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sulla stampa
a cura di G.C. - 20 dicembre 2003


La Parmalat al collasso
Redazione de
la Repubblica

MILANO - Enrico Bondi rimane presidente e amministratore delegato di Parmalat con pieni poteri. Ed al termine della seduta, nella tarda serata di oggi, ha ricevuto il mandato di informare l'autorità giudiziaria dei fatti accaduti: fra questi, anche il disconoscimento, da parte di Bank of America, del documento del 6 marzo scorso, in cui Bonlat dichiarava di avere titoli e liquidità in essere presso la Bank of America per 3950 milioni di euro.

E' l'ultima tappa di una vicenda che, per quanto riguarda i riflettori puntati di Borsa e autorità, ha registrato il primo passo nel febbraio scorso, con l'emissione, da parte del gruppo agroalimentare di Collecchio (il quarto in Europa, subito dietro i giganti del settore) di un bond da 300 milioni di euro che il mercato ha bocciato, infliggendo al titolo in Borsa un calo del 9 per cento in una sola seduta e costringendo la società a ritirarlo. Un fatto che ha fatto drizzare le orecchie agli investitori, e anche alle autorità di controllo del mercato.

Ma ci sono voluti parecchi mesi, altre emissioni di bond, una delle quali sottoscritta in settembre, da Deutsche Bank, che in novembre è salita al 5,15 per cento del capitale, e soprattutto il segnale d'allarme del rinvio da parte della Deloitte & Touch, della certificazione dei conti della semestrale, l'11 novembre ( perché il valore dell'investimento nel fondo Epicurum nelle Cayman non era certo) per cominciare a fare chiarezza. Da quel momento è stato tutto un rincorrersi di richieste di chiarimenti da parte della Consob, di dichiarazioni del gruppo che ribadiva la sua solidità, e la sua liquidità.

Ma il Fondo Epicurum, che aveva annunciato di voler liquidare la partecipazione di Parmalat, e si era impegnato a farlo entro i primi di dicembre, non fa fronte all'impegno. Il titolo ha ormai perso quote importanti del suo valore in Borsa, scendendo prima al nominale, un euro, e poi ancora più giù fino ai 30 centesimi di oggi, dopo che la Bank of America ha negato di intrattenere alcun conto con la Bonlat, la società delle isole Cayman che fa capo al gruppo Parmalat e che aveva dichiarato in un documento del 6 marzo di avere in essere titoli e liquidità corrispondenti con questo istituto per 3950 milioni di euro.



