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sulla stampa
a cura di P.C. - 23 dicembre 2003


Tre questioni in agenda
Dopo il crac Parmalat
Massimo Gaggi sul
Corriere della Sera

Rientrata la tentazione di intervenire con un blitz su un sistema di controlli finanziari dimostratosi totalmente inadeguato anche nel disastro Parmalat, è ora importante definire i livelli e il perimetro di interventi di riforma che dovranno pur esserci. Serve, se non un vero e proprio accordo bipartisan , almeno un'"analisi condivisa" dalla quale partire per individuare le soluzioni. Un lavoro non facile, vista l'enormità dei fatti accaduti, la molteplicità degli attori e delle responsabilità, un clima avvelenato dallo scontro tra Tesoro e Banca d'Italia. Proprio la gravità della vicenda Parmalat, che crea seri pericoli per la nostra stessa stabilità economica, deve indurre governo e forze politiche a uscire dalle rispettive trincee, affrontando i problemi reali. La Financial Services Authority, l'autorità unica di controllo dei mercati britannici alla quale oggi si ispira il nostro esecutivo, è il frutto di una riforma che Londra non ha varato nel pieno dello scandalo Bcci, ma quasi un anno dopo, sulla base di analisi approfondite. Ed è ancora presto per dire quanto quella riforma abbia funzionato.
Bisogna quindi muoversi con cautela, badare alla sostanza, tutelare l'autonomia delle autorità indipendenti. Ma se nel nostro sistema di imprese operano sette livelli di controllo (il consiglio d'amministrazione della società, i sindaci, l' auditing interno, i revisori dei conti e poi ancora le banche che concedono crediti o collocano titoli, la Consob, la Banca d'Italia) che non hanno mai rilevato anomalìe, nessuno può negare la necessità di intervenire.
Per andare dove? Basta spostare competenze o vanno introdotti veri sistemi di accertamento e sanzioni severe contro le frodi ma anche contro comportamenti conniventi o omissivi? Ragionando sul da farsi, tre ci sembrano gli ordini di problemi su cui si dovrebbe riflettere.

1) Il sistema bancario. Nessun processo, ma la vicenda Cirio ha fatto emergere lacune, inerzie e responsabilità piuttosto evidenti che toccano anche l'autorità di vigilanza. Il caso Parmalat, dicono alcuni, è diverso: il buco è stato creato all'estero e le banche coinvolte sono soprattutto colossi stranieri, dall'Italia si poteva fare poco. Vero solo in parte: la Parmalat era comunque una società italiana, i suoi revisori dei conti erano italianissimi, così come italianissimi erano i giornali che un anno fa avevano portato alla luce la strana storia di una società che continuava a indebitarsi per miliardi di euro, pur avendo in cassa altri miliardi liquidi. Tanzi e Tonna, intervistati su questo punto, avevano dato risposte goffe, poco plausibili. Banche e autorità italiane sono rimaste impassibili anche quando alcuni giganti stranieri - Merrill Lynch in testa - hanno capito che la situazione era ormai insostenibile e hanno chiuso i rapporti con Parmalat. Banchieri e gestori di fondi che avevano dato credito a Tanzi oggi ammettono candidamente che nessuno immaginava simili disastri, ma che tutti sapevano che non era certo coi magri margini offerti dalla vendita di latte e yogurt che Parmalat poteva finanziare la sua crescita tumultuosa. Basata su obbligazioni che banche e fondi accettavano volentieri perché allettati da commissioni molto più alte di quelle offerte dagli altri emittenti "sani". Se non è un patto col diavolo questo...

2) Etica e impresa. Il deterioramento degli standard etici nel sistema economico italiano è sotto gli occhi di tutti. Comportamenti poco trasparenti, ricerca di scorciatoie per "fare il bilancio", non sono certo comportamenti che appartengono solo a qualche gruppo creditizio. Né sono problemi che si possono affrontare solo con sanzioni e con un irrigidimento dei vincoli normativi. Ma il tentativo di intervenire con l'autoregolamentazione non ha avuto successo. Dov'è finito il "codice Preda"?

3) Le colpe della politica. La più evidente è quella di aver varato una raffica di misure di alleggerimento delle pene per i reati relativi alla contabilità d'impresa proprio mentre l'America fronteggiava l'emergenza Enron inasprendo quelle stesse pene. E' la colpa di cui si parla di più, in questi giorni, non l'unica: se la Consob non ha poteri investigativi come quelli che consentono alle autorità Usa o inglesi di scoprire e denunciare un caso di insider trading nel giro di 48 ore, ciò dipende dal Parlamento che a suo tempo cancellò una norma di questo tipo dalla "legge Draghi", quella che regola la corporate governance in Italia. Sempre il legislatore ha voluto prevedere per la violazione delle norme sanzioni pecuniarie risibili. Risultato: mentre in America sono state comminate multe da mezzo miliardo di dollari, capaci di scoraggiare chiunque, in Italia enormi strutture finanziarie che sono all'origine di danni per centinaia di milioni si sono viste recapitare multe da ventimila euro: lo stipendio di un mese di un top manager.
I problemi sono molti e complessi; il tempo c'è ma non è infinito. Fin qui i contraccolpi finanziari per la nostra economia su tassi ed emissioni non sono stati gravi. Non ci fosse stato l'euro...


