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sulla stampa
a cura di P.C. - 22 dicembre 2003


Decreto tv e Parmalat ai rigori
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

Due fatti, entrambi del massimo rilievo, dominano in questi giorni l´attualità italiana: il decreto-legge che il governo si appresta a emanare sull´immediato futuro di Rete4 dopo che il presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge Gasparri per manifesta incostituzionalità; lo stato di bancarotta di Parmalat con tutto ciò che l´accompagna e che fa ritenere probabilissimi se non certi i comportamenti di fraudolenza dei suoi amministratori, dei proprietari, dei revisori dei conti.
Sono due fatti diversi tra loro. Il primo investe delicatissime questioni costituzionali e ha creato un´evidente tensione del presidente del Consiglio nei confronti del capo dello Stato. Il secondo mette in causa la natura del capitalismo italiano e internazionale. A differenza di quanto avviene in politica, dove la rifrazione all´estero delle anomalie domestiche è più lenta e indiretta, gli scandali di natura finanziaria che coinvolgono imprese e istituzioni operanti sul mercato fanno parte invece d´un sistema globale e determinano effetti globali specie se si tratta d´imprese multinazionali esposte anche con banche, fondi e società di revisione e di rating straniere. Il caso Parmalat ha questa dimensione e somiglia per molti aspetti al caso Enron che sconvolse un anno fa il mercato americano e non quello solo; ricorda anche altri casi esplosi in casa nostra, non tanto quello tuttora aperto della Cirio quanto quello più remoto di Gardini-Ferruzzi-Montedison. Per certi aspetti Tanzi sembra addirittura un fratello gemello di Raul Gardini; Cragnotti del resto discende da quella filiera.

La domanda ora è questa: si può intervenire con un decreto per rinviare l´esecuzione d´una sentenza della Corte costituzionale mentre la legge di sistema è di nuovo all´esame del Parlamento dopo il rinvio alle Camere di Ciampi?
Occorre ricordare che il decreto in questione deve essere firmato dallo stesso Ciampi per entrare in vigore. Può Ciampi firmarlo dopo aver rinviato la legge anche perché essa contravviene alla sentenza della Corte che dispone il trasferimento di Rete4 sul satellite? Può cioè Ciampi disfare con una mano ciò che ha appena fatto con l´altra? Non sembra possibile. Forse lo sarebbe se il decreto si limitasse a un brevissimo rinvio a data certa e non prorogabile per consentire all´azienda Mediaset di adottare le opportune provvidenze per i dipendenti in esubero, il cui numero comunque non è affatto di mille come si blatera ma di non più di 200. Ma a ben guardare un rinvio così motivato è del tutto inutile: la cassa integrazione e altri ammortizzatori esistono proprio per questo. Debbo qui ricordare che il referendum che abolì, dopo Chernobyl, l´uso del nucleare per la produzione di energia elettrica determinò la chiusura di alcune centrali e la sospensione immediata dei lavori per costruirne altre, eventi ben altrimenti importanti del trasferimento al satellite di una rete televisiva che diffonde soprattutto vecchie pellicole cinematografiche.

Nelle sue grandi linee il caso Parmalat è già abbastanza chiaro e si può descrivere in questo modo.
1. La società ha tuttora una solida base economica e produttiva. La redditività delle vendite nell´ultimo quinquennio ha oscillato intorno all´8 per cento; la produttività pro capite è il doppio del costo del lavoro per dipendente. La quota di mercato è decisamente soddisfacente.
2. I margini operativi non avrebbero comunque consentito una crescita dimensionale così spinta, in Italia e in varie parti del globo, se non facendo ricorso al finanziamento bancario, al mercato e a strumenti finanziari fortemente speculativi.
3. Il finanziamento bancario in Italia non è stato particolarmente elevato.
Attualmente l´esposizione delle banche italiane supera di poco la cifra di un miliardo d´euro (2mila miliardi di vecchie lire) non tale da poter destare l´allarme della "centrale rischi" gestita dalla Banca d´Italia.
4. D´assai maggior peso invece è stato il finanziamento erogato da banche estere: il gruppo City Bank, la Chase, la Bank of America e parecchie altre nonché banche d´affari e di intermediazione. Queste istituzioni creditizie sono polivalenti, concedono prestiti, curano collocamenti di titoli azionari e obbligazionari, assumono partecipazioni in proprio. La Parmalat ha fatto grande ricorso a questo tipo di "finanza creativa" garantendola spesso con giacenze di liquidità vincolate presso le banche creditrici.
5. Questa liquidità figura come tale nei bilanci consolidati del gruppo Parmalat. Da tali bilanci (lo riferisce su 24Ore Riccardo Gallo dopo aver preso in esame i consolidati dell´ultimo quinquennio) risulta che la liquidità ha un indice netto di 1.6 mentre l´indice netto del settore alimentare è dello 0.6. Ciò significa che Parmalat risulta molto liquida perciò le banche italiane erano sufficientemente tranquille sulla sua solvibilità. Purtroppo non sapevano che quella liquidità non era affatto liquida (mi si scusi il bisticcio) perché in larga misura vincolata a garanzia di prestiti ottenuti all´estero.
6. Le banche italiane e straniere, i sindaci, le società di revisione dei conti e le società di rating avrebbero dovuto tuttavia essere allarmati se avessero confrontato il livello apparentemente ottimo della liquidità con il livello dell´indebitamento a breve e medio termine. In rapporto al capitale sociale il debito finanziario a breve e medio termine sta infatti tra il 2.7 e il 3.8, molto superiore alla media del settore alimentare che si colloca intorno allo 0.7. "È mai possibile - si chiede Gallo e noi con lui - che nessuno in questi cinque anni abbia chiesto perché il gruppo Parmalat continuasse a indebitarsi pur mantenendo una liquidità inutile e assurda?".
Questa domanda è essenziale e ad essa occorrerebbe rispondere. Ma resta il fatto che nessuno, né in Italia né all´estero, l´aveva ancora mai formulata fino a quando i buoi non sono scappati dalle stalle. È addirittura anzi accaduto che una grande banca europea come la Deutsche Bank abbia assunto un altro 2.5% di partecipazione azionaria in Parmalat appena pochi mesi fa. Si erano studiati i bilanci alla Deutsche Bank? Non aveva capito come invece ha capito Gallo che c´era in essi qualcosa di molto oscuro?
7. Infine: nell´ultimo bilancio Parmalat è inscritto un credito di 4 miliardi di euro verso la Bank of America. Quest´ultima ha negato puramente e semplicemente che tale credito sia mai esistito. E poiché non è pensabile che un istituto americano di quell´importanza menta spudoratamente, l´alternativa è che menta Parmalat. Saremmo in tal caso in presenza d´una truffa vera e propria che vede coinvolti tutti gli amministratori, i sindaci, i revisori del gruppo. Il reato sarebbe ancora più grave se la falsa scrittura in bilancio fosse servita a occultare prelevamenti degli amministratori per scopi privati e non societari.
Insomma un caso abnorme d´inettitudine, fraudolenza, omertà tra tutti gli organi societari e una vera e propria Waterloo dei controlli previsti dalle leggi italiane e straniere.



