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sulla stampa
a cura di G.C. - 18 dicembre 2003


Scalfaro e la norma salva-Fede
Vittorio Ragone su
la Repubblica

ROMA - "Ci sono molte strade per non mandare a spasso le persone". Oscar Luigi Scalfaro, ex presidente della Repubblica e durante il suo settennato bestia nera del Cavaliere, non crede al "ricatto" di Mediaset: o decreto legge per Retequattro o mille disoccupati in più. Al contrario: "Un grande imprenditore non privo di potenza finanziaria", chiosa sornione chiamando in causa Berlusconi, saprà pur trovare un modo per "impedire il temuto danno".

Nelle nebbie che ancora circondano il decreto venturo, Scalfaro non pronuncia bocciature irrevocabili: ma la battaglia sulle frequenze, tiene a chiarire, ha un primo diritto da tutelare: quello di Europa sette, l'emittente che dovrebbe occupare gli spazi "liberati" da Fede.
Scalfaro dichiara soddisfazione, e sostegno a Ciampi per il rinvio della legge Gasparri: "Il capo dello Stato ha il dovere di dire anche dei no". Censura poi i commenti "irriguardosi" del premier, e gli uomini del centrodestra che spesso si rifugiano nel "servilismo". Ma dalla durezza dello scontro e dalle questioni di stile non nasce - afferma - un conflitto istituzionale, perché la dinamica Quirinale-Parlamento è "costituzionalmente prevista". Perciò non ha senso chiedere le dimissioni di Gasparri: a meno che, alla fine dell'opera, non sia proprio il ministro a voler "trarre le sue conseguenze".

Presidente Scalfaro, il Quirinale ha rinviato al Parlamento la legge Gasparri sulle telecomunicazioni e si teme un braccio di ferro fra la maggioranza e Ciampi. Le saranno fischiate le orecchie, considerando che Casini mette in guardia gli alleati dal contrapporsi al capo dello Stato, pena la sua "scalfarizzazione". Ha avuto ragione il Quirinale a impugnare la Gasparri?
"Premetto che se per scalfarizzazione si intende la difesa ad oltranza della Costituzione che ho votato e sulla quale ho giurato, nulla da osservare. Il mio giudizio sulla decisione del Quirinale è molto favorevole. Abbiamo la conferma che il presidente della Repubblica dispone di un potere di valutazione immediata, ictu oculi, sulla costituzionalità dei provvedimenti. Suo compito è applicare l'articolo della Carta che gli consente - meglio, gli impone - di restituire al Parlamento una norma quando egli ritiene che vi siano delle incostituzionalità piuttosto palesi".


Il centrodestra oscilla fra la tentazione di rimandare la legge al mittente e una dichiarata volontà di dialogo. Berlusconi afferma invece che nemmeno leggerà il messaggio.
"Ho registrato in modo particolare, fra tutti i commenti, quello del presidente del Consiglio. E mi riesce difficile considerarlo riguardoso nei confronti del capo dello Stato. É stato interpretato da taluni, con un servilismo veramente eccessivo, come segno di particolare sensibilità sul conflitto di interessi. Ci vuole un gran coraggio".

Che cosa dovrebbe fare un governo "riguardoso", secondo lei?
"Le considerazioni del Quirinale vanno studiate con rispetto e attenzione. E devono avere una risposta attenta, giuridicamente seria e ben motivata. L'esecutivo, in regime di libertà, può benissimo ritenere di non condividere la valutazione di incostituzionalità espressa dal capo dello Stato. Questo tipo di dissenso non avrebbe nulla di irriguardoso".

Il decreto legge: se ne parla come la soluzione ai problemi di Retequattro e Raitre. E' una via d'uscita accettabile?
"Il tema che mi interessa di più in questo momento è che da anni un cittadino italiano, avendo presentato documenti, esposti e ricorsi e avendo ottenuto una sentenza favorevole della Consulta, ha diritto alla concessione oggi occupata da Retequattro. Ma nello Stato che viene chiamato di diritto, e che una volta del diritto era considerato la culla, questo cittadino non è nemmeno preso in considerazione".