“Tremonti, un bulgaro”
Intervista a Guido Rossi
Federico Rampini su
la Repubblica

"Espropriando i poteri di vigilanza della Banca d'Italia il governo ha in mente un'operazione bulgara, per portare anche il settore del credito sotto il suo totale controllo. Un governo che in materia di diritto societario non ha lavorato né per modernizzare il capitalismo italiano, né per migliorare la tutela del risparmiatore. E' lo stesso esecutivo che interviene sul settore dell'informazione in pieno conflitto d'interessi, aziendale e patrimoniale, con il presidente del consiglio che non legge neppure le osservazioni del capo dello Stato e ignora le regole antitrust dell'Unione Europea". Guido Rossi un decennio fa dovette occuparsi del salvataggio Ferfin-Montedison: un crac da 28.000 miliardi di lire con sullo sfondo Tangentopoli, le spericolate piraterie finanziarie di Raul Gardini sulla Borsa di Chicago, il crollo industriale della chimica italiana. Oggi Guido Rossi osserva con preoccupazione che quella lezione non è servita, e che il capitalismo italiano non è migliorato.

Nel gigantesco "buco" Parmalat colpisce la sovrapposizione della finanza derivata e delle società offshore su un'azienda dal mestiere industriale molto semplice.
"Il vizio d'origine è quello di un capitalismo straccione, familiare o di Stato, che scopre tardivamente gli strumenti più sofisticati del capitalismo finanziario americano. Strumenti nati per coprire il rischio, e trasformati perversamente nella massima fonte di rischio. Quando questo capitalismo pre-moderno viene immesso nel circuito delle grandi banche italiane e straniere che giocano a vendere prodotti finanziari esotici e a incassare commissioni, il disastro è inevitabile. Purtroppo mi aspetto che ce ne siano altri".

Si evocano grandi scandali stranieri - Enron in America, Vivendi in Francia, Ahold in Olanda - quasi a dire: il male è universale, quindi non c'è una patologia italiana.
"Invece la differenza tra noi e loro è sostanziale. Enron, Vivendi, Ahold: nessuna era un'impresa a carattere familiare. L'inquinamento è ancora più pericoloso in un paese come l'Italia che non ha strutture finanziarie evolute, non ha regole né strumenti di controllo adeguati, mescola gli yogurt, i derivati, e le società offshore alle isole Cayman. I mali del capitalismo americano ed europeo non vanno certo sottovalutati, ma noi ne soffriamo anche di altri: siamo un paese che non cerca la modernità, ma annusa in fretta l'ultima moda, confondendo l'una con l'altra".

In fatto di conflitto d'interessi le nostre banche hanno appreso tutto il peggio da quelle americane. Si scopre che qualche istituto di credito italiano, dopo aver curato il collocamento dei famigerati bond Parmalat, li ha rifilati ai clienti-risparmiatori, ignari naturalmente dell'operazione-Parmalat.
"Su questi episodi vergognosi si gioca purtroppo tutta la credibilità del sistema bancario italiano. Alcuni istituti di credito paiono avere responsabilità gravissime, il risparmiatore ha ragione di sentirsi beffato e indifeso".

E allora è ineludibile la questione della vigilanza: dov'era la Banca d'Italia? Perché non ha visto nulla? A che cosa serve uno strumento come la centrale dei rischi, che è a disposizione della nostra banca centrale proprio per sorvegliare la posizione debitoria delle imprese?
"Non c'è dubbio che il governatore Fazio debba dare delle risposte con la massima trasparenza, soprattutto a fugare l'impressione che la Banca d'Italia si sia occupata molto dei giochi di alleanze, matrimoni e fusioni, cioè degli assetti di potere nel sistema creditizio italiano, e non abbastanza dell'integrità del sistema. Sono insufficienti gli strumenti a disposizione? Mancano del tutto? Oppure non sono stati adeguatamente utilizzati? Il risultato è che oggi noi abbiamo banche quasi ipertrofiche, più grandi delle nostre imprese industriali, gonfie di liquidità e di crediti inesigibili. Ma poi scoppia il caso-Parmalat e a cosa serve avere questi mastodonti bancari?".

Dunque è giusto indagare sulle responsabilità di tutti gli organi di controllo, dalla Consob alla Banca d'Italia, senza tabù?
"E' doveroso, anche perché le mogli di Cesare debbono essere al di sopra di ogni sospetto. Purché la ricerca dei responsabili non diventi tuttavia una caccia al capro espiatorio. Questa è una crisi sistemica che richiede risposte alte, una azione che aggredisca le cause dell'arretratezza italiana. Purtroppo questo governo ha agito finora nella direzione opposta: la sua riforma del diritto societario, per esempio, ha allargato la possibilità di emettere titoli di ogni tipo. Si sono estese al mercato italiano le libertà finanziarie di sistemi avanzati come quello americano, senza rafforzare tutele e controlli, come invece questi sistemi hanno prontamente messo in atto. E' chiaro che, abolito di fatto il reato di falso in bilancio e in assenza di qualsivoglia deterrenza, tutti in Italia si sentono ormai liberi di qualunque manipolazione. Per lo stesso reato il legislatore americano dopo il caso Enron ha portato la pena detentiva da cinque a vent'anni".