Iraq ed Europa, Ciampi smentisce Berlusconi
Vincenzo Vasile su
l'Unità

Bisognerà farci l'abitudine. Ciampi parla di politica internazionale e torna a gelare il governo illustrando linee dissonanti da Berlusconi. Come ieri al Quirinale. Sulle due questioni cruciali: l'Iraq e l'Europa. Pare di capire che per il capo dello Stato (molto più chiaramente che non a palazzo Chigi o alla Farnesina) la missione italiana debba trovare, per una sua prosecuzione, un più netto ancoraggio a quella che Ciampi chiama la "legittimazione" da parte delle Nazioni Unite. E sulla Ue il presidente invoca, dopo la "battuta d'arresto" del Consiglio europeo di Bruxelles, un'iniziativa italiana che partecipi all'aggregato di "avanguardie aperte", il cosiddetto nucleo pioniere dell'Unione, che Berlusconi s'è rifiutato di sostenere nonostante le sollecitazioni dello stesso Ciampi.
Opinioni espresse ieri da Carlo Azeglio Ciampi in forma solenne alla cerimonia degli auguri di fine d'anno con il corpo diplomatico radunato sul Colle. Soprattutto sul piano della comunicazione si intravede una mezza novità. C'è meno reticenza del solito, si intuisce che dopo la bocciatura della legge Gasparri il presidente, pur senza alcuna intenzione di far alzare la temperatura dello scontro istituzionale, non nasconde differenze o elementi di vero e proprio dissenso.
Il centro del ragionamento torna a essere l'Europa: bisogna superare "con rapidità" il fallimento della Conferenza intergovernativa. Anche se Ciampi preferisce il termine eufemistico "battuta d'arresto", si capisce che vede prospettive drammatiche. È molto preoccupato, e non lo nasconde: si rischia, dice, che l'Unione allargata ai nuovi paesi membri "cominci senza un'adeguata impalcatura istituzionale" e che alle elezioni europee del prossimo giugno "i cittadini europei non possano pronunciarsi su un definitivo Trattato".
Perciò sarà decisivo il semestre di presidenza dell'Irlanda, alla quale Ciampi ha rivolto gli auguri "di successo", senza citare – se non di passaggio - la presidenza italiana e i suoi "risultati" tanto propagandati dal governo.
Che fare? La terapia che invano Ciampi ha sinora invocato è quella che nel gergo delle politiche internazionali si chiama dell'"Europa a doppia velocità". Il suo sforzo è documentato dal carteggio intenso con i capi di Stato dei paesi fondatori, e nel tentativo di riagganciare l'Italia al partner tedesco dopo gli scivoloni del premier. Ieri il presidente ha provato a rilanciare questa linea richiamando l'esperienza passata: "Le crisi che hanno contrassegnato la storia dell'Unione europea si sono trasformate in successi grazie a una fortissima volontà politica: se ne sono fatte spesso interpreti avanguardie aperte, animate da autentico slancio ideale".
Altro dossier caldissimo, l'Iraq: "Come tutte le guerre ha fatto entrare il dolore nelle nostre case, nelle nostre famiglie". Ma ha anche "sollevato interrogativi che toccano da vicino l'assetto della comunità internazionale", quegli interrogativi che Marcello Pera l'altroieri in sua presenza con toni da comizio ha definito "incomprensibili" e dettati da malcelata "sottovalutazione" del terrorismo, che al contrario, secondo Ciampi, "occorre sradicare", agendo sulle cause che lo alimentano. La cattura di Saddam apre "la possibilità di riconciliare gli iracheni, di accelerare il passaggio delle responsabilità di governo, di sanare le divisioni internazionali". E l'Onu ha "una responsabilità importante nella stabilizzazione e democratizzazione del Paese.



Trasporti, i sindacati al governo "Migliori la sua proposta"
Redazione de
la Repubblica

ROMA - Stop alla trattativa tra governo e sindacati sul rinnovo del contratto dei lavoratori dei trasporti pubblici. Subito a Genova parte uno sciopero a oltranza dei dipendenti dell'Amt. Altri blocchi potrebbero seguire. Il rischio di una paralisi selvaggia e a sorpresa di bus e mezzi pubblici urbani è reale. I sindacati si spaccano, poi in serata trovano una posizione unitaria, sulla spinta della base.

La trattativa a Roma al ministero del Welfare è andata avanti oltre 12 ore. Intorno alle 5 di questa mattina, la rottura tra governo, sindacati e aziende. L'ultima proposta del governo è un aumento di 80 euro al mese e una tantum di 600 euro. Se la Cisl è pronta ad accettare, Cgil e Uil la pensano in modo diametralmente opposto. Per questo i sindacati di categoria convocano una riunione. L'incontro si sarebbe dovuto tenere alle 11, poi è stato posticipato alle 15. Quindi il terzo rinvio, alle 18, con l'annuncio che della questione ne avrebbero discusso direttamente i leader delle tre organizzazioni, Epifani per la Cgil, Pezzotta per la Cisl e Angeletti per la Uil.

Il vertice tra Epifani, Pezzotta e Angeletti, si è concluso con "una posizione unitaria". "Abbiamo raggiunto una risoluzione unica - ha detto il leader della Uil - e andremo all'incontro con il governo per chiudere. Secondo me è infatti ragionevole pensare di poter chiudere il rinnovo del contratto -ha proseguito- altrimenti vuol dire che governo e aziende non vogliono".