Capitalismo da regolare
Michele Salvati sul
Corriere della Sera

Il capitalismo è un modo d'organizzare l'economia e la società la cui accettazione diffusa e convinta non è mai garantita in modo permanente, come se si trattasse di un ordine naturale, e la sconfitta del suo grande avversario storico, il comunismo, non rende questa osservazione meno vera. Anche se tutto fila liscio, già il suo normale funzionamento genera disagi e sofferenze che non sono facili da accettare per chi ne è coinvolto: sono proprio i caratteri più dinamici del capitalismo, la sua capacità di mettere a frutto il progresso tecnico e la divisione del lavoro su scala mondiale, a generarli. Se un settore produttivo deve contrarsi perché non regge alla concorrenza di analoghi prodotti esteri più a buon mercato, o di prodotti diversi ma più appetibili, o di tecnologie più avanzate, presto o tardi se ne avvantaggiano tutti; ma intanto, anche con gli "ammortizzatori sociali" più generosi, c'è qualcuno che ne soffre.
E' per questo motivo che nelle democrazie capitalistiche avanzate si è sviluppato un delicato bilanciamento tra flessibilità e protezioni, in modo da contemperare l'esigenza di dinamismo dell'economia con la domanda di sicurezza della società. Ed è proprio questo bilanciamento a essere oggetto di un continuo contendere tra le principali forze politiche di ogni Paese.
Ma non sempre tutto fila liscio. A volte si scatenano crisi generali o crisi di grandi settori, in cui la domanda di prodotti e servizi cade al di sotto di quella necessaria a sostenere l'offerta esistente, e dunque la produzione e l'occupazione: in questi casi l'intero sistema di ammortizzatori viene messo a dura prova. Quando tutto fila liscio, quando non ci sono crisi generali, le crisi riguardano singole imprese e assumono particolare rilievo se tali imprese sono molto grandi, occupano molti lavoratori e hanno un ruolo notevole nel sostenere l'economia e la competitività del Paese. Dal punto di vista dell'accettazione del sistema, della sua legittimità agli occhi dei cittadini, bisogna però distinguere. Di solito la crisi è generata da scelte degli imprenditori che, ex post , si rivelano sbagliate: questo è il caso Fiat. Si tratta di sbagli inevitabili in via generale, poiché l'imprenditore, facendo un investimento, scommette - deve scommettere - su un futuro distante e incerto e a volte la scommessa può andar male. Buoni ammortizzatori sociali, un diritto societario che sia capace di identificare e sanzionare le responsabilità di proprietari e manager, dovrebbero però essere in grado di distribuire i costi in un modo che venga percepito dai cittadini come accettabile. In non pochi casi, tuttavia, - Enron negli Stati Uniti, Cirio e Parmalat da noi - la crisi è prodotta da truffe, illegalità, disattenzioni colpevoli, in cui sono coinvolti sia i manager dell'impresa, sia soggetti che con essa hanno avuto rapporti (banche, società finanziarie, società di revisione e consulenza, autorità pubbliche) e rivela un sistema di leggi e di regole, nazionali e internazionali, inadeguato e disattenzione grave delle autorità preposte alla vigilanza: anche il lettore più disattento cono sce il nome delle Cayman Islands e probabilmente programma di farci una vacanza. Gli Stati Uniti hanno reagito al caso Enron inasprendo il sistema di norme e sanzioni che regolano l'attività dell'impresa e dei soggetti finanziari e tecnici, pubblici e privati, che con essa vengono in contatto. Da noi la legislatura è partita depenalizzando il falso in bilancio. È dubbio, tra i due Paesi e i due governi, quale ami maggiormente il capitalismo. Lo ama di più chi - circondandolo di regole e sanzioni - cerca di evitare il discredito che consegue a casi come quelli che ho ricordato o chi gli lascia briglia sciolta nell'illusione che questo ne scateni i famosi spiriti animali? E se l'assenza o la violazione di regole sono tollerate in alto, con quale faccia si può pretendere che siano rispettate in basso? Come si può accettare che si applichino con fermezza le norme che puniscono chi organizza blocchi stradali o scioperi selvaggi nei servizi pubblici e si tolleri l'assenza di norme e controlli severi, o la mancata applicazione di quelli esistenti, in materia d'impresa? Gli operai dell'Alfa di Arese e i tranvieri di Milano e altre città commettono violazioni di legge per difendere un posto di lavoro o richiedere salari più adeguati. Sbagliano, certo. Ma nel secondo caso la debole regolazione o la scarsa vigilanza, le truffe e gli arricchimenti illeciti che queste consentono, provocano un danno assai maggiore: compromettono la fiducia nel sistema in cui viviamo.