Il Financial Times ha ricordato che in fatto di società offshore, l'azienda che fa capo al presidente del Consiglio ha fatto scuola?
"Sì, è un bell'esempio davvero, dalle Bermuda alle Cayman. Perciò ho il forte sospetto che la volontà politica non sia quella di compiere una vera pulizia del sistema. L'attacco alla Banca d'Italia può infatti nascondere il progetto di abolire l'autorità indipendente per sostituirla con un organo che risponda di fatto al potere politico. Torneremmo indietro ai tempi in cui il sistema bancario veniva diretto da qualche ministero. E' un'epoca che ricordo troppo bene per nutrire nostalgia di quelle soluzioni. Tanto più se a dirigere le banche deve essere un governo che sta seduto su un conflitto d'interessi gigantesco - come ha sottolineato lunedì Eugenio Scalfari - in una fase in cui il presidente del Consiglio concentra poteri senza eguali nelle democrazie occidentali, legifera tranquillamente in favore del proprio impero aziendale e sul proprio patrimonio familiare, e ignora platealmente le osservazioni del presidente della Repubblica su materie attinenti alla Costituzione".

Prima che Ciampi rifiutasse di firmare la legge Gasparri, lei in un'intervista a Repubblica aveva sottolineato che quella legge è contraria ai principi europei in materia di antitrust e pluralismo dell'informazione. Il capo dello Stato sembra condividere la sua valutazione. Ma ieri il commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti, è parso più cauto, quasi a indicare che il settore dell'informazione resta per lo più sotto la competenza dei governi nazionali.
"Le affermazioni del commissario Monti mi hanno sorpreso, anche perché solitamente le sue posizioni mi paiono condivisibili. In questo caso, invece, egli sembra aver trascurato le indicazioni tassative e precise della direttiva quadro del 2002/21. Da un lato essa definisce il pluralismo dell'informazione come un obiettivo di interesse generale. D'altra parte afferma che questo pluralismo va perseguito assicurando che vigano le condizioni di una concorrenza leale ed effettiva. Varrebbe la pena di citare la direttiva per intero, ma basti il solo "considerando" numero 25, che precisa che 'la definizione di cui alla presente direttiva è equivalente alla nozione di posizione dominante enucleata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dal Tribunale di 1? grado delle Comunità Europee'. Le regole dell'antitrust europeo, quindi, si devono applicare pienamente anche nel settore dell'informazione. Non è dunque un problema di forma né di ambiguità. Pluralismo televisivo significa allora rispetto della concorrenza".

Quindi lei resta del parere che alle obiezioni del presidente della Repubblica non si può rispondere con un'operazione di cosmesi, che lascerebbe immutata la posizione dominante nell'informazione televisiva in capo all'azienda di Silvio Berlusconi.
"Le osservazioni di Ciampi vanno lette molto sul serio. Non ci sono margini per elusioni, equivoci o furbizie. Nessuna cosmesi leggera può salvare una legge indifendibile come la Gasparri".


Più poteri di indagini e sanzioni
Alberto Quadrio Curzio su
Il Sole 24 Ore

Il disastro Parmalat richiederà tempo per accertare le responsabilità, che andranno sanzionate, di tutti i soggetti coinvolti. Nell'immediato ci sono tre aspetti da considerare,con estrema pacatezza, per non aggiungere danno al danno. Il primo aspetto è industriale. Parmalat ha dato in passato un apporto innovativo al sistema produttivo italiano, ha consentito uno sbocco al mercato di un indotto frammentato, ha creato una rete produttiva multinazionale. Tuttora è un marchio che ha un suo valore e che risulta appetibile per molte multinazionali agro-alimentari. Come da una attività produttiva reale di questo tipo si sia arrivati al disastro finanziario lo si valuterà ma una osservazione appare ovvia: la specializzazione produttiva aziendale e la finanza funambolica globale sono nemiche. Mentre la prima crea innovazione e valore reale, la seconda crea illusione nel breve e conseguenze devastanti nel medio termine. Il caso Parmalat è anche questo, oggi con un solo barlume di speranza: l'azienda è in mano a un professionista come Enrico Bondi che va apprezzato per il senso civile nell'aver accettato un compito che appare immane e che ha sullo sfondo i danni all'occupazione e alla industria agroalimentare italiana, nonchè alla nostra visibilità produttiva nel mondo. Nel polverone di Parmalat non svalutiamo però le imprese italiane, magari rimpiangendo i baracconi di Stato, perchè esse sono un patrimonio con molti valori. Il secondo aspetto è bancario e finanziario dove le Banche da una lato si assumono come aziende il rischio d'impresa negli affidamenti ai clienti e dall'altro accettano come gestori la responsabilità del risparmio dei depositanti. Allo stato delle notizie le banche italiane non sembrano all'origine, per imprudenza, di questa crisi. I veri co-attori del disastro sembrano essere invece all'estero, paradisi fiscali compresi. Alla fine ci sono comunque dei danneggiati tra cui gli azionisti e obbligazionisti. Prescindendo dai risparmiatori e dagli investitori istituzionali esteri che sembra posseggano circa tre quarti delle obbligazioni Parmalat, ben comprendiamo la forte preoccupazione di quelli italiani già provati da analoghi recenti casi. Perciò è indispensabile un nuovo Patto di responsabilizzazione tra gestori e risparmiatori: per le banche e i gestori affinché essi siano sempre più rigorose e preparate nell'esercizio di un compito delicatissimo; per i risparmiatori nel capire che,finiti gli anni patologici dei titoli di stato con interessi a due cifre,l'impiego del risparmio ha profili di rischio che crescono con il rendimento. È apprezzabile che alcune Banche italiane, esposte con i clienti sulle obbligazioni Cirio, abbiano aperto un nuovo capitolo accettando di rimborsare in taluni casi i risparmiatori.