E' soprattutto l'importo dell'una tantum a essere ritenuto insufficiente dai sindacati. Ma i continui slittamenti sono la prova della spaccatura tra le confederazioni: Cgil e Uil hanno rifiutato la proposta, mentre in un primo tempo la Cisl si è detta disponibile. Ma all'interno del sindacato cattolico c'è tensione. Perché la segreteria della Fit-Cisl lombarda ha preso le distanze dalla linea nazionale definendo la proposta del governo "insufficiente". Dario Balotta, segretario generale Fit-Cisl Lombardia ha detto: "Se venisse accettata la proposta del governo, non credo che riusciremmo a contenere la protesta dei lavoratori".

Una spaccatura tra segreterie nazionali e regionali che rischia di diventare più profonda con il passare delle ore. Anche le organizzazioni dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil della Campania bocciano in una nota congiunta la proposta del governo che definiscono "una provocazione".

Ci sono poche ore per scongiurare quello che per i cittadini, sotto le feste di Natale, potrebbe rivelarsi un calvario. Gli occhi sono puntati soprattutto su Milano, Torino e Brescia, le città messe in ginocchio dalle ultime proteste. Tram e bus hanno viaggiato regolarmente. "Siamo tutti in attesa - spiega Davide Masera, segretario regionale piemontese della Filt-Cgil - di notizie da Roma: nei depositi sono in corso assemblee. Speriamo non si arrivi a un accordo separato".



Trasporti pubblici locali: stop alla trattativa
Redazione del
Corriere della Sera

ROMA - Dopo oltre 12 ore di trattativa senza sosta, intorno alle 5 di questa mattina c'è stata la rottura tra governo, sindacati e aziende per la vertenza degli autoferrotranvieri.

NUOVO VERTICE - Il vertice Cgil, Cisl e Uil e le relative organizzazioni sindacali di categoria, per decidere se accettare la proposta del Governo sulla vertenza degli autoferrotranvieri è stata posticipata per diverse ore: a chiedere il rinvio, secondo fonti sindacali, sarebbe stata la Cgil. Dopo la riunione non sarebbe però stata trovata un'intesa definitiva tra i sindacati. Nelle ultime ore, dopo i no comment di stamane, cominciano a delinearsi meglio le richieste minime avanzate dal sindacato.

AUMENTO DI 80 EURO - Il governo ha proposto un aumento di 80 euro per i contratti e 500 euro di una tantum, per i due anni di ritardo nel contratto contro i 106 euro di aumento richiesti dai sindacati e i 41 proposti dalle aziende. Dopo il rifiuto dei sindacati, il governo aveva innalzato l'una tantum a 600 euro. "A fronte di questa proposta che il governo ritiene non modificabile - riferisce il sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti Paolo Mammola - la Cisl, come anche a un altro tavolo Cisal e Ugl, hanno mostrato la loro disponibilità a firmare l'accordo, mentre la Fit-Cgil e la Uil-trasporti non hanno ritenuto sufficiente la proposta chiedendo un ulteriore aumento dell'una tantum".

CGIL: PROPOSTA INSUFFICIENTE - La Cgil condivide l'opinione della categoria del trasporto locale (Filt) secondo la quale la proposta del governo per il rinnovo del contratto è "insufficiente". È quanto sostiene il segretario generale Cgil, Guglielmo Epifani, secondo il quale la soluzione del contratto in queste condizioni e con l'assenza di idee da parte del governo "è complicata". "Il settore è lasciato a se stesso. Le aziende hanno fatto il contratto per ottenere risorse, il governo non ha un'idea su come risolvere la situazione". Secondo Epifani questa situazione rischia di diventare "esplosiva. C'è un contenzioso tra Regioni, aziende e governo che rende complicata la soluzione del contratto".
I sindacati confederali dei trasporti, Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uil-trasporti, dovranno quindi mettersi d'accordo se accettare l'ultimatum del governo o se lasciare aperta la vertenza che potrebbe sfociare in proteste spontanee fuori dalle regole da parte dei lavoratori nonostante sia cominciata la tregua natalizia che vieta gli scioperi nel settore dei trasporti.