Parmalat, la parola passa ai magistrati
Susanna Ripamonti su
l'Unità

Il calendario è tornato indietro di dieci anni per il pm milanese Francesco Greco. È tornato agli anni cupi in cui si occupava della maxi-tangente Enimont e nel suo ufficio, la parete sopra alla scrivania era tapezzata da una complicata mappa che inseguiva i percorsi carsici della finanza occulta del gruppo. Di nuovo è alle prese con operazioni fantasma, bilanci falsi, costruiti su crediti inesistenti e una voragine nelle casse di Parmalat, che ogni giorno assume dimensioni più inquietanti. Adesso si scopre che all'appello non mancano solo i 4 miliardi di euro che si sono inabissati nelle isole Cayman, e che in teoria dovevano apparire nei bilanci della Bonlat Financing Corporation, una controllata del gruppo. Ci sono debiti per altri 3 miliardi di euro che erano stati virtualmente cancellati, ma che nessuno ha rimborsato e così il buco arriva a 7 miliardi di euro, tradotto: 14 mila miliardi delle vecchie lire. E il conto è appena iniziato.

Nel frattempo si è scoperto che Fausto Tonna, l'ex direttore finanziario di Parmalat, non è affatto una Primula Rossa. Qualche giornale lo dava per disperso in Venezuela, lo stesso avvocato Umberto Tracanella, recentemente cooptato nel Cda di Parmalat, aveva dichiarato alla stampa: "Speriamo che torni e che lo faccia presto". Ma dalla sua villa di Collecchio, lui che è indicato come l'"ingegnere" delle labirintiche costruzioni finanziarie del gruppo, ha fatto sapere che non si è mai mosso. "Ma quale fuga - ha dichiarato all'ANSA il manager-. Sono assolutamente reperibile e non mi voglio scaldare di più".
Il braccio destro di Callisto Tanzi non si tira indietro: "Sono stato in Parmalat per tanti anni e penso di aver fatto quello che dovevo fare". Ma dice anche di non essere autorizzato a parlare a nome del gruppo che ha ormai lasciato. Glissa così sulle richieste di chiarimenti sugli investimenti nel fondo Epicurum delle Cayman e sulla Bonlat, con la Bank of America che ha disconosciuto un documento che attestava l'esistenza di liquidità per 3,95 miliardi di euro. "Mi può chiedere tutto - ha detto - ma nulla su Parmalat perchè non sono autorizzato. Servirebbe un'autorizzazione della società, ma non mi viene in mente di commentare certe cose con un giornalista. Ormai dal 28 marzo, se non prima, ho lasciato la carica di direttore finanziario di Parmalat". No comment anche sull'ulteriore buco di 3 miliardi di euro, dovuto al mancato riacquisto di bond. Calisto Tanzi ne avrebbe parlato alcune settimane fa ai manager della Blackstone Group, uno dei nomi più noti della finanza Usa pronto a entrare nel capitale della società alimentare, ma Tonna ha risposto: "Non ne so nulla. O meglio: so cos'è la Blackstone, ma sono impossibilitato a commentare".
La procura di Parma intanto affila le armi e il procuratore Giovanni Panebianco ha annunciato che la strategia da seguire "sarà stabilita con la collaborazione di consulenti" provenienti dall'Università Bocconi di Milano, mentre attende dalla Consob i verbali delle deposizioni rese dagli interessati.