Prima di colpire o indebolire una Istituzione centenaria ed internazionalmente qualificata come la Banca d'Italia, e quindi tutto il sistema bancario italiano,prima di creare una super-Autorità di vigilanza il cui rodaggio, anche per le inevitabili interferenze politiche, richiederebbe anni, è doveroso fare almeno due riflessioni. La prima ci viene dalla assoluta obiettività del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che il 27 novembre scorso in un incontro con i dipendenti della Banca d'Italia ha detto tra l'altro "La Banca ha saputo coniugare professionalità delle prestazioni, efficienza della gestione, attenzione alle compatibilità finanziarie, trasparenza della propria azione. Ma il bene più prezioso della Banca d'Italia è senza dubbio rappresentato dal suo personale. La deontologia dei comportamenti, l'onestà morale e professionale, il senso della dignità dell'istituzione sono un patrimonio, uno stile del modo di lavorare in Banca, un valore riconosciuto e da preservare". La seconda ci viene dalla storia postbellica del nostro Paese dove la Banca d'Italia ha tutelato i risparmiatori molto più che in altri Paesi industrializzati spesso magnificati. Limitandoci al periodo più recente, ricordiamo che l'Italia è uscita dal capitalismo statal-dirigista negli anni '90 e ha fatto molta strada verso il mercato, pur con qualche crisi resa visibile mentre prima veniva occultata dilatando un gigantesco debito pubblico che senza euro ci sarebbe crollato adosso. In questo cambiamento la Banca d'Italia ha favorito lo sviluppo di un sistema bancario sostanzialmente sano e concorrenziale mentre Autorità indipendenti come Consob e Antitrust sono cresciute bene anche se tra le varie competenze c'è stata qualche smagliatura. Il problema non è dunque oggi di strapparsi le competenze o di creare un altra super-Autorità vigilante che subordini quelle esistenti o che le mischi. Il problema è di dare più poteri inquisitori e sanzionatori agli Organi esistenti coordinandoli anche meglio con una snella "cabina di regia" improntata a razionalità e professionalità.


La lira nell'euro: perché è un bene
Luigi Spaventa sul
Corriere della Sera

Cinque anni fa - il 1° gennaio del 1999 - ebbe avvio l'unione economica e monetaria fra dodici Paesi: prima fissando per sempre i reciproci cambi; poi con l'introduzione di una moneta unica. Nella primavera dell'anno precedente si era deciso chi avrebbe partecipato. Alla fine del 1997 l'Italia, con sorpresa di molti e disappunto di alcuni, si presentò con le carte in regola per entrare. Poco più di un anno prima, il governo italiano, nell'incredulità generale, aveva espresso un fermo impegno politico a ottenere l'ammissione: inaspriva a tal fine la Legge finanziaria e poi riportava la lira nel sistema monetario europeo, dopo una squalifica di quattro anni. Sono date che giova ricordare in questo inverno di scontento verso l'Europa e tutto ciò che sa di europeo; anche verso l'euro, cui alcuni, e da ultimo anche il presidente del Consiglio, addebitano ogni nostra calamità economica. Non chiediamoci quel che l'euro ha fatto per l'Europa: se non ha dato crescita, ha creato commercio e ha stimolato nuovi e più fluidi flussi finanziari. Ricordiamoci piuttosto, perché spesso lo si dimentica, che l'Italia è il Paese che più di ogni altro ne ha tratto beneficio.
Come avviene per ogni grande debitore, a metà degli anni Novanta gravava sul bilancio pubblico italiano un onere di interessi elevatissimo: a causa non solo della dimensione del debito, ma anche del livello dei nostri tassi, che rischio di cambio e rischio di credito collocavano a circa tre punti sopra quelli tedeschi. Con un onere del debito vicino al 12 per cento del prodotto, il pur notevole aggiustamento compiuto negli anni precedenti non era bastato: il disavanzo superava ancora di oltre quattro punti la soglia di ammissione. L'allora ministro del Tesoro (si chiamava Carlo Azeglio Ciampi), ostinatamente deciso a farcela, destramente comprese che il costo del biglietto d'ingresso per i cittadini poteva sostanzialmente ridursi se un fermo impegno a rispettare le condizioni avesse convinto i mercati: al resto avrebbe provveduto la diminuzione dei tassi d'interesse, senza né lagrime né sangue. Vi riuscì.