Lei si riferisce ovviamente al titolare di Europa sette, il network che ambisce allo spazio oggi occupato da Fede. Le si può rispondere, come fa Mediaset, che il trasferimento di Retequattro sul satellite comporterebbe la perdita di centinaia di posti di lavoro. Mille, dicono.
"Questo non è altro che un pesante ricatto".

Anche il direttore generale della Rai, per la verità, annuncia ripercussioni gravi su Raitre.
"La direzione generale della Rai sostiene di occuparsi di un problema dell'emittenza pubblica ma si muove chiaramente a vantaggio solo di Retequattro. Bisognerebbe essere ciechi per non vedere quest'operazione, altro che conflitto d'interessi".


Il centrosinistra teme una campagna elettorale in cui il Polo lo accuserà di liberticidio. Non è una preoccupazione liquidabile a cuor leggero.
"Ci sono molte strade per non mandare a spasso le persone. Un grande e fortunato imprenditore non privo di potenza finanziaria certamente sa impedire il temuto danno ai lavoratori. Occorre rettitudine di intenzioni".

Il presidente Confalonieri obietta che i principi della sentenza dell'85 sono preistoria, considerano uno stato di cose, nell'universo delle comunicazioni, oggi non più attuale. Anche questa obiezione le sembra inconsistente?
"Fa parte di una idea del diritto che se non è favorevole nella personale visione si traduce facilmente in fatto. Il diritto scritto e applicato da autorità come la Corte costituzionale non può mai essere disatteso".

Non si può negare però che da quasi vent'anni ci trasciniamo la mancata regolamentazione d'un sistema che muta a velocità altissima.
"Questo accade perché l'Italia vive una pesante patologia, che è il monopolio privato. Si è partiti temendo che potesse nascere un monopolio dello Stato e si è finiti, di fatto, per determinare una forma chiaramente monopolistica del privato".

Non le viene mai il dubbio che ci sia qualcosa di persecutorio in questa tesi?
"La sua domanda è comica o seria?".

Serissima. Il centrodestra alla persecuzione grida da anni.
"È una triste vocazione che si espande tra i vari settori del diritto e non si può negare che ha ottenuto successi".


Che cosa si aspetta dai centristi del Polo, che avevano presentato emendamenti migliorativi?
"I centristi hanno un dovere. Il loro primo compito è rispettare e far rispettare i diritti dei cittadini che sono riusciti a dimostrare la loro legittimità. Non possono appoggiare tesi che mettono sotto i piedi i diritti del singolo cittadino a favore della prepotenza di altri".

Secondo lei il ministro Gasparri dovrebbe dimettersi?
"No. Quella legge non è il frutto di una sua bizzarria. Il ministro è stato appoggiato da una maggioranza che ha votato le norme; le sue tesi hanno trovato starei per dire acquiescenza, dirò invece condivisione nella maggioranza parlamentare. Se vi sono osservazioni serie nel messaggio del capo dello Stato, il ministro ha il dovere di accoglierle, farle discutere, portarle all'attenzione del Parlamento; e il Parlamento ha un analogo dovere, da parte sua. Poi, se il ministro riterrà che l'impostazione finale travolga la sua, e non ne accetterà la paternità, è libero di tirare le conseguenze che crederà più opportune".


Confalonieri attacca Ciampi: "Usa argomenti da preistoria"
Giovanna Casadio su
la Repubblica

ROMA - I rilievi di Ciampi sono "preistoria". Si esprime così Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, criticando gli argomenti con i quali il capo dello Stato ha rinviato alle Camere la legge Gasparri. In particolare, nel mirino di Confalonieri c'è la sentenza della Corte costituzionale del 1985: ai principi di quel pronunciamento il Quirinale si è infatti appellato per avvertire del rischio che l'ennesimo via libera alla pubblicità tv, soprattutto alle telepromozioni, soffochi la stampa. Cosa d'altri tempi, per Confalonieri.

