prima pagina pagina precedente salva il testo



L'attacco all'America
Gli editoriali dei principali quotidiani


il crollo

il crollo della prima torre
L'occidente colpito al cuore
Ezio Mauro su la Repubblica del 12.09.2001

IN QUELLO spazio televisivo in cui accade ormai tutto, e nella contemporaneità universale della globalizzazione, si è compiuta ieri una tragedia che non credevamo possibile. L'America attaccata direttamente dal terrorismo, che è arrivato a colpirla nel cuore stesso della sua modernità - le due torri del World Trade Center a Manhattan - e nella fortezza invulnerabile del suo potere militare, il Pentagono. Migliaia e migliaia di morti, la Casa Bianca evacuata, il presidente Bush prelevato dall'Air Force One in un piano d'emergenza assoluto, e portato in un rifugio segreto, perché Washington è improvvisamente in pericolo, come New York, come tutta l'America, come 'Occidente.
Una tragedia politica inconcepibile, che in pochi minuti amplifica in misura spaventosa la folle potenza distruttiva dei kamikaze, porta per la prima volta un atto di guerra sul suolo americano, buca per sempre il progetto dello scudo spaziale dietro il quale doveva proteggersi il nuovo isolazionismo di George W. Bush. E' il primo atto di una storia che non conosciamo, perché contrappone un nemico invisibile dell'Occidente e una vulnerabilità improvvisa della superpotenza mondiale egemone. Sappiamo soltanto che la data di ieri cambia il corso della nostra epoca.

Il doppio simbolo americano, e universale, è stato scelto con cura. Il potere (economico, commerciale, finanziario) a New York, la potenza (militare, di difesa e di offesa) a Washington. Quei simboli oggi sono decapitati, il fumo del Pentagono si è visto in tutto il mondo, le Torri sono addirittura crollate su se stesse, con tutta Manhattan che fuggiva verso il nord, e la modernità rovesciata in distruzione. E' difficile capire com'è stato possibile che i sistemi di sicurezza americani, dagli aeroporti al Pentagono, siano saltati, tutti insieme.

Abbiamo assistito a questa giornata da lontano, noi italiani e noi europei, ma non come spettatori. Tutto l'Occidente è bersaglio, insieme con i simboli della sua più avanzata modernità americana. Oltre all'orrore per il terrorismo omicida, e alla pietà delle vittime, c'è un altro sentimento che accomuna l'Europa all'America colpita, ed è il senso di fragilità della democrazia. E' un sentimento politico inevitabile, di fronte alla fiammata improvvisa di onnipotenza terroristica. Ma la democrazia non è debole. Sconta soltanto la sproporzione, anch'essa inevitabile, tra i cittadini inermi di una parte del mondo che si considera in pace, riconosce i diritti degli altri, rispetta i valori della civile convivenza, e quella minoranza invasata e militarizzata che usa i codici di pace dell'Occidente per deformarli con i gesti di una guerra occulta, subdola, che procede per omicidi programmati come atti giganteschi di propaganda politica. Le democrazie hanno il vincolo continuamente accettato di rimanere se stesse, pur davanti alla sfida suprema del terrorismo, e anche in questo sta la loro superiorità. Ma nello stesso tempo devono difendersi difendendo i loro cittadini, senza lasciarli in balia del terrore.

Credevamo, noi europei, di essere approdati in un mondo nuovo con il carico vincente delle nostre ragioni, dopo aver ricucito la storica frattura tra l'Est e l'Ovest del nostro continente. Pensavamo ad un nuovo ordine che vedeva i nostri valori egemoni, dopo la fine della guerra fredda e la sconfitta dell'Urss, il "nemico ereditario". E invece ecco la nuova "guerra anomala", senza un avversario, senza dichiarazioni, senza eserciti e senza arbitri riconosciuti. Ma è guerra. Da ieri bisogna prendere atto che il terrorismo è il nuovo nemico dell'Occidente, perché è il nemico della democrazia, e va combattuto senza ambiguità e senza reticenze, per difendere le società democratiche nelle quali viviamo.
Questa guerra è anomala al punto che non sappiamo chi è il nemico, dove attaccherà domani, quale terreno sceglierà per lo scontro, quale arma, quale bersaglio. Sappiamo soltanto che la democrazia è più forte finché rimane se stessa, e per questo vogliamo difenderla.