Ma che dire della "inflazione da euro", che in Italia ha offuscato la popolarità della nuova moneta? Pur se la conversione ha offerto l'occasione per un balzo dei prezzi, chiediamoci piuttosto perché altrove lo stesso evento non abbia prodotto lo stesso effetto, o lo abbia prodotto in misura minore. La risposta forse non è difficile: da noi, minore concorrenza; a monte, liberalizzazioni mai compiute e, invece, protezioni garantite a corporazioni interessate e a settori inefficienti. Questi, e non quelli dell'euro, sono i costi che continuiamo a sopportare.


Le responsabilità dei consiglieri
Giuseppe Turani su
la Repubblica

Si fa l'elenco in queste ore di tutti i controlli che non hanno funzionato nel caso Parmalat (e, appena prima) in quello Cirio. Ci si domanda come mai alcune centinaia di migliaia di risparmiatori sono stati esposti al rischio concreto di perdere in tutto o in parte i propri soldi senza che suonasse nemmeno un campanello d'allarme. La risposta, se si vuole, c'è e è anche semplice. Si divide in due parti. Intanto è evidente che questi controlli (o supposti tali) sono molto burocratici, di routine, e quindi istituzionalmente incapaci di rilevare una qualsiasi truffa o una qualsiasi situazione di dissesto grave.
Esattamente come un vigile di quartiere non può prevedere, o prevenire, un attacco atomico.
La seconda parte della risposta consiste nel fatto che, tanto nel caso Cirio come nel caso Parmalat (ma di più nel secondo) l'imbroglio è stato talmente spudorato da prendere in contropiede persino le banche che fino a un certo punto erano state solidali con gli azionisti di maggioranza.
È evidente, alla luce di queste semplici considerazioni, che le varie autorità di controllo vanno riviste e vanno assegnati loro maggiori poteri (lo si dice ogni volta, ma questi benedetti poteri non crescono mai). Come è evidente che aver usato la mano leggera con i reati societari e di falso in bilancio è stato un errore. Questo tipo di comportamenti delittuosi fa ormai parte, organicamente, del moderno capitalismo (perché c'è in giro troppa finanza) e ogni volta restano impigliati in queste reti truffaldine centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori: cosa per cui conviene ripensare a formulazioni e a pene un po' più severe per i reati societari.
Ma va anche detto che truffe come quelle scoperte nei casi Cirio e Parmalat sono difficilmente individuabili dall'esterno, da chi si trova fuori dalla società. A meno di non mettere due carabinieri alle spalle di ogni amministratore delegato o di obbligarli tutti a passare ogni mattina in questura per riferire su quello che hanno fatto il giorno prima, è inevitabile che questi crac vengano a galla quando ormai è troppo tardi. Quando i buoi sono scappati.
Allora non c'è niente da fare? No, qualche provvedimento si può pretendere.
Ma "dentro" le società piuttosto che fuori. Certo, la Consob va dotata di maggiori poteri e anche le banche dovrebbero svegliarsi un po', ma la battaglia vera contro i casi Parmalat si conduce all'interno delle società, non fuori.
E dentro sono tante le cose che si possono fare. La prima, e forse la più urgente anche se un po' rivoluzionaria, sarebbe quella di stabilire che i consiglieri di amministrazione indipendenti (cioè non legati agli azionisti di maggioranza e ai loro interessi), devono passare in maggioranza. Ogni amministratore di società, cioè, deve avere di fronte una maggioranza di consiglieri non ostile, ma indipendente. Se del caso, si deve trattare di consiglieri ben retribuiti (così ci vanno anche bravi professionisti), ma con relative responsabilità civili e penali in caso di pasticci contabili.
Sembra poco, ma un provvedimento del genere potrebbe evitare che nascano truffe, contabilità separate, troppi affari finanziari all'estero di cui nessuno sa niente. Oggi in Italia (che io sappia) esiste una sola società, fra quelle quotate, che ha una maggioranza di consiglieri di amministrazione indipendenti: si tratta della Sabaf e va benissimo. Non è cioè che il fatto di non poter contare su una maggioranza di consiglieri-pecore ha impedito alla società di prosperare e di crescere. Però è un po' più trasparente delle altre. Il management non ha paura di farsi controllare da gente che in maggioranza è estranea alla società.