PRIMI BLOCCHI A GENOVA - Il blocco degli automezzi pubblici, già scattato a Genova dopo l'annuncio della rottura, potrebbe essere un primo segnale d'allarme di una situazione che potrebbe diventare ingovernabile da parte degli stessi sindacati. A Genova, infatti, i lavoratori del trasporto pubblico locale hanno minacciato di mantenere gli automezzi in deposito fino a quando non verrà firmato il contratto. Alcuni autobus a fine servizio sono stati parcheggiati davanti alle rimesse per evitare l'uscità degli altri. Il prefetto di Genova pare non intenzionato a precettare i lavoratori.
"Pur apprezzando lo sforzo del ministro del Welfare, riteniamo la proposta insufficiente sia nella misura dell'una tantum sia per quanto riguarda gli aumenti salariali". Lo ha detto Dario Balotta, segretario generale Fit-Cisl Lombardia. "Ho comunicato quest'orientamento alla segreteria nazionale. Se venisse accettata questa proposta non credo che riusciremmo a contenere la protesta dei lavoratori".


Casini sfida Berlusconi sulla lista unica
p.c. su
l'Unità

"È una sfida ineludibile". È delle liste uniche che Pier Ferdinando Casini parla, nel tradizionale incontro di fine anno con la stampa parlamentare. Esplicitamente da "politico", oltre che da presidente della Camera sensibile al processo di "maturazione del bipolarismo italiano". Il riferimento è plurale, quindi tanto all'iniziativa promossa da Romano Prodi quanto al tentativo di imitazione di Silvio Berlusconi. Ma proprio perché "politica", la riflessione di Casini (la cui propensione per le liste unitarie non è propriamente una novità) non ignora certo la divaricazione ultima tra il Prodi che fa proprio l'impegno di Ds, Margherita, Sdi e Repubblicani europei, e il Berlusconi che archivia la pratica nel centrodestra.
La partita si riapre, da quella parte? È possibile, anche se le prime reazioni non sembrano offrire molti spiragli. "Peccato", sospira Sandro Bondi. "Ora mi sembra tardi poter riacciuffare in extremis questa prospettiva", aggiunge il coordinatore di Forza Italia con tono rassegnato, senza però rinunciare a porre l'accento sulla possibilità di "segnali nuovi e inequivocabili da parte, principalmente, dell'Udc". Dalla doppia interpretazione, però. L'una polemica, se non propagandistica, perché scarica sull'Udc, il partito di cui Casini è nume tutelare, la responsabilità di aver fatto fallire "un progetto politico nobile e alto". L'altra preoccupata per la critica implicita del presidente della Camera alla scarsa determinazione politica di Berlusconi e alla eccessiva fretta di schierare Forza Italia alla conquista del primato elettorale, scaricando sugli stessi alleati scelte dirompenti come quelle dell'accorpamento delle elezioni europee ed amministrative e della manomissione della par condicio. Una chiave di lettura confermata da Roberto Calderoli, disinteressato sul piano elettorale perché è sempre stato scontato che la Lega corra da sola, ma particolarmente attento a tutto ciò che può spostare l'asse tra Berlusconi e Bossi: "Casini se n'è uscito con la lista unica proprio perché Berlusconi ha fatta sapere che ormai i giochi sono chiusi".