Siamo tutti Americani
Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera del 12.09.2001

Siamo tutti americani. Ancora paralizzati e increduli, ci vengono in mente le parole che Kennedy pronunciò nel '63, poco prima di essere ucciso, davanti al Muro: io sono berlinese. Allora si pensava che il mondo fosse fragile e insicuro. Non era così. Il Muro, per fortuna, non c'è più e noi ci sentivamo, fino a ieri, più sicuri e cittadini di un mondo migliore. Non era così. Il risveglio è stato bruciante, come quelle fiamme che nelle Torri gemelle di New York (simbolo della potenza economica), o al Pentagono (simbolo della potenza militare), avvolgevano migliaia di vittime inconsapevoli. Ora siamo veramente in guerra. E quel che è peggio, il nemico è invisibile. Tante vite ridotte in brandelli e in cenere. Le altre, dei loro concittadini, sconvolte. Anche le nostre, più fortunate, cambiano: le ferite che abbiamo dentro sono invisibili ma indelebili. Quelle immagini strazianti rimarranno scolpite dentro di noi. E non riusciremo a cancellare dalla nostra memoria la scritta «America under attack» che la Cnn ha scelto come titolo della più spaventosa tragedia dei nostri tempi. Ci limiteremo a correggerla. E' tutta la civiltà sotto attacco.
Siamo tutti americani. Come i passeggeri dei voli dirottati che un terrificante e sofisticato piano terroristico ha trasformato in proiettili umani. Come i newyorchesi che si apprestavano ad andare al lavoro, affollando gli ascensori, con l'assillo della puntualità. Come quelle persone che si sporgevano disperate dalle torri invocando aiuto e sono state divorate dalle fiamme o sono precipitate nel vuoto.
...



Una guerra senza nemici
Marcello Sorgi su la Stampa del 12.09.2001

L'attacco all'America, come lo abbiamo seguito in diretta, in un clima di allarme da guerra che s'è rapidamente diffuso in tutto il mondo, era talmente impensabile fino a ieri che neppure i film più spietati e spettacolari lo avevano mai descritto così. Le torri del World Trade Center, edifici simbolo del progresso e del commercio mondiale, erano già state oggetto di un'azione terroristica; ma
non avremmo mai pensato di vederle crollare sotto i colpi di aerei pilotati da kamikaze, in una nuvola di fumo che avvolge tutt'a un tratto vite, storia, presente, futuro, soccorritori inermi, fili telefonici e antenne satellitari, la Casa Bianca, il Pentagono, il Congresso, l'efficientissimo sistema di sicurezza americano.
Anche per chi la guerra non l'ha vissuta e l'ha studiata sui libri di scuola, la sensazione, l'atmosfera ricordano Pearl Harbor sessant'anni fa. Ma è una Pearl Harbor senza Giappone, una guerra senza nemico, contro la quale non serve l'atomica e neppure lo scudo spaziale.

L'Italia certo - ma non solo l'Italia - è chiamata a una nuova speciale solidarietà con gli Stati Uniti, alleati che nel ruolo di guardiani dei diritti violati, di avversari delle sopraffazioni, di combattenti delle cause perdute, hanno sempre fatto la parte più importante. Non c'è più spazio per ambiguità come quelle che in passato accompagnavano le manifestazioni ad Aviano, per il Cermis o contro la pena di morte; per le spallucce fatte più di recente a cospetto della chiusura dell'ambasciata americana a Roma, dopo un allarme terrorismo; per le indulgenze di questi giorni del movimento antiglobal verso la violenza di strada. La ripugnanza per lo schiavismo del Settecento denunciata dalla conferenza di Durban può diventare una comoda scappatoia, se non è altrettanto chiaro l'atteggiamento verso i crimini contemporanei.
Il mondo intero appare vittima di una desolazione in cui, per dirla con Carlo Levi, "Cristo non è arrivato, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, l'anima individuale, il legame tra le cause e gli effetti, la ragione, la storia". Ma beninteso, questo non può essere un alibi.