Vigilare meglio è possibile
Franco Bruni su
La Stampa

Il valore delle azioni Parmalat, una delle grandi società industriali italiane, evapora sotto i colpi delle indagini avviate su gravi sospetti di frode. E' un danno per l'economia italiana e per i risparmiatori, la cui fiducia nei mercati finanziari è stata ripetutamente ferita di recente. Mentre la magistratura cerca di chiarire le responsabilità, dobbiamo chiederci se siamo di fronte, oltre che all'ipotesi di reati specifici e circoscritti, a un problema sistemico, a un fallimento della vigilanza incaricata della tutela del risparmio e della stabilità finanziaria.
Riforme delicate come quella della vigilanza finanziaria andrebbero discusse "a freddo", ma una riflessione è diventata ora più urgente. La sede istituzionale adatta a guidarla è il Parlamento, cui spetta anche svelenire la polemica guardando al di là degli scandali del giorno e degli scontri di schieramento. Come alcuni mesi fa avevo proposto su queste colonne, sarebbe l'occasione giusta per affidare a un'autorevole commissione di studio composta anche da stranieri - anziché alla solita commissione parlamentare d'inchiesta - la ricognizione tecnica necessaria per una revisione legislativa.
Occorre semplificare l'assetto attuale. La strada dell'autorità unica ha successo in molti Paesi, ma potrebbe non essere quella più adatta all'evoluzione del nostro ordinamento. Meglio allora specializzare le responsabilità attorno a due controllori: uno deputato a promuovere la stabilità degli intermediari e del sistema, l'altro a vigilare su correttezza e trasparenza dei mercati e delle informazioni che giungono ai risparmiatori.
I controlli di stabilità potrebbero essere riuniti in capo alla Banca d'Italia, abolendo gli enti di vigilanza su assicurazioni e fondi pensione. In forme nuove e incisive alla Banca centrale andrebbe chiesto di rispondere periodicamente e pubblicamente dei controlli che attua e dei risultati che ottiene. Anche in questo caso è il Parlamento e non il governo il luogo più adatto a controllare il controllore. L'azione di vigilanza della Banca d'Italia potrà infine essere separata dalla difesa della concorrenza, che anche per le banche andrebbe affidata all'Antitrust che già sorveglia le altre imprese.
Una Consob riformata e molto rafforzata potrebbe continuare a occuparsi di correttezza e trasparenza, rispondendo anch'essa al Parlamento. Il controllo parlamentare dovrebbe inoltre garantire che Consob e Banca d'Italia si accordino per evitare conflitti e sovrapposizioni e mettano in comune le informazioni.



Il Cencelli della finanziaria
Ilvo Diamanti su
la Repubblica

C´è un'altra politica, che si svolge all´ombra dei grandi progetti e delle grandi parole d´ordine. I conflitti di interesse, le riforme su pensioni e giustizia. La guerra e la pace. C´è una politica di bilancio che procede, furtiva, seguendo fini diversi da quelli dichiarati. Controllo della spesa, riduzione della pressione fiscale e allargamento degli investimenti. Rigore e virtù. Incorniciano un quadro dai contenuti assai diversi. C´è un´altra politica. La politica "reale": che vede partiti, leader, parlamentari intenti a coltivare la pianta del consenso. O meglio: le mille piante del consenso. Grandi, medie, piccole e piccolissime. Come avviene nella costruzione della legge finanziaria; e soprattutto nel decretone che la integra e ne precisa l´applicazione. Proietta una mappa confusa, frammentaria, che, valutata con attenzione, rivela alcuni assi; alcune logiche, da cui è possibile ricavare il disegno sotteso. Perché delinea gli interessi territoriali e sociali a cui si rivolgono gli attori politici di maggioranza.
A) Il primo è l´asse che distingue maggioranza e opposizione. Nella finanziaria si privilegiano i contesti amici. Tanto più se confinano e coabitano con quelli avversi. Per cui si è generosi con la regione governata dal centrodestra, mentre si è più cauti con le città e, magari, il capoluogo, se amministrati dal centrosinistra. E viceversa. Ad esempio, come suggerisce l´inchiesta di Roberto Petrini (da cui ricaviamo i dati proposti in questa riflessione), in vista dei Giochi Olimpici invernali 2006, che verteranno su Torino (amministrata dal centrosinistra), è stato concesso un finanziamento cospicuo (3,5 milioni dal 2005). Ma nel comitato organizzativo sono stati inseriti due membri di nomina regionale e ministeriale (centrodestra), rompendo il sostanziale equilibrio politico precedente. Poi Roma. E´ destinataria di numerosi interventi, legati alla presenza ministeriale. Ma il capitolo su "Roma capitale", di competenza del comune (amministrato dal centrosinistra, sindaco Veltroni) non ha ricevuto finanziamenti. Lo stesso è avvenuto nel Nordest, dove al contesto veneto (amministrazione di centrodestra) sono state attribuite (per infrastrutture e logistica) risorse molto più copiose rispetto al comune di Venezia (giunta di centrosinistra).
b) Il secondo asse marca la distinzione dei partiti di governo fra loro, impegnati a premiare le aree e/o le categorie e i soggetti a loro più vicini. La Lega, così, si è battuta a favore del rimborso dei crediti d´imposta, per una cifra pari a 3,2 miliardi. Iniziativa che interessa tutto il paese, ma riguarda ? e favorisce - particolarmente il mondo delle piccole e piccolissime imprese del Nord e del Nord Est. Ipotesi, peraltro, bloccata, per problemi di copertura finanziaria, ma compensata, in qualche misura, da altri provvedimenti e contributi: a favore delle comunità montane, della navigabilità commerciale del Po, ecc.
Parallelamente, AN ha spinto per favorire il Lazio e, insieme all´UDC, il Mezzogiorno. Ottenendo, ad esempio, la proroga degli sconti fiscali ai comuni terremotati di Augusta; oltre alla riproposizione (infinita) dei fondi per il Belice.
c) Naturalmente, le logiche di partito si incrociano con quelle di corrente e con quelle individuali, interpretate dai singoli parlamentari. I quali, a loro volta, rispondono alle pressioni che arrivano dalla società e dal territorio. Dai gruppi, dalle organizzazioni, dagli ambienti locali. Questo è il terzo asse sulla base del quale si delinea la mappa tracciata dalla legge finanziaria. Si traduce in una pioggia di microiniziative, finanziamenti, volti a favorire il contesto locale amico. E, in particolare, il soggetto economico, sociale, religioso, più vicino.