Per quanto Calderoli si diverta a tratteggiare gli esponenti dell'Udc come "dei Qui-Quo-Qua", è difficile credere che, volendo, Casini non riesca a convincere Marco Follini. Né al segretario dell'Udc che si rivolge, quando sottolinea che non ci sarà il "colpo d'ala" che fa decollare il bipolarismo italiano "se i partiti non usciranno dal loro particolarismo e dalla rivendicazione di un loro decimale di rappresentanza in più". Semmai, quella del presidente della Camera, appare una via diversa per innescare la stessa competizione al centro dello schieramento di maggioranza che l'Udc affida alla presenza di una lista esplicitamente moderata rispetto alle estremizzazioni populiste di Forza Italia. A voler essere maliziosi si potrebbe osservare che una successione di Casini a Berlusconi sarebbe più semplice all'interno di uno stesso agglomerato politico saldamente ancorato al Partito popolare europeo, tanto più che, su questo fronte, sarebbe Casini a sdoganare Gianfranco Fini. Ma neppure questo processo può semplicemente saltare il problema politico riproposto da Bruno Tabacci quando, nell' invitare Bondi a "stare sereno", dubita che l'Udc "possa cambiare l'idea di utilizzare il confronto europeo per affermare la forza di una tradizione e di una idea che non può essere diluita in un calderone indefinito".
Se margini di ricomposizione restano, dunque, sono legati a una visione del bipolarismo che non a caso ieri Casini ha riproposto in termini specularmente opposti a quelli fin qui teorizzati e praticati da Berlusconi. Sulle riforme con maggiore nettezza rispetto a Marcello Pera nell'analogo appuntamento al Senato. Quest'ultimo affida l'auspicio che si "ponga fine alla troppo lunga transizione italiana" ai passi avanti che a palazzo Madama si stanno compiendo sul federalismo e la giustizia: in un "clima diverso, di ascolto reciproco, con la percezione che una riforma non può essere fatta da una parte contro l'altra per trarne un vantaggio particolare". Casini, invece, da voce all'"affermazione politica" che le riforme si fanno "con il consenso di maggioranza e opposizione, perché le regole appartengono a tutti, non solo a chi occasionalmente è maggioranza, e ci vogliamo rassegnare a trovarci ogni legislatura al capezzale di riforme costituzionali che durino solo 5 anni e non 50 come invece è durata la nostra Carta" (nell'occasione, cede la parola a Giorgio Napolitano, presidente della Fondazione della Camera, per l'annuncio delle manifestazioni di riflessione storico-istituzionale sul 60.mo dell'Assemblea costituente).