Il presidente di Mediaset premette che è, il suo, un giudizio espresso "con il massimo rispetto e anche alzandomi in piedi e con il sottofondo dell'inno di Mameli". Però riprendere quella sentenza "diciotto anni dopo, quando la libera stampa allora era "ics" e oggi è sette volte tanto, richiamare il concetto di torta pubblicitaria contro cui ci siamo battuti perché la pubblicità non è una torta", significherebbe affidarsi a "principi che sono preistoria". "Il mercato di allora non c'è più", e ne è passata di acqua sotto i ponti "dalla legge Mammì che prevedeva una commissione con la quale indicare i tetti pubblicitari". Qui si rischia, secondo Confalonieri, una campagna per difendere "interessi lobbistici" ammantandoli "di grandi principi".

Non solo. I direttori dei giornali "si sono prestati a scrivere che la Gasparri è una legge liberticida" quando invece "è moderna e guarda avanti".
La stilettata del gestore delle tv di Berlusconi a Ciampi getta altra benzina sul fuoco delle polemiche. Un altolà a Confalonieri e al discredito nei confronti del presidente della Repubblica viene subito dal presidente della Fnsi, Franco Siddi: "Confalonieri è come Pinocchio ma le bugie non stanno in piedi".

L'Osservatore romano, il quotidiano del Vaticano, giudica "perlomeno irrispettoso" e stonato l'intervento di Confalonieri. Beppe Giulietti, dei Ds, denuncia la "torbida manovra di Confalonieri". E il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, invita a distinguere tra i rilievi di Ciampi che "sono condivisibili" e la questione occupazione.

È su questa che si innesca l'ultimo scontro al calor bianco in Rai tra la presidente Lucia Annunziata e il direttore generale Flavio Cattaneo. Annunziata afferma di essere convinta che il direttore generale "sta facendo dell'allarmismo", visto che "non ha mai aperto bocca e solo adesso ha cominciato a mobilitarsi".



La Casa dei veleni
Andrea Colombo su
il Manifesto

ROMA. Il decreto buttato giù in fretta e furia per salvare Rete4 e gli introiti pubblicitari di Raitre? Arriverà puntualmente prima della fine di dicembre. Orbato però della firma di Gianfranco Fini. Il vicepremier ritiene che l'esposizione di un nazional-alleato come Maurizio Gasparri, che figurerà come ministro proponente del decreto, basti e avanzi. L'aggiunta della firma di Fini come rappresentante di palazzo Chigi sarebbe un po' troppo. Il senso della sibillina battuta in materia del presidente di An ("Andate a leggervi la Costituzione") è questo: a firmare deve essere, con il ministro e il capo dello stato, il premier, Berlusconi Silvio. Non è una scelta indolore. Si può capire perché il padrone di Rete4 avrebbe preferito evitare di far campeggiare la propria firma sotto il decreto governativo che salva la sua tv. Il no di Fini è stato imposto dal vicepremier, non certo concordato col gran capo della destra. Non a caso la battuta che circolava ieri ai vertici di An era a dir poco caustica: "Berlusconi può anche non leggere il decreto. Ma deve firmarlo". La faccenda avrà tutto il suo peso quando, tra poche settimane, la croce della Casa delle libertà si chiamerà "rimpasto". La metterà sul piatto della bilancia lo stesso Berlusconi, chiedendo "garanzie" per il suo partito e, soprattutto, per se stesso.

L'appoggio della Lega al decreto? Ci sarà, ma non certo a gratis. Bossi, come sempre poco diplomatico, svela il gioco con la dovuta brutalità: "Basta che mi diano una rete a Milano. Cosa voglio io lo sanno tutti". Rete milanese a parte, l'appoggio del Carroccio al decreto e il suo schieramento quando si tratterà di riscrivere la legge più vitale che ci sia per il leader di Forza Italia peseranno a loro volta parecchio al momento del rimpasto. Andranno pagati, e Bossi non è tipo che dimentichi di riscuotere.