Succedeva così anche in passato? Certamente sì. Nella prima Repubblica alla distribuzione delle risorse, prevista dalla legge finanziaria, partecipavano anche i partiti d´opposizione. Però: i partiti erano nazionali; organizzati; avevano una maggiore capacità di controllo sul territorio e di mediazione rispetto alle categorie e agli organismi sociali, culturali religiosi. Riuscivano per questo a regolare internamente le divergenze e distinzioni di interessi. Mentre ora le domande sociali e locali si rovesciano sui partiti (ciò che ne resta) in modo diretto, senza mediazione. Infine, le risorse generate dall´economia erano più ampie, vista la lunga stagione di sviluppo che ha accompagnato il dopoguerra. E i vincoli esterni più deboli. Permettevano maggiori margini di manovra, nella spesa. E poi quella era la prima Repubblica. La Repubblica proporzionale. Della in-decisione. Della clientela e della corruzione. La prima Repubblica. Ma questa compagine politica aveva promesso di girare pagina. Trasparenza, pochi obiettivi (chiari), libertà agli attori sociali e di mercato, autonomia e responsabilità dei contesti locali. Non è andata così, finora. Questa seconda Repubblica propone una mappa dell´Italia indistinta, slabbrata, scomposta in particolarismi locali, interessi economici e confessionali, quasi un Cencelli rivisitato. Quanto la prima. Più della prima. Che riflette una coalizione politica frammentaria. L´immagine del premier, la rappresentazione mediatica, possono solo simulare, ma non imporre coerenza e identità a questa Italia frammentaria. Causa e riflesso di una (coalizione) politica frammentaria.


Ministro egiziano aggredito da palestinesi
Umberto De Giovannangeli su
l'Unità

"Traditore". "Collaborazionista". "Che Allah ti maledica". "Allah è grande". La raffica di insulti fa da prologo all'aggressione fisica. Il bersaglio dell'ira dei fedeli islamici è Ahmed Maher, ministro degli Esteri egiziano. Il luogo dell'aggressione è la Moschea di Al Aqsa, nel cuore della Gerusalemme antica, dove Maher si era recato a pregare al termine della sua visita ufficiale in Israele. Appena messo piede nella Spianata delle Moschee, il capo della diplomazia egiziana viene individuato, spintonato e fatto bersaglio di un fitto lancio di calzature che gli estremisti si erano tolti al momento dell'ingresso nella moschea. Colpire qualcuno con le scarpe è una forma tradizionale di insulto nella cultura islamica.
La situazione rischia di precipitare. "Sto soffocando, sto soffocando", ripete Maher prima di svenire. "Un gruppo di estremisti ha cominciato a inveire contro il ministro chiamandolo traditore e servo dei sionisti, e poi hanno cercato di raggiungerlo", racconta una delle guardie della moschea - il terzo luogo sacro dell'Islam - che ha assistito all'aggressione. "Maher, qui non è benvenuto chi stringe le mani degli assassini (intendendo il premier israeliano Ariel Sharon, ndr.)", gridano gli assalitori. Le guardie del corpo, egiziane e palestinesi, riescono a fatica a respingere la folla di aggressori. Il ministro degli Esteri egiziano viene trasferito in una stanzetta della moschea e da lì condotto, a bordo della sua vettura, all'ospedale Hadassah. "Le sue condizioni non destano preoccupazioni", rassicura un portavoce dell'ospedale. Poche ore dopo, il ministro viene dimesso. A mettere in atto l'aggressione, secondo quanto riferito da un portavoce del distretto di polizia di Gerusalemme, sarebbero stati membri di un gruppo islamico radicale denominato "Partito della liberazione islamica".
La tv qatariota Al Jazira diffonde le immagini di Maher, 68 anni, in difficoltà, circondato da una gran folla e mentre si aggrappa ad alcune persone, davanti alla moschea di Al Aqsa. Mentre il premier israeliano Ariel Sharon telefonava personalmente a Maher, il ministro degli Esteri Silvan Shalom raggiungeva l'ospite in ospedale: l'incidente, dichiara Shalom, dimostra che ci sono ancora estremisti che si oppongono alla pace tra arabi e israeliani. Maher, aggiunge il ministro, è stato assalito mentre era "in missione di pace in un luogo sacro". Il portavoce di Maher, Tareq Adel, cerca di minimizzare l'incidente: "Due o tre individui - dice - si sono rivolti al ministro per esprimere la loro protesta per la visita compiuta in Israele. Gli agenti della sicurezza israeliani - prosegue la ricostruzione del portavoce egiziano - hanno allora deciso di intervenire e a quel punto si è scatenato il parapiglia".