Sull'informazione, appunto, Casini è secco: "È non solo importante ma decisivo per la democrazia nel nostro paese". Anche Pera si mostra risoluto: "È un diritto fondamentale di cittadinanza". Il presidente del Senato (che scansa le polemiche sul valore dell'antifascismo pronunciandosi a favore del mantenimento della norma costituzionale che vieta la ricostituzione del partito fascista) si addentra anche nei meandri del mercato dell'informazione, auspicando che vi siano "molti più editori liberi e in competizione tra loro". Di più: "Che questi editori siano solo editori". Non anche industriali e finanziari, va da se. Ma come metterla con i politici chi debbono assentarsi dal Consiglio dei ministri ma poi far cadere la foglia di fico all'atto della firma del decreto a favore di una propria azienda? È l'anomalia del conflitto d'interessi che persiste a metà legislatura. Metà? Battuta di Casini: "Così pare...".


Chiesta la condanna di due generali per la strage di Ustica
Gianni Cipriani su
l'Unità

Hanno impedito "l'esercizio delle attribuzioni del governo", tacendo sulla presenza di aerei e navi statunitensi nella zona in cui avvenne la tragedia del Dc9 dell'Itavia, caduto ad Ustica; hanno dato informazioni errate. Hanno depistato. Mentito. Per questo il pubblico ministero ha chiesto la condanna a 6 anni e 9 mesi di reclusione (di cui 4 anni da condonare) per Lamberto Bartolucci, ex capo di stato maggiore della Difesa e per Franco Ferri, ex sottocapo. Nello stesso tempo, però, la pubblica accusa ha chiesto l'assoluzione (con una formula equivalente alla vecchia insufficienza di prove) per gli altri due imputati: Corrado Melillo, ex caporeparto, e per Zeno Tascio, ex responsabile del Sios dell'Aeronautica militare.
Una richiesta che arriva nello stesso giorno in cui il Tribunale civile di Roma ha dichiarato che responsabili dell'incidente aereo sono i Ministeri della Difesa, dei Trasporti e dell'Interno, condannandoli a risarcire all'Itavia i danni, liquidati in 108 milioni di euro, pari a 210 miliardi di vecchie lire.
Un processo importante, ma dimezzato. Perché - è il caso di ricordare - nonostante l'impegno del giudice Priore e la battaglia civile dell'associazione dei parenti delle vittime, con i suoi avvocati e i suoi consulenti, alla sbarra non sono mai arrivati i "veri" responsabili della tragedia, cioè coloro che (verosimilmente, perché non c'è certezza) hanno determinato l'abbattimento del Dc9 e la morte degli 81 passeggeri. Il "muro di gomma" ha impedito che su questo si raggiungesse la verità. Tuttavia, dall'indagine, è emerso con chiarezza che per coprire i retroscena di quella sciagura sono state fatte sparire le prove; sono state raccontate bugie.
Così alla sbarra, con l'accusa di alto tradimento, sono finiti 4 generali. Per due, ieri, è stata chiesta l'assoluzione. Per altri due la condanna. Quali le motivazioni? Per aver impedito "l'esercizio delle attribuzioni del Governo della Repubblica (…) abusando del proprio ufficio, fornivano alle autorità politiche, che ne avevano fatto richiesta, informazioni errate - tra l'altro escludendo il possibile coinvolgimento di altri aerei - anche tramite la predisposizione di informazioni scritte". Avevano taciuto, dice l'accusa, la presenza americana. Nello stesso tempo, l'assoluzione "perché il fatto non sussiste" è stata chiesta rispetto alle presunte omissioni sulla caduta del Mig libico sulla Sila e per la contestazione di aver affermato "che non era stato possibile esaminare i dati del radar di Fiumicino/Ciampino, perché in possesso esclusivo della magistratura".
Una vicenda processuale lunghissima, che lascia molte amarezze. Perché mentre è importante, dopo tante reticenze e decennali omissioni, che in un'aula di giustizia venga riconosciuto che su Ustica furono violati i diritti delle vittime, dei loro familiari e, più in generali, del paese, la sensazione è che i veri colpevoli non verranno mai puniti. Anche il pubblico ministero, Vincenzo Roselli, al termine della requisitoria, si è espresso in questi termini: "Rimane l'amarezza per non aver individuato la precisa causa della tragedia e i suoi responsabili". Il magistrato ha parlato della "emozione di formulare le richieste alla fine di un processo durato 23 anni, caratterizzato dal tormentato tentativo di accertare la verità, tra mille amarezze. Un processo doloroso per le vittime, per i parenti e per noi, perché i morti di Ustica sono tutti noi".
Ovviamente non sono mancate le reazioni, a cominciare dalla senatrice Daria Bonfietti, che è presidente dell'Associazione dei parenti delle vittime: "Oggi più che mai Ustica deve essere un grande problema di dignità nazionale. Abbiamo ancora una volta la conferma che i diritti del nostro paese furono violati e che non fu tutelata la vita di 81 inermi cittadini. Non entro nel merito di queste richieste, sulle quali i legali dell'Associazione avranno modo di pronunciarsi nelle loro repliche - ha commentato Bonfietti - voglio soltanto sottolineare che la requisitorie dei pm e le loro richieste conclusive sono state una completa conferma della sentenza ordinanza del giudice Priore: il Dc 9 Itavia con 81 persone a bordo fu abbattuto e i vertici dell'aeronautica militare nascosero questa terribile verità, anzi fecero di tutto per allontanare le possibilità che fosse nota, mentendo agli organi responsabili dello stato, in primo luogo governo e magistratura".

Per la sentenza ci vorrà ancora del tempo. Ventitré anni di attesa, purtroppo, non sono sono ancora sufficienti.