Una multinazionale?
Era la "fabbrica" delle carte false
Vittorio Malagutti sul
Corriere della Sera

Si allarga lo scandalo Parmalat: il buco potrebbe essere superiore ai 7 miliardi di euro
Macchè contratti derivati, swap, futures, opzioni e quant'altro ha partorito negli anni la fertile mente dei finanzieri. Certo, ci sono anche quelli a gonfiare il conto delle perdite. In estrema sintesi, però, il gigantesco crac della Parmalat può essere riassunto in due sole parole: carte false. Montagne di carte false. Sono falsi gli estratti conto bancari. Sono false le note di deposito presso gli istituti di credito. Sono falsi i contratti di licenza e perfino le cambiali. Sembra il fallimento del droghiere all'angolo e invece no: stiamo raccontando il crac dell'ottavo gruppo industriale italiano. Il buco accertato nei conti della Parmalat ha già raggiunto i 7 miliardi di euro, ma con ogni probabilità le dimensioni della catastrofe sono ancora maggiori. In queste ore gli investigatori stanno esaminando una quantità enorme di documentazione sospetta. Per esempio, ci sono contratti di licenza per il marchio Santal concessi ad aziende come la Boston holding, la stessa che rilevò alcune attività messe in vendita da Parmalat negli anni scorsi. Ebbene, l'inglese maccheronico di queste carte sembra lontano mille miglia dallo stile degli studi legali internazionali che si occupano abitualmente di questi affari.
CARTE FALSE - Fatti marginali? Mica tanto. Sulla base di queste licenze fasulle il gruppo guidato da Calisto Tanzi riusciva a mettere a bilancio ogni anno decine di milioni di euro di proventi. E che dire delle promissory notes, le cambiali intestate anche a grandi aziende internazionali? Carta straccia, pure quella. Che però, nel bilancio Parmalat veniva valutata oltre un miliardo di euro. Per fabbricare questi documenti fasulli a Collecchio utilizzavano anche la carta intestata delle società fornitrici.
Vi sembra pazzesco? E allora che dire dell'ormai famigerato fondo Epicurum delle isole Cayman, quello che ha fatto da detonatore a tutto lo scandalo? Il fondo esisteva, certo. Solo che la Parmalat non ci aveva investito soldi, ma titoli. Falsi, anche quelli. Capirete allora perché era un po' difficile per Epicurum restituire al mittente quell'investimento come pure si era impegnato a fare.
Insomma, si stanno delineando i contorni di una gigantesca frode e buona parte della trama è ambientata al caldo
sole delle isole Cayman, dove ha sede la Bonlat, cassaforte off shore della Parmalat. Da questa società transita l'investimento in Epicurum. Qui approdano buona parte dei titoli falsi. Ed è ancora la Bonlat a gestire il falso riacquisto di bond per 2,9 miliardi messo a bilancio dalla Parmalat per tagliare i debiti. Il copione ovviamente era scritto a Collecchio. Con un unico scopo: mascherare le enormi perdite di gestione del gruppo.
In sostanza, le aziende controllate da Parmalat in ogni angolo del mondo, frutto di una faraonica e costosissima campagna acquisti condotta tra il 1997 e il 2001, viaggiavano, con poche eccezioni, in perdita cronica. Anno dopo anno il passivo del gruppo aumentava. "Che fare?", si devono essere chiesti a Collecchio. Risposta semplicissima: aumentiamo l'attivo. Difficile? Costoso? Macché: se le attività non ci sono, basta inventarsele. E allora via con la fabbrica dei falsi. Ce n'era davvero per tutti i gusti, come abbiamo visto. E le sorprese, probabilmente, non sono ancora finite.
D'altronde l'inchiesta giudiziaria è soltanto ai primi passi e ancora deve essere ascoltato dagli investigatori Fausto Tonna, il braccio destro di Tanzi, l'uomo dei numeri che potrebbe essere in grado di fornire molte spiegazioni ai magistrati. Due domande però, fra le tante, a questo punto della vicenda assumono particolare importanza. La prima: possibile che in tanti anni di malversazioni, di falsi sistematici, nessuno dei controllori si sia mai accorto di nulla? Nel consiglio di amministrazione della Parmalat siedono avvocati, banchieri e manager di grande esperienza. Poi c'è il collegio sindacale e le società di revisione, Deloitte Touche, quella principale, e Grant Thornton, che dava l'ok a quasi metà dell'attivo del gruppo, compresa la Bonlat delle Cayman. Non solo: per molti anni e fino al 1998, il revisore principale di Parmalat era proprio la Grant Thornton.
FRODE CHE DURAVA DA ANNI - Da quanto emerge dalle prime sommarie verifiche, la gigantesca frode targata Parmalat durava ormai da molti anni. Eppure solo nell'ottobre di quest'anno i revisori hanno pubblicamente formulato qualche dubbio. E' bastato quello per far crollare la diga. Nel giro di poche settimane Parmalat si è avvitata in un crac clamoroso. Nuova domanda: quando esattamente Tanzi ha alzato bandiera bianca svelando ai suoi interlocutori le dimensioni reali del disastro? Come rivelato ieri dal Corriere , il patron del gruppo mise le carte in tavola il 9 dicembre (lo stesso giorno in cui viene annunciata la nomina a consulente di Enrico Bondi), durante un incontro con i manager del gruppo americano Blackstone, interessato a rilevare Parmalat per ristrutturarla. Il progetto era pronto, ma Tanzi, che in quei giorni aveva avviato contatti con banche e Consob, preferì lasciar perdere. Il mercato fu informato sulle reali dimensioni del problema venerdì 19 dicembre. Nel frattempo il titolo Parmalat, e anche i bond quotati in Lussemburgo, fecero segnare alcuni rialzi e ribassi eccezionali.