Un primo risultato concreto della visita è la promessa del premier Sharon che Israele si asterrà dal compiere operazioni militari in Cisgiordania e Gaza se i gruppi armati palestinesi cesseranno le violenze. Israele, puntualizza Sharon, non firmerà un accordo di cessate il fuoco con organizzazioni che considera terroristiche, ma "alla quiete risponderà con la quiete". Ma la "quiete" è solo un'illusione in questo martoriato angolo del mondo. In serata, due israeliani sono uccisi e un terzo ferito in un attacco palestinese condotto nei pressi del varco di Kissufim, nella Striscia di Gaza. Il terrorista viene a sua volta colpito a morte dal fuoco di soldati giunti poco tempo dopo sul luogo dell'agguato. Da Gaza la scia di sangue si estende in Cisgiordania. Un israeliano viene ferito da colpi di fucile sparati da miliziani palestinesi nei pressi di Hebron.


La massaia garante della TV
Franco Debenedetti su
La Stampa

Oltre all'ormai famigerato Sic che tutto consente, e al digitale terrestre che tutto assolve, la legge Gasparri contiene anche una norma di cui finora si è parlato poco. Sta nascosta nell'art. 8, dove si parla di "diffusioni interconnesse" tra le tv locali: il comma 3 le consente per 12 ore al giorno, mentre ora il limite è di 6 ore. Sembra un fatto tecnico, ma è una piccola rivoluzione. Perché con 12 ore si cattura l'85% di ascolto televisivo, (che corrisponde al 95% dell'ascolto venduto ai pubblicitari): poco più del 50% con le 6 ore di prima. In Italia esistono diverse reti locali a cui si accede con un numero sul telecomando: le si può connettere in modo che tutte trasmettano lo stesso programma. Questa norma, aumentando la quota di ascolto, le rende interessanti per la grande pubblicità, consente quindi di creare alcune reti nazionali, accessibili direttamente da telecomando. E' la stessa strada su cui Berlusconi mosse i primi passi: ma allora bisognava trasportare fisicamente le "pizze" a tutti i trasmettitori, oggi c'è il satellite, che, ricevuto il programma, lo irradia simultaneamente alle stazioni locali.
Anche negli Usa alle grandi reti non è concesso irradiare più del 35% del territorio: ma nessuno se ne accorge, perché grazie all'interconnessione i loro programmi si vedono in tutti gli Stati.

Naturalmente è possibile (possibile?) che Berlusconi, nella sua bulimia, abbia voluto quella norma per avere uno spazio in più da occupare. Ma quelle paroline dell'art. 8 comma 3 aprono anche ad altri la strada per entrare nel business della Tv. Infatti non si richiede più di acquistare canali, ma solo di realizzare un palinsesto da 12 ore. Per ridurre i costi fissi, si potrebbe anche qui copiare il Berlusconi d'antan. Lui si faceva pagare la pubblicità dalle aziende con una percentuale dell'aumento di fatturato che avrebbero consuntivato. Adesso, personaggi famosi della Tv, diventando imprenditori di se stessi, potrebbero pretendere, anziché un cachet fisso, una percentuale dei ricavi pubblicitari delle proprie trasmissioni.

Insomma la partita, per chi si muova con velocità e determinazione, è tutta da giocare. E' una provocazione immaginare un programma che dia spazio alla verve dei tanti esiliati dalla Tv, dai Biagi e Santoro proscritti in Bulgaria, fino agli ultimi censurati? Sul successo si potrebbe scommettere. In seguito, certo, se non si vuol calare, si è condannati a crescere. E per crescere bisogna intercettare fasce più ampie di pubblico, non solo chi va ai girotondi, ma anche chi vota a sinistra e resta a casa, non solo i fedelissimi dell'Unità, ma anche, spero, tanti tra i lettori della Stampa. Per aumentare il fatturato, sarà necessario aumentare la varietà, venire incontro a una più ricca tavolozza di gusti, a un più sfaccettato insieme di opinioni: perché gli acquisti di pannolini e di merendine non dipendono dalle preferenze politiche. E così ancora una volta si dimostrerà che è (anche) grazie alle massaie che si realizza il pluralismo.


Decreto calvizie
Maria Novella Oppo su
l'Unità

Dunque si svolgerà oggi l'annunciata sceneggiata governativa del decreto per salvare Rete 4. Con Berlusconi e Letta a scorrazzare nei corridoi di Palazzo Chigi, magari spintonandosi come scolaretti, mentre gli altri ministri fanno il lavoro sporco, anzi no, il lavoro domestico. Intanto, chissà come se la rideranno Silvio e Gianni. Berlusconi sicuramente racconterà le sue irresistibili barzellette, ormai famose in tutto il mondo. Come quella di fare un decreto che annulla una sentenza della Corte Costituzionale. Il prossimo passo sarà l'annullamento di tutta la Costituzione, aprendo enormi possibilità alle imprese della banda Bassotto. Infatti, se si può decretare contro la Corte Costituzionale, volete che non si possa cancellare per decreto una sentenzina qualsiasi? E se si salva Emilio Fede che non ha fatto niente di male, perché lasciare nelle peste Cesare Previti che ha fatto tanto bene? E poi, perché non sanare per decreto alcune storiche iniquità (ereditate dai passati governi comunisti), come per esempio l'ingiusta calvizie da cui è affetto Berlusconi? E infine, per non lasciare a mani vuote Maurizio Gasparri, perché non dotarlo per decreto di un cervello non dico normale, ma per lo meno digitale?


   23 dicembre 2003