Show in nero per Alessandra
Filippo Ceccarelli su
La Stampa

"Alessandra! Alessandra!" gridano i fotografi, in piena baraonda, e già si fatica a respirare nella minuscola sala dell'albergo Senato, al Pantheon, dove sta partendo l'avventura del più strabiliante cartello elettorale cui sia dato di assistere: Fiamma tricolore, Forza Nuova, Fronte Nazionale, cioè la filibusta della politica italiana.
"Noi siamo estremi!" annuncia con voce ispirata la Mussolini, che per ora è riuscita nel miracolo di mettere dietro lo stesso tavolo i capi rissosi dei bucanieri. Ma basta guardare il servizio d'ordine per avere immediata conferma del senso di questa rivendicata estremità, più esistenziale che politica: nasi schiacciati e storti, cicatrici, crani pelati, occhiali neri, insomma la Tortuga.

"Alessandra! Alessandra!". Già: ma chi glielo ha fatto fare? In fondo, aveva il suo personaggio, la sua comoda nicchia ormai trasversale (con Livia Turco, la Bellillo), aveva il suo spazio in tv, il suo pubblico, i suoi format. E ora invece eccola qui con Luca Romagnoli (Fiamma), Roberto Fiore (Forza Nuova) e Adriano Tilgher (Fronte Nazionale), tre professionisti della frammentazione micropolitica, tre guerrieri donchisciotteschi di una impossibile rivoluzione nazionale. Dunque, perché? Lei risponde: per i sentimenti, per il cuore, "la fiamma ce l'abbiamo nel cuore!".

Ma è un cuore nero e a dir poco un po' confuso, per non dire confusionario, quello che batte nella saletta dell'hotel Senato. L'immaginario della destra estrema, autentico Pantheon della marginalità, mette insieme tutto e il contrario di tutto. Eh, ci fosse solo nonno Benito! Ci trovi la Spagna clerico-fascista, le croci celtiche, la svastica, le curve e gli ultrà degli stadi, l'arcangelo Michele, le comunità d'accoglienza rurale, il ciclo bretone, il movimento skin, gli striscioni antisemiti e filo-cetnici ("Onore alla tigre Arkan"), i proclami anti-turchi, le messe in latino, le discipline esoteriche indiane, le teorie anti-mondialiste, perfino l'esaltazione dell'invasione russa della Cecenia, in nome di un indecifrabile nazional-bolscevismo e a riprova, come ha scritto Ugo Maria Tassinari nel suo "Fascisteria" (Castelvecchi, 2001) che in quel mondo "non è l'assenza, ma la somma di tutti i colori".
Scherza Alessandra Mussolini: "Io prima avevo un Cavaliere, ora ne ho tre". Ma quando lei cantava o faceva l'attrice, quelli facevano a botte o andavano in galera. Lei per anni coccolatissima dallo star-system, quegli altri demonizzati e orgogliosamente auto-reclusi nel "cattiverio" della loro sciagurata avversione alla democrazia e al mondo borghese. Alessandra sorride anche nel manifesto, che sembra un po' la locandina di uno spettacolo. C'è lei in mezzo, biondissima, in tailleur, e i suoi "boys", lievemente a disagio. Forse perché mai, nel mondo della tradizione e delle gerarchie maschiliste, avrebbero immaginato di far da spalla a una donna. Ma si sa, i tempi cambiano e anche i pirati devono adeguarsi.
Romagnoli, che ha sfilato abilmente il partito a Rauti, assomiglia all'attore Paolantoni e nel poster ha la mano in tasca. Fa appello alle "radici profonde che non gelano" e rifiuta "il minestrone pressoché omologo che ci vogliono propinare". Viene dal rautismo-evolismo, ha conosciuto la Nouvelle Droite, cultura paganeggiante. Il leader di Forza Nuova, Fiore, è invece un cattolico tradizionalista e anche in foto si vede benissimo che è in lite con la cravatta. Reca in dote i giovani e il sociale, esalta il diritto romano e le casalinghe, scagliandosi poi contro il mandato di cattura europeo.

Dietro a tutti, nel manifesto, con un'espressione fin troppo allegra e le mani protettivamente depositate sulle spalle dei camerati, c'è Tilgher, nipote di un grande intellettuale antifascista, ma già braccio destro di Stefano Delle Chiaie ad Avanguardia nazionale. Con l'aria più tranquilla possibile ti viene spiegato che propugna un socialismo nazionale, formula che invertita suona pur sempre come nazional-socialismo. Attacca l'euro e le banche.