La lista unitaria del centrodestra per le elezioni europee? Quella invece non ci sarà. "E' uno scenario che pare archiviato", ha concluso martedì sera il cavaliere tirando le somme di un summit con lo stato maggiore azzurro (presenti Bondi e Cicchitto, Bonaiuti e Tajani). Il cavaliere prendere così atto dell'indisponibilità dell'Udc e registra l'ennesima sconfitta. Un passo che non resterà senza conseguenze. Le prossime elezioni europee non saranno solo uno scontro con l'opposizione, ma anche, e forse soprattutto, un'ordalia interna alla maggioranza, la prova che il premier cercherà di sfruttare per dimostrare che il più amato dagli italiani di destra è ancora e sempre lui. Berlusconi non ha ancora deciso se candidarsi o meno (ma è certo che saranno ripresentati tutti gli eurodeputati uscenti). Però fa già sapere che "si spenderà completamente in questa campagna". Per la coalizione, certo, ma ancor più per il suo partito e per se stesso. Quel che cerca, a questo punto, è una conta secca, e di quelle chiare, col proporzionale.


Dunque il rimpasto e la revisione della legge Gasparri marceranno di pari passo e inevitabilmente si intrecceranno. Determineranno richieste e ricatti incrociati. Condizioneranno, anzi condizionano già oggi, il clima all'interno del centrodestra rendendolo, da tesissimo che era, irrespirabile. La Lega prova a mettere le mani avanti. Il capogruppo Cé denuncia la possibilità che An e Udc sfruttino l'incidente Gasparri collegandolo "con posizioni di potere e comando all'interno del governo". Pronto, il capogruppo di An Anedda lo rassicura: "Sono piani distinti".

Parole tanto doverose quanto poco plausibili. La confusione tra i due "piani distinti" è nelle cose. Evitarla sarebbe comunque impossibile. Resta da vedere come si tradurrà questo intreccio. Di certo il premier arriva alla scadenza inviperito come mai prima con il presidente della camera Casini e con il suo partito, l'Udc:nei giorni scorsi, non ha nascosto il suo disappunto per lo scarso sostegno offerto dai centristi alla "sua" legge Gasparri. Di Fini si fida ormai altrettanto poco. L'asse creatosi tra il presidente della repubblica e quello della camera, sommato con la defezione dei centristi e con le pressioni di An, lo ha costretto, almeno per ora, alla resa. Lo ha spinto, più che mai controvoglia, ad accettare la riscrittura di quella legge che sognava di poter ripresentare identica. In cambio chiederà non meglio precisate "garanzie" per il futuro. Obbedienza, in termini concreti.

Fini e Follini non saranno da meno nello sfruttare il disastroso esito della legge sulle telecomunicazioni. Ricorderanno i molti avvertimenti inutilmente dispensati, rinfacceranno al premier di essersi irrigidito anche quando il no di Ciampi era diventato facilmente prevedibile, annunciato. Impugneranno il quasi altrettanto nefasto varo della finanziaria a colpi di fiducia. Chiederanno qualcosa in più che una semplice ripartizione delle poltrone: una revisione radicale degli equilibri di potere, qualcosa che confina con il commissariamento del premier. Se finora la Casa delle libertà era stata lacerata da uno scontro durissimo, dopo il rinvio della Gasparri e con le elezioni europee imminenti, quella che si prepara è la guerra civile.


Lista unica, D'Alema attacca
Redazione de
la Repubblica

ROMA - Sulla lista unica chiama in causa Romano Prodi e attacca "i demolitori" riferendosi, pur senza citarli, a Occhetto e Di Pietro. E per il suo futuro immagina uno scranno europeo. Farà rumore l'intervista di Massimo D'Alema all'Espresso. Una chiaccherata a tutto campo che già suscita reazioni e polemiche.

Prodi. "Mi auguro che la lista unica alla fine si faccia davvero: dobbiamo rilanciare l'iniziativa nella sua ispirazione originaria ed evitare che il bambino venga ammazzato nella culla". D'Alema paventa il rischio che la lista unitaria del centrosinistra per le elezioni europee possa saltare e chiama in causa Romano Prodi: "Mi aggrego agli appelli di questi giorni: faccia qualcosa". Secondo D'Alema, il momento difficile che attraversano i soggetti fondatori della lista unitaria ha dei responsabili ben precisi: "Innanzitutto si sono messe in movimento forze distruttive, sono all'azione i professionisti della demolizione". Alla domanda se la sua affermazione si riferisce ad Achille Occhetto e ad Antonio Di Pietro, il presidente dei Ds, senza citare nessuno, risponde così: "Destrutturatori professionali. C'è un tempo per distruggere e uno per costruire. Alcuni restano fermi sempre al primo tempo. Con astuzia, con la capacità di inserirsi in ogni contraddizione, in ogni interstizio".