E' cambiata la storia
Renato Ruggiero su ilSole24ore del 12.09.2001

"Non ci sono parole adatte per commentare tragedie come quelle che hanno colpito gli Stati Uniti d'America e per esprimere, assieme, la costernazione e il dolore per atti che mettono in discussione i valori stessi sui quali si fonda la convivenza civile. Quello che è avvenuto a New York e Washington rappresenta qualcosa che nessuno, fino a ieri, avrebbe potuto neppure considerare nell'ordine delle cose possibili. È un fatto che può cambiare il destino stesso del mondo e alterare il senso della storia."
Renato Ruggiero
Ministro degli Affari esteri


Un giorno che cambia il mondo
Furio Colombo su l'Unità del 12.09.2001

L'attacco all'America è accaduto all'improvviso alle 9 del mattino di una bella giornata di settembre mentre Manhattan è la colmo del suo lavoro, il Campidoglio di Washington è in seduta, il Pentagono è intento, con tutto il suo personale e i suoi sistemi da fantascienza, a monitorare il mondo e i suoi pericoli.
"Il presidente degli Stati Uniti vuole spendere miliardi di dollari per costruire lo scudo spaziale e non si rende conto che la prossima bomba sarà portata alla Casa Bianca in una valigia", aveva detto non più di due mesi fa un senatore democratico quando si è aperto il dibattito sul progetto "guerra stellare". Involontariamente quel senatore è stato profeta. Lo ha ispirato la prudenza, il senso comune che hanno sempre guidato l'America nei suoi atti fondamentali di governo. Quella prudenza, quel buon senso sembrano dissolti in una inspiegabile distrazione.

Il senno di poi, la riflessione (se è possibile riflettere con serenità e con giudizio in queste ore) costringono prima di tutto gli americani a confrontarsi con due illusioni che George Bush Junior aveva spensieratamente portato a Washington con la sua elezione: l'illusione che l'America possa distaccarsi, ricca e felice, dal resto del mondo. Mai prima un conflitto, come quello di Medio Oriente, è stato così grave. Mai prima d'ora un governo americano se ne era disinteressato così a lungo. E l'illusione di potersi chiudere nella fortezza America. Le due illusioni sono scomparse nell'immensa polvere di detriti delle torri gemelle di Manhattan.
Sangue, caos, morte, in punti diversi, nevralgici e simbolici in terra americana, da ieri costringono Bush e i suoi ideologi a ricordare che tutto ciò è avvenuto mentre il presidente governava con la testa ancora immersa nella guerra fredda, nel confronto-scontro fra potenze, diplomazie, ideologie. Nessuno intorno a lui ha saputo decifrare in tempo i segni di pericoli completamente nuovi che non hanno niente a che fare con la realtà prima di adesso.

L'America si espone ora a due diversi comportamenti, entrambi difficili e rischiosi. Il primo è "la guerra di culture", teorizzata per anni dal politologo americano Samuel Huntington. Predica la incompatibilità di culture diverse, tutto l'Islamismo contro tutto l'Occidente. E' un percorso che seduce perché si presta a identificare materialmente il nemico. O meglio: diventa nemico chi corrisponde ad un identikit culturale, dunque astratto. La storia non è mai andata così, le civiltà si sono mischiate creando altre civiltà. L'America è uno dei frutti più grandi della guerra di culture che non c'è stata. Forse per questo, fino al momento in cui sto scrivendo questo articolo, le fonti ufficiali e giornalistiche degli Stati Uniti nonostante lo shock, nonostante la ferita gravissima, non hanno voluto avventurarsi ad identificare il nemico. Vogliono prima avere un documento o una prova.
Ho detto due comportamenti. Ma l'altro non ha alcun modello, non c'è una teoria o una pratica, nè alcun governo che si sia avventurato lungo la strada in cui si arriva prima del peggio.
L'alternativa "guerra o terrorismo" probabilmente non è più una scelta. Questa è una guerra di terrore fra la potenza americana e un ectoplasma invisibile ma tutt'altro che debole: azione perfetta, preparata nei dettagli e sfuggita all'attenzione delle due polizie più potenti del mondo, la CIA e l'FBI.
Agli Stati Uniti e a tutti i governi con essi solidali (e che probabilmente comprendono alcuni importanti paesi arabi)si pone il compito durissimo di usare fermezza evitando il rischio di allargare le schiere dei nemici o di crearne di nuovi. Vuol dire la cosa più difficile: capire i limiti della potenza insieme con la necessità di non lasciare uno spazio vuoto dopo una simile tragedia. Il mondo, da oggi, non è più lo stesso. Sulle spalle di un Paese così provato, e tutti i paesi democratici c'è la responsabilità di fare in modo che da oggi non cominci il peggio.