Va da sé che non si vogliono bene. Rivalità personali, ma anche dissensi profondi di cui solo una specialissima macchina del tempo nazional-popolare potrebbe dar conto. La loro alleanza appare naturalmente precaria e fragile, ai limiti della nebulizzazione. E tuttavia la Mussolini funge per ora da insperata risorsa anti-vaporizzatrice, sia pure in versione post-moderna e quindi all'acqua di rose. Apre la conferenza stampa spiegando che "il male assoluto è Piazzale Loreto" e la chiude promettendo un sacco di donne candidate.



Storico accordo: la Libia smantella gli arsenali
Redazione del
Corriere della Sera

LONDRA - Una trattativa condotta in segreto per nove mesi ha portato ad un accordo rivelato a sorpresa dagli Usa e dalla Gran Bretagna, per permettere ad ispettori internazionali di esaminare e smantellare i programmi di armi di distruzione di massa della Libia.

Prima un breve annuncio del primo ministro britannico Tony Blair e subito dopo una più ampia dichiarazione del presidente americano George W.Bush alla Casa Bianca, hanno reso note le caratteristiche di un accordo che, ha sottolineato Bush, è stato voluto e sostenuto in prima persona dal colonnello Muammar Gheddafi.

Per la Casa Bianca, il passo significa che la Libia sta cominciado a rientrare nella "comunità delle nazioni" e Bush ha definito "di grande importanza" il passo compiuto da Tripoli. "Oggi a Tripoli - è stato l'annuncio di Bush nella sala stampa della Casa Bianca - il leader della Libia, colonnello Muammar Gheddafi, ha pubblicamente confermato il suo impegno a rivelare e smantellare tutti i programmi di armi di distruzione di massa nel suo paese". Gheddafi, secondo Bush, ha accettato "immediatamente e senza condizioni" l'ingresso degli ispettori internazionali nel paese.

Niente era trapelato, prima del duplice annuncio a Londra e Washington, su una trattativa sulla quale Bush ha fornito anche qualche dettaglio: uomini dell'intelligence britannica e americana, ha detto il presidente, "su disposizione dello stesso colonnello Gheddafi" hanno avuto accesso alla documentazione sui programmi nucleari, biologici e chimici sviluppati dalla Libia. In un momento in cui gli Usa e la Gran Bretagna devono ancora fronteggiare interrogativi e polemiche sulle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che per il momento non sono state trovate in Iraq, la Casa Bianca ha insistito sul fatto che proprio la guerra contro Bagdad e le prove di forza contro la Corea del Nord hanno spinto la Libia a compiere il passo del dialogo e dell'ammissione delle responsabilità.

I paesi che compiranno passi analoghi, ha sottolineato il presidente americano, potranno essere certi di migliorare i loro rapporti con gli Usa: "Spero che altri leader - ha detto Bush - seguiranno l'esempio" di ciò che ha fatto Gheddafi. E per loro "la porta sarà aperta", ha aggiunto. Tra i destinatari del messaggio, oltre alla stessa Corea del Nord, potrebbero esserci Siria e Iran, su cui gli Usa nutrono sospetti. Oltre alla forza, per Bush ad avere effetto è stato il lavoro di "una diplomazia silenziosa" che si è messa al lavoro nove mesi fa, su richiesta della stessa Libia e che ha deciso di coltivare il segnale di buona volontà che il governo di Tripoli ha mandato con l'accordo sul pagamento alle famiglie delle vittime della strage di Lockerbie, dopo aver ammesso responsabilità nel gesto terroristico.

Bush ha promesso che la "buona fede" della Libia sarà premiata e l'annuncio del presidente alla Casa Bianca ha avuto il tono della svolta storica, dopo gli anni di duro confronto tra gli Stati Uniti e Tripoli, culminati anche in un attacco aereo contro il quartier generale di Gheddafi all'apice della crisi tra i due paesi.



  20 dicembre 2003