Di Pietro e lo Sdi. Rispetto alle polemiche sull'ingresso o meno di Antonio Di Pietro nella lista unitaria e alla possibilità che l'ex Pm faccia una lista alternativa con Occhetto e i girotondi, D'Alema non nasconde le sue preoccupazioni: "Un partitino dei girotondi indebolirebbe drammaticamente il centrosinistra. Non possiamo moltiplicare le componenti estreme". Nonostante tutto, continua D'Alema, contro Di Pietro non si possono alzare 'veti' e pregiudiziali. Infatti riferendosi all'opposizione dello Sdi, spiega: "I socialisti sbagliano a offrire l'immagine di un partito il cui agire è legato ai traumi e ai rancori del passato. Il loro no riapre una ferita, restituisce a Di Pietro la sua immagine di simbolo della legalità. E' un errore da cui devono liberarsi. Così come non ha senso ergersi a giudice del tasso di riformismo altrui. Contano le scelte, le coerenze politiche".

Il futuro. D'Alema potrebbe lasciare gli scranni di Montecitorio in favore di quelli del Parlamento europeo di Strasburgo. Annunciando che c'è l'idea del segretario della Quercia Piero Fassino di candidarlo nel Mezzogiorno per le elezioni europee, alla domanda di cosa sceglierebbe nel caso passasse l'incompatibilità con il seggio di deputato nazionale, D'Alema risponde: "Bisogna vedere quali saranno le condizioni, ma certamente credo nel processo di costruzione europea. Sono intenzionato a impegnarmi seriamente nel lavoro di deputato europeo: insomma sono aperto a un impegno internazionale".



Tremonti sempre più solo attacca Casini
Bianca Di Giovanni su
l'Unità

Finisce con l'ennesima reprimenda di Pier Ferdinando Casini la discussione della Finanziaria alla Camera. E con una replica a distanza del ministro Giulio Tremonti, messo ancora all'angolo dalla terza carica dello Stato. E non solo. Smentito persino da un collega di governo.
Parla di "cambiamenti surrettizi delle procedure" il presidente della Camera. Accenna a disagi nella maggioranza e nel governo. "Nessuno può ritenersi soddisfatto dell'andamento di questa sessione", aggiunge alludendo ai tre voti di fiducia in consecutiva ed ai continui "svarioni" procedurali (l'ultimo ancora ieri). Se si vuole riformare la Finanziaria, si faccia pure, ma alla luce del sole. E soprattutto, passando per il Parlamento. Il messaggio è chiaro, e prelude all'ennesimo scontro istituzionale tra Parlamento e governo. Casini non ci prova neppure ad addolcire le parole. Anzi, emana nervosismo e irritazione da tutti i pori. Il limite è stato ancora superato.
Dopo un paio d'ore Tremonti replica dal suo "feudo" in Via Venti Settembre, durante una conferenza stampa sulla Finanziaria che per la verità formalmente deve passare ancora la terza lettura in Senato (a proposito di procedure). Ma il ministro non si aspetta sorprese: lunedì (al massimo martedì) ci sarà il via libera definitivo a Palazzo Madama sul testo varato ieri a Montecitorio. "Non c'è stato particolare disagio nel governo", dice a chiare lettere il ministro. Anzi, per lui "questa Finanziaria segna un cambiamento positivo", "un cambiamento empirico della costituzione materiale. La prossima Finanziaria deve sintetizzare la prassi". In altre parole, sarà inemendabile. Tremonti è abile nei toni e nel mutare prospettive: nessun contrasto con il Parlamento. Anzi, "ha ragione Casini, la Finanziaria va cambiata". Come dire: non è successo nulla. A parte che il Parlamento è stato costretto a votare (finora) cinque fiducie. Ma la storia, "il presente" (parola di Tremonti) va in quella direzione. Basta con un magma di micro-emendamenti. "Il Parlamento deve essere il luogo di discussioni e decisioni fondamentali", spiega il ministro. Magari anche parlare dell'emendabilità della Finanziaria è "discussione fondamentale". Ma in questo caso la prassi anticipa la legge: non è la prima volta che accade. Ci pensa Carlo Giovanardi, il ministro dei "difficili" rapporti con il Parlamento, a smentire Tremonti. "Posso assicurare che mi sono sentito molto a disagio durante la discussione di questa Finanziaria". Altro che prassi.
Sta di fatto che la manovra da 16 miliardi di euro, per due terzi da misure una tantum come i condoni fiscali e edilizio (per il 2004 si prevede un Pil all'1,9%, un deficit al 2,2% contro il 2,5 di quest'anno e un debito al 105%), passa il vaglio della Camera sotto il fuoco di fila delle opposizioni. "Lei ci propone una Finanziaria che non fa i conti con l'inflazione che sta diminuendo la capacità di acquisto di salari e pensioni - dichiara Piero Fassino annunciando il voto contrario del gruppo ds - riduce gli investimenti per innovazione e ricerca ed i trasferimenti agli enti locali, spingendoli a tagliare servizi o a farli pagare ai cittadini. Non si danno alle municipalizzate i soldi già impegnati necessari a chiudere i contratti con i lavoratori, giungendo a dar vita a forme esasperate di lotta come quelle che abbiamo visto a Milano". Ma il ministro è perentorio: "Abbiamo scelto di dare soldi alla sicurezza. Bisognava decidere delle priorità, non si poteva dare a tutti". Il fatto è che i diritti, non si possono cancellare dalla lista delle priorità. Senza contare che persino i sindacati di polizia e i rappresentanti di carabinieri e guardia di finanza denunciano "l'inadeguatezza della Finanziaria in materia di sicurezza".



