Fininvest - interamente posseduta dal Cavaliere e dai suoi familiari - dovrebbe obbligatoriamente vendere il pacchetto di controllo di Mediaset che, in quanto concessionaria, ha ben più di un rapporto economico con lo Stato: ne dipende interamente per la sua stessa esistenza.
All'obbligo di vendita delle azioni che Bloomberg aveva affidato ad un Blind Trust, il Board di New York ha fatto seguire la prescrizione che i relativi proventi siano reinvestiti in fondi largamente diversificati, i cui amministratori non solo non possono essere contattati e ricevere istruzioni da Bloomberg, ma sono totalmente liberi di investire e disinvestire a loro piacimento le somme conferite. È appena il caso di ricordare che la totale indipendenza dei gestori del Trust, unitamente alla soppressione della scandalosa esenzione dalla tassa sui guadagni di capitale concessa a Berlusconi dalla proposta Frattini del 1998, furono le sole due richieste che come relatore di tale legge posi al centrodestra per consentirne l'approvazione anche al Senato, ricevendo un netto rifiuto. Riprova questa che Silvio Berlusconi non intendeva allora, e non intende oggi, rinunciare ad una reale presenza nella gestione del suo impero mediatico.



Libri scolastici, sconto al supermercato
Diodato Pirone su
Il Messaggero

Quest'anno sui libri scolastici si può risparmiare. Basta recarsi al supermercato. Presso un centinaio di centri commerciali italiani — una trentina dei quali disseminati nel Centro-Sud fra Roma e Napoli ma anche in città più piccole come Avellino, Ascoli, Civitavecchia, Fano, Frosinone, Lanciano, Pomezia, Terni, Viterbo — si possono acquistare testi nuovi con sconti fra il 10 e il 15 per cento. Dunque, una famiglia può spendere meno da un minimo di 25 (l'equivalente delle vecchie 50 mila lire) ad oltre 150 (300 mila lire) nel caso di rinnovo totale dei testi per due figli iscritti ad un Liceo.
L'iniziativa sta partendo in questi giorni in diverse grandi catene commerciali fra le quali spiccano i marchi Auchan, Coop e Ipercoop, Conad, Finiper, Gs-Carrefour e Sma-Rinascente (ma attenzione: solo alcuni centri vendita assicurano questo servizio).

Ma a ben vedere il libro di testo al supermercato rappresenta una forte innovazione per l'intero sistema commerciale. Spiega Aldo Soldi, presidente della Coop Toscana-Lazio: "Noi offriamo questa opportunità nell'ambito delle nostre iniziative per combattere il caro-scuola. Sui testi abbiamo margini ridottissimi di guadagno. Ci siamo rivolti a dei grossisti specializzati che raccolgono le ordinazioni". Traduzione: le catene commerciali usano i libri di testo per "fare traffico", come dicono gli addetti ai lavori. In pratica, attirano le famiglie con un'offerta allettante sapendo che poi venderanno altri prodotti sui quali possono guadagnare. Con questo meccanismo i francesi, ad esempio, già da anni pagano la benzina 5 centesimi (100 lire) meno che in Italia proprio perché viene offerta a prezzo scontatissimo dai loro supermercati.
Dunque, il vero regista del film "Sconto sui libri" è il grossista. Uno dei più importanti è l'ingegner Alessandro Gottardo, 44 anni, padovano, titolare della Clesp (www.Clesp.it) che l'anno scorso ha servito oltre 40 mila famiglie. "Certo, stiamo sconvolgendo il mercato del libro scolastico - spiega Gottardo - Ma non è vero che vogliamo affossare i librai. Anzi. Quest'anno abbiamo fatto un accordo con circa 200 fra librai e cartolerie che serviremo via computer proprio come facciamo per i supermercati. Abbasseremo i loro costi ed è possibile che a loro volta facciano sconti alle famiglie".
Ma gli sconti sui libri possono estendersi anche ad altri articoli del corredo scolastico? "La nostra scelta è di offrire articoli con prezzi molto diversi - spiega Sonia Augenti di Gs-Carrefour - Il nostro cliente resta libero di comprare lo zainetto firmato oppure quello meno caro". "Noi, invece, puntiamo su prezzi bassissimi - attacca Andrea Vai, amministratore delegato dei 300 punti vendita Lidl (gigante tedesco dei discount) - Offriamo i 36 pezzi delle matite colorate a 3,99 con uno sconto del 22,7% e i pennarelli a 1 con un taglio del 35% sull'anno scorso. E' andato tutto a ruba. Gli zainetti? Abbiamo deciso di non venderli. Uscivano dalle fabbriche troppo cari anche per noi".


Napoli, rivolta sulla nave dei "regolari"
Francesca Pilla su
il Manifesto

Un quarto d'ora, un'ora, due ore di attesa per il controllo dei documenti, poi la rabbia dei passeggeri della "Donatella D'Abundo", giunta venerdì mattina a Napoli da Tunisi, è scoppiata. Oltre 700 tra tunisini e algerini e un centinaio di italiani hanno viaggiato per più di 20 ore stipati come bestie, e alla fine si sono ribellati. Ma questa volta non si tratta di uno dei tanti viaggi "clandestini", ma di un regolare viaggio con una nave di linea della flotta Lauro. E gli immigrati diretti in Italia erano tutti in possesso di regolare permesso di soggiorno. Il fatto è che l'imbarcazione potrebbe trasportare al massimo 300 passeggeri, mentre ne ha caricati 500 in più. E il garage, che prevede una capienza massima di 60 auto, ne ha imbarcate 280. Tanto che il doganiere al porto napoletano, secondo alcune testimonianze, avrebbe detto scherzando ai "croceristi": "Consideratevi fortunati se siete arrivati sani e salvi". Ma i croceristi l'hanno presa sul serio e si sono informati. Pare, infatti, che la vecchia "Donatella D'Abundo" fosse usata in precedenza per raggiungere Capri o Ischia. Durata massima del viaggio: due ore. Adesso, fiutato il business dei viaggi degli immigrati, arriva fino in Africa, pur non avendo, secondo alcuni portuali, i fondali adatti, cioè della profondità necessaria ad affrontare un'ampia traversata in mare aperto senza rischi di essere rovesciata da una mareggiata. E sembra proprio che al porto napoletano tutti lo sappiano. Le forze dell'ordine però, invece di controllare l'armatore, sembrano curarsi solamente degli immigrati con regolare permesso di soggiorno. Per effettuare i normali controlli di frontiera l'altra mattina c'erano solo due funzionari, che hanno impiegato tre quarti d'ora per lasciare entrare in territorio italiano solo 10 persone; mentre famiglie, donne e bambini restavano in piedi sotto il sole attendendo il turno di una verifica minuziosa, ossessiva e oppressiva. Quando gli immigrati hanno compreso il trattamento riservato loro, hanno iniziato ad inveire contro le forze dell'ordine: "Veniamo qui a lavorare per voi e ci trattate come animali". Ma senza alcun risultato. Quindi hanno perso la pazienza ed è scoppiato un parapiglia. Urla, spintoni, ressa per riuscire a passare prima. Poi è successo il peggio: la porta di vetro dell'ufficio della dogana è stata frantumata dalla rabbia della folla. Due donne sono svenute per lo stress e il caldo e sono state soccorse dal 118. Anche gli italiani presenti hanno perso la pazienza, visto che non era nemmeno stata prevista l'entrata per i cittadini comunitari, costretti così a dover aspettare i controlli dei permessi di soggiorno.



   2 settembre 2002