Chiediamoci perché
Luigi Pintor su il Manifesto del 12.09.2001

Per la prima volta nella sua storia l'America ha visto la guerra entrare nelle sue metropoli, nelle sue strade e nei suoi grattacieli, nei suoi centri istituzionali, e seminare strage nella sua popolazione civile. E' un evento epocale, tanto imprevisto nelle sue modalità quanto imprevedibile e incommensurabile nelle sue conseguenze politiche e militari.
Mentre scriviamo non conosciamo con precisione neppure il numero delle vittime, certamente pauroso. Non conosciamo da chi è partito l'attacco, anche se viene genericamente ascritto al terrorismo arabo che mai però ha dato prova di una simile capacità militare. Non sappiamo spiegare la vulnerabilità mostrata dagli apparati di sicurezza e dai sistemi di emergenza della più grande potenza mondiale.
...
Il presidente Bush che vola sul suo aereo speciale perché la sua capitale è insicura faticherà a capire come sia possibile che il fantastico sia reale, che succeda a lui quel che succede ad altri, e cercherà una risposta che può far tremare il mondo. Grande è l'emozione di tutti per il presente, altrettanto grande è l'ansia di tutti per il futuro.
Ho sentito un telespettatore mormorare, mentre guardava Manhattan bruciare e crollare quelle torri e un grande viale carico di macerie: sembra Beirut. Ma poteva dire molti altri nomi, perché non è vero che abbiamo alle spalle cinquant'anni di pace e di convivenza e di civiltà universale, è vero invece che le scene di sofferenza e morte sono entrate nella quotidianità. E adesso scopriamo che non ci sono né confini né isole.
...


Il seme della guerra
Riccardo Barenghi su il Manifesto del 12.09.2001

...
Non si può parlare di attentati, siamo di fronte a una vera e propria azione di guerra, condotta con le stesse modalità delle guerre che gli Stati uniti hanno in questi anni combattuto in giro per il mondo. Loro usavano (usano) i missili, quelli di ieri (chiunque siano) anche: trasformano aerei civili in missili "intelligenti", che puntano l'obiettivo, ci si scagliano contro, lo distruggono qualunque cosa o essere umano contenga. Altro che scudo stellare.
Gli americani bombardavano il quartier generale di Saddam in Iraq? Questi "bombardano" il Pentagono, cioè il ministero della difesa americano, anzi il Tempio della difesa del mondo occidentale. Gli americani bombardavano la sede della televisione serba, obiettivo civile ma altamente funzionale alla propaganda del regime di Belgrado? Questi colpiscono le torri gemelle, obiettivo altrettanto simbolico ma ben più importante: il cuore dell'impero, Wall street, il capitalismo mondiale.
Su chi si nasconda dietro questi esaltati che si uccidono insieme alle loro vittime, non mancano certo ipotesi e illazioni. Dal solito Bin Laden a qualche altra organizzazione terroristica islamica, fino a qualche oscura setta o addirittura uno stato estero. Chiunque sia, ha messo in piedi una tale organizzazione che, se è riuscita a colpire nello stesso momento diversi punti strategici degli Stati uniti, è ormai in grado di arrivare ovunque. Non gli mancano evidentemente i soldi, i mezzi, gli uomini, le coperture internazionali, probabilmente anche interne al sistema di controspionaggio statunitense.
Un fatto che non solo non fa dormire tranquilli, ma che non può non far riflettere su quanto odio l'America abbia seminato nel mondo in questo secondo dopoguerra. Ed è da questo punto che si dovrebbe ricominciare invece che dalla rappresaglia (contro chi?) che gli Stati uniti metteranno in atto oggi o domani.
...


12 settembre