"Lotte esasperate, ma spia di un malessere più vasto"
Intervista a Piero Fassino
Goffredo De Marchis su
la Repubblica

ROMA
- Devono evitare forme di lotta "esasperate e ingiustificate". Stare attenti a non creare un "corto circuito di cittadini che si mettono contro altri cittadini".Poi, convocare le assemblee, discutere ed esprimere un giudizio sull'accordo siglato dai sindacati, "non dimenticando che nessun contratto è l'ultimo e che quello che non si è ottenuto oggi, è possibile continuare a rivendicarlo". Ma nella protesta ad oltranza degli autoferrotranvieri Piero Fassino coglie un aspetto "che va oltre il problema sindacale". "Non c'è una sollevazione generale contro questi lavoratori, non sono isolati. Chi aspetta il pullman per ore non è contento, è ovvio, ma non pochi si riconoscono nelle motivazioni di quella lotta perché vivono lo stesso disagio". Insomma, l'agitazione "è la spia di un malessere più profondo che attraversa la società italiana".

Siamo sicuri che la gente stia dalla parte di chi la lascia a piedi da giorni?
"È normale che un cittadino appiedato s'irriti e si chieda "che c'entro io". Però mi hanno colpito le risposte della gente. Molti sono esasperati, ma ho sentito anche persone anziane dire senza rabbia: "Vado a piedi, forse non hanno solo torto". Di fronte a una lotta con effetti molto pesanti la reazione è più problematica. Non vedo soltanto indignazione o un'incomprensione assoluta. L'insicurezza è uno stato d'animo che tocca una vasta parte della società, più larga di quella rappresentata dai ferrotranvieri".

Cioè, i cittadini appiedati e i conducenti che scioperano sono sulla stessa barca?
"Va colta la novità di un disagio che non appartiene più solo a chi è sotto la soglia di povertà, ma riguarda milioni di famiglie "normali". Lo dicono i dati sul risparmio che non c'è più. Ormai, il 75 per cento delle famiglie italiane spende il proprio reddito interamente per la vita di tutti i giorni. Riportiamo delle cifre, per essere più chiari: un metalmeccanico della Fiat con 35 anni di anzianità non arriva a 1000 euro al mese, una lavoratrice tessile con 25 anni di servizio guadagna 750 euro, una bibliotecaria della terza università di Roma con laurea e master sfiora appena i 1000 euro. Per non parlare dei tanti pensionati che devono farcela con 5-600 euro. Sono quelli che prendono l'autobus...".

Come nasce quello che lei definisce un "malessere più generale"?
"Beh, tutti gli istituti di ricerca e di sondaggio dicono che aumenta la preoccupazione: per i figli, per la tutela dei diritti, per la riduzione dei servizi sociali. C'è più incertezza, un maggiore senso di precarietà. Tocchiamo con mano il fallimento del governo. La forza del messaggio di Berlusconi era stata quella di promettere di più a tutti. Invece sta succedendo il contrario. In due anni e mezzo il Cavaliere si è mangiato il credito che aveva conquistato in campagna elettorale. E non vedo cambi di rotta all'orizzonte, anzi. Abbiamo assistito a una conferenza stampa di fine anno surreale. Il presidente del Consiglio ha parlato di un Paese che non c'è. Mi ha colpito la distanza dal vero stato d'animo del Paese".

Sarebbe il colmo ascoltare un premier pessimista. Anche il presidente della Repubblica Ciampi ha condannato la "retorica del declino".
"Ciampi ha ragione a dire che l'Italia è un grande Paese con enormi possibilità e risorse. È la verità. Ma un grande Paese avrebbe bisogno di un grande governo, invece il nostro è un piccolo governo. Berlusconi dice: dormite sonni tranquilli, la lampada del mio ufficio è sempre accesa, ci penso io, fidatevi. Ma in questo momento bisognerebbe dire: pensiamoci insieme, chiamiamo a raccolta tutte le energie dell'Italia per uscire dalle difficoltà".

I confederali firmano, i lavoratori continuano a scioperare. C'è uno scollamento tra la base e il sindacato?

"È del tutto normale che lavoratori esasperati possano contestare anche le scelte sincadali. Tuttavia il sindacato ha dato prova di responsabilità, si è fatto carico di risolvere un contratto fermo da due anni e di mettere fine ai disagi dell'opinione pubblica. Dico anche ai lavoratori che nessun contratto è l'ultima spiaggia, quello che non si è ottenuto oggi lo si potrà ottenere domani con nuove piattaforme. Quale che sia il giudizio sul contratto, non si esasperi il confronto con i cittadini".

L'opposizione punta il dito contro il governo. E poi?
"La spia di un disagio diffuso è accesa. Richiede un cambiamento radicale delle posizioni dell'esecutivo in materia economica. E al centrosinistra impone l'accelerazione di una proposta alternativa che intercetti il disagio e dia le risposte giuste. Questa è la strada, altrimenti può esserci un crollo di fiducia senza ritorno".


Caos di Natale
Lorenzo Mondo su
La Stampa

Cominciati a Milano, gli scioperi selvaggi degli autoferrotranvieri si sono estesi a Torino, a Genova, a Brescia. A Bari e a Foggia si sono camuffati dietro massicce presentazioni di certificati di malattia, firmati da medici compiacenti e non interessati, per parte loro, a rinnovi contrattuali. Anche i dipendenti dell'Alitalia, notoriamente disastrata, hanno pensato bene di emulare il radicalismo degli autoferrotranvieri. E dunque, alla vigilia di Natale, per l'Italia è stato caos in terra e nei cieli. E' un quadro sconfortante che segnala un acuto disagio sociale, un'esasperazione che s'inserisce nel clima di una crisi diffusa e ramificata. Aziende reputate solidissime che saltano all'improvviso, borse che manifestano i brividi di una febbre insidiosa e recidiva. Stipendi tartassati dall'inflazione reale e dagli squilibri connessi all'introduzione dell'euro, dalla protervia di troppi commercianti impuniti e gratificati, suprema beffa, dai ricorrenti condoni.

In questa situazione inquietante si è registrata nel mondo del lavoro l'infrazione di tutte le regole, una lotta senza quartiere che non riesce più a distinguere tra alleati e avversari. Un menare fendenti a casaccio. Certo, c'era un contratto che da due anni e mezzo attendeva di essere firmato, una successione di scioperi "corretti" che non avevano messo termine alle manovre dilatorie della controparte. E si prova una punta di vergogna pensando all'esiguità di certi aumenti su cui le parti si sono accapigliate. Ma questo non giustifica un comportamento che danneggia oltre misura i cittadini, gente che non fruisce di maggiori guadagni e che si dibatte in difficoltà anche superiori a quelle di chi sta scioperando. E' con loro, soprattutto, che il patto delle fasce orarie protette dev'essere osservato, senza costringerli a ulteriori affanni e dispendi nelle città ridotte a caotiche lande. Gli scioperanti sostengono che soltanto con la durezza della lotta sono riusciti a trovare visibilità. In realtà, mostrano di essere suggestionati in modo acritico, superstizioso, dall'esposizione mediatica. E' vero, così facendo trovano maggior eco nella tv e nei giornali, ma a quale prezzo? Le loro buone ragioni vengono offuscate e schiacciate dai disagi e dalle proteste dei cittadini tenuti in ostaggio. Perdono la loro solidarietà, mentre non incidono in modo significativo sulle aziende, già abbastanza danneggiate dalle ore programmate di sciopero.



Colpo grosso della Digos: l'archivio Br
Gianni Cipriani su
l'Unità

L'omicidio D'Antona e quello Biagi. Ma anche gli attentati dei Nipr e Roma; dei Npr alla Cisl di Milano e dei Npc a Firenze. Tutti attentati collegati tra di loro. E tutti organizzati dalle Brigate Rosse che, a seconda della “qualità” dell'obiettivo cambiavano nome. La sigla “vera” Br-Pcc per gli omicidi. Quelle satellite per le azioni dimostrative, che servivano anche a “far crescere” sul campo la nuova leva di militanti rivoluzionari che avrebbero dovuto entrare a pieno titolo nell'organizzazione. E servivano - ovviamente - anche a far credere all'esterno che i brigatisti godevano di un consenso e di un appoggio che, in realtà, non avevano. La prima analisi dei documenti trovati nella cantina di via Montecuccoli dimostra proprio questo: una organizzazione composta da due filoni: quello romano e quello toscano.

Insomma, si è trattato davvero di un'operazione importantissima. E forse, in questo caso, non c'è nulla di autocelebrativo nella decisione di promuovere questore "per meriti straordinari" il capo della Digos romana, Franco Gabrielli. Il lavoro dell'Ucigos è stato tecnicamente eccellente, come riconoscono tutti gli esperti dell'antiterrorismo. Ma saranno le prossime ore decisive per risolvere la parte mancante del “giallo”. Se Diana Blefari Melazzi è latitante da più di un mese, questo significa che l'organizzazione, forse, dispone di qualche altro quadro coperto in grado di garantire protezione. Probabilmente in clandestinità ci sono altri brigatisti “regolari” che forse dispongono di un minimo di basi e di armi. E forse nascondo la pistola utilizzata per i delitti D'Antona e Biagi. Forse scavando intorno alla figura della Melazzi potrebbe saltare qualche altro “contatto” o fiancheggiatori. Così come è probabile che presto si identifichino i “contatti” che erano tenuti da Cinzia Banelli per conto dell'organizzazione in Toscana. Insomma, spiegano al Viminale, si è a buon punto. Ma non è ancora del tutto finita.


Due bombe vicino casa di Prodi
Marco Marozzi e Luigi Spezia su
la Repubblica

BOLOGNA
- Due esplosioni nella tarda serata di ieri sotto la casa di Romano Prodi, in pieno centro di Bologna. Ordigni rudimentali fabbricati con due pentole a pressione e due bombolette di gas da campeggio sono scoppiati a distanza di venti minuti l'uno dall'altro (con la tecnica della trappola) in due cassonetti dell'immondizia all'angolo fra Strada Maggiore e Via Gerusalemme, la stradina del centro storico dove abita il presidente della Commissione europea con la moglie. L'allarme è scattato alle 22, dopo l'esplosione della prima bomba tutto il centro storico è stato chiuso: polizia e carabinieri hanno steso un cordone sanitario nelle vie principali, la stessa Strada Maggiore, via San Vitale, via Santo Stefano.

Diversi chilometri quadrati della città sono stati isolati. Gli autobus deviati, le macchine bloccate sui viali o sotto le Due Torri. La prima bomba è sembrata servire da richiamo per la successiva, esplosa una ventina di minuti dopo con una fiammata alta quattro metri che ha raggiunto il soffitto dei portici accanto ai cassonetti e ha diffuso un fumo molto denso sotto le arcate. Il presidente della Commissione europea e la moglie in quel momento erano fuori casa, a cena da amici.

"È stata un'azione dimostrativa, non volevano colpire Prodi, piuttosto l'obiettivo era la polizia, gli uomini della scorta sotto casa del presidente - dice Marcello Fulvi, questore di Bologna - Non hanno colpito in questura perché troppo rischioso. Un luogo come questo è stato scelto anche per l'impatto mediatico. Ma la trappola era per noi". L'attentato viene attribuito a gruppi anarchico insurrezionalisti. "La loro firma sta nel tipo di congegno esplosivo confezionato e già utilizzato altre volte", spiega Fulvi. Prime ipotesi, indagini che seguono tuttavia un solco preciso. Primi interrogatori dei testimoni nella notte.

Intanto in Strada Maggiore arrivava il questore di Bologna, Marcello Fulvi. Sono arrivati anche gli uomini della scorta di Prodi per capire che cosa stava succedendo. Si sono aperte finestre sulla strada, uno dei principali accessi al centro storico. Ma la gente che si era affacciata è stata immediatamente invitata a ritirarsi dai poliziotti e dai carabinieri. Tra le due esplosioni sono passati una ventina di minuti, come se fossero state cadenzate la prima per destare allarme e richiamare gente, la seconda per colpire le persone raccoltesi attorno al luogo dell'attentato.

Il presidente della Commissione europea non aveva avuto minacce di nessun tipo. Gli inquirenti non si sbilanciano ma l'ipotesi dell'attentato di matrice anarchico-insurrezionalista si affaccia con forza. Nei cassonetti bruciati sono stati trovati frammenti di due pentole a pressione e di due bombolette di gas da campeggio, servite per confezionare gli ordigni che sono stati fatti esplodere. Oggetti e tecnica che a Bologna ricordano attentati alla questura e alla sede Ibm firmati negli anni scorsi dal gruppo anarchico-insurrezionalista "Cooperativa fuochi e affini".


Gli equilibri della democrazia
Stefano Folli sul
Corriere della Sera

I primi due anni della legislatura in corso sono stati scanditi da una sorta di "pace istituzionale": da un corretto ed equilibrato rapporto fra il Quirinale e Palazzo Chigi, fra la presidenza della Repubblica e la presidenza del Consiglio. Per meglio dire, i vertici istituzionali, comprendendovi anche le presidenze delle due assemblee legislative, hanno agito nel rispetto delle reciproche prerogative e questo ha fatto bene all'Italia. In concreto significa che il Quirinale si è guardato dall'interferire nel lavoro del governo e della sua maggioranza parlamentare. Varie leggi discutibili e persino autolesionistiche (le rogatorie, la Cirami...) sono state approvate e sono entrate in vigore.

L'influenza del capo dello Stato si è fatta sentire sotto forma di persuasione morale, ma al dunque - come è giusto - nulla ha impedito al governo di agire secondo la propria volontà e convenienza politica. E di fare anche i suoi errori. Non è poco. L'equilibrio tra le istituzioni è indizio sicuro della qualità e soprattutto della maturità di una democrazia; per cui c'è da esser soddisfatti se nell'Italia di oggi non si sono ripetuti gli eventi oscuri e confusi dell'Italia del periodo '94-95. La domanda è: perché mettere a rischio questo patrimonio che si è consolidato nel tempo anche grazie a un gentiluomo disinteressato qual è Carlo Azeglio Ciampi, con la sua fede nel bipolarismo e nel destino europeo del Paese?

L'interrogativo si è posto ieri, ascoltando la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio. Vi si avvertiva la tentazione, ricorrente in Berlusconi, di appellarsi all'investitura popolare (sono stato votato, quindi governo) per sottrarsi ai richiami istituzionali, vissuti come un impaccio. E' un sentiero scivoloso lungo il quale, ad esempio, il conflitto d'interessi cessa di costituire un problema in se stesso e diventa una semplice "favola metropolitana". Qualcosa che non esiste in quanto - se comprendiamo bene - la gente lo ha cancellato dando la maggioranza dei voti alla Casa delle Libertà.

Sono palesi i rischi della posizione. Il maggiore è di inaugurare una velenosa stagione di contrasti fra istituzioni. Dopo il rinvio alle Camere della legge Gasparri si può temere che tale rischio sia cresciuto. E' singolare, ad esempio, che il presidente del Consiglio non si sia reso conto della sostanza offensiva di un suo giudizio, in base al quale il capo dello Stato avrebbe respinto la legge sulle tv perché "messo in difficoltà" dalle pressioni "della corporazione degli editori".

Da una parte i diritti della maggioranza, che tutto può; dall'altra i complotti delle "lobby", a cui si piegano le istituzioni. Se questo è il messaggio di fine anno del premier, nonché la sua visione del rapporto fra potere politico e informazione, non c'è da rallegrarsi troppo in vista del 2004. Viceversa, il rifacimento della legge Gasparri offre un'ottima opportunità per rafforzare quel patrimonio istituzionale che ha segnato quasi metà della legislatura. Nell'interesse di tutti.

Non vogliamo credere che si voglia seguire un'altra via, all'insegna del rancore e della rivalsa. L'errore più grave - ma siamo certi che non sarà commesso - consisterebbe nel mescolare tra loro, in modo improprio, piani e problemi diversi. Un conto è la legge Gasparri, un altro è la voragine Parmalat. Si può e si deve agire per rassicurare i risparmiatori; per indagare sulle cause di un disastro che è una macchia per l'industria italiana; per rafforzare il sistema dei controlli sul piano interno e internazionale. Si deve fare tutto questo e altro. Ma sarebbe fatale l'idea di regolare certi conti in sospeso tra governo e Banca d'Italia. Non è tempo di rivincite, ma di chiarezza. In gioco, una volta di più, c'è l'immagine dell'Italia.


Lo show di Berlusconi offende il Quirinale
Pasquale Cascella su
l'Unità

La meteorologia non c'entra con il gelo calato tra il Quirinale e palazzo Chigi, alla vigilia del varo del decreto legge per Rete4. La disponibilità a controfirmarlo, il capo dello Stato l'aveva data anche per dimostrare che il rinvio della legge Gasparri alle Camere era un atto di correttezza istituzionale.
Ha atteso la conclusione del semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo, Carlo Azeglio Ciampi, pur di evitare che il rinvio apparisse un gesto di ostilità personale, dando per scontata la contrarietà e persino l'ostilità del premier-tycoon. Ma non l'offesa continua e gratuita. Alla prima scortesia, quella dell'arrogante annuncio di Berlusconi di non aver letto e di non voler leggere il messaggio motivato della sospensione della legge, dalle stanze del Quirinale più vicine allo studio del presidente era partito un riservato richiamo all'indirizzo di Gianni Letta, l'ascoltato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E, in effetti, il premier ha provato a metterci una toppa nella conferenza stampa di fine anno, anche se è risultata peggiore del buco ("Il messaggio l'ho letto sui giornali"). Ma chi al Quirinale, per dovere d'ufficio, seguiva la diretta televisiva è vieppiù rimasto basito nell'ascoltare la repentina insinuazione che l'intervento presidenziale sulla Gasparri sarebbe stato provocato dalla "diffuse pressioni" della "corporazione degli editori".
Ma prima che dai suoi collaboratori, Ciampi ha avuto la dimensione dell'oltraggio dalle tante telefonate di solidarietà, continuate per l'intera giornata, da autorità, personalità del mondo dei media e da esponenti politici. Con i più il presidente si è mostrato cauto e riservato. È sbottato, però, con un personaggio della maggioranza molto vicino a Berlusconi che provava a ridimensionare la portata della maligna allusione: a dar ascolto alle voci che si rincorrono nei palazzi che contano, il combinato disposto del ragionamento di Berlusconi (il conflitto di interessi è una favola metropolitana, quello vero è degli editori della carta stampa, che premono sul Colle presentando la legge Gasparri in modo differente dalla realtà di giornali che non si non vendono e non hanno pubblicità, e non vendono perché sono elitari ma anche perché hanno cambiato posizione e appoggiano l'opposizione) è suonato all'orecchio di Ciampi come vergognoso, se non spudorato. Questo sì tale da rendere "difficile" la partita del decreto per Rete4. Anche per via della precisazione contabile del premier nel quantificare la perdita "di pubblicità da 500 a 12 miliardi" (calcolo in lire, per la discrasia con l'euro) con il trasferimento sul satellite della rete. Come dire che oltre al soldato Emilio Fede e un po' di posti di lavoro, c'è da salvare un particolare interesse.

Quindi, non solo il rispetto istituzionale, verso Ciampi e la Corte costituzionale, ma la stessa logica politica vorrebbe che il decreto non aggirasse l'ostacolo (ritenendolo a perdere, ovvero scontando che non sia approvato dal Parlamento nei 60 giorni canonici perché surrogato dalla riapprovazione a tappe forzate della Gasparri così com'è, o quasi) ma cominci a recepire i rilievi del presidente della Repubblica. Aprendo, così, la strada a una revisione organica della legge della discordia, che il Quirinale vorrebbe fosse percorsa dialetticamente con l'opposizione, nello spirito del primo solenne messaggio alle Camere sulla libertà e il pluralismo dell'informazione. Un altro boccone amaro per Berlusconi, dopo che Fini si è pronunciato per raccogliere "nello spirito e alla lettera" i rilievi di Ciampi. E Marco Follini ha persino anticipato a oggi l'esecutivo per essere sostenuto dall'Udc nel dichiarare chiusa la fase della "disciplina di coalizione" in materia. Manca la parola interessata di Berlusconi. Quella che vale, appunto, 488 miliardi di vecchie, care lire.


   22 dicembre 2003