Si spengono le luci
Sommario de
il Manifesto

Scempi edilizi, sanatoria fiscale, tagli agli enti locali, spese per le armi: la camera approva la finanziaria, i piccoli comuni oscurano le piazze per protesta. Casini contro l'abuso del voto di fiducia: "Così non va". Tremonti: "Così va benissimo"
Alle 21 di ieri si sono spenti i lampioni in centinaia di piccoli comuni italiani. Non si è trattato di un black out, ma della protesta più eclatante contro la legge finanziaria per il 2004. I sindaci dei piccoli comuni hanno raccolto la proposta di Legambiente e dell'Anci: spegnere le luci di tutti i loro lampioni stradali per mezz'ora. Un buio contro i tagli, che anche quest'anno colpiscono tutti gli enti locali e in particolare i comuni con meno di cinquemila abitanti. Quella di ieri potrebbe essere comunque solo la prima di una serie di proteste. I piccoli comuni hanno infatti annunciato che già dai primi giorni dell'anno che sta per cominciare ridurranno i punti luci di notte, costretti a risparmiare da tagli che sono stati stimati dell'ordine del 30 per cento. Il governo Berlusconi impone così al paese e al parlamento una legge finanziaria blindata, riscritta in forma di maxiemendamenti. Ieri, in aula a Montecitorio, lo scontro diretto tra il presidente della camera, Casini e il ministro dell'economia, Tremonti. Secondo Casini si è trattato di un modo scorretto di procedere. Secondo Tremonti e secondo i vari Tremonti boys, si è trattato semplicemente di una presa d'atto della realtà: la finanziaria non esiste più, almeno come l'abbiamo conosciuta negli ultimi trent'anni. Dal 2005, è l'auspicio del ministro, le finanziarie saranno per sempre blindate. L'eccezione diventa la norma.

La finanziaria per il 2004, che lunedì avrà il suo ultimo passaggio formale al senato da dove era partita, scontenta però a destra e a manca. Viene giudicata una brutta legge e una brutta manovra da tutto lo schieramento di opposizione. Sia Castagnetti, che Fassino hanno detto che è una legge che deprime ancora di più un paese in evidente difficoltà. Si tratta infatti di una manovra che non dice nulla sullo sviluppo economico, deprime i settori all'avangurdia e la ricerca, penalizza il sud e non stanzia un euro per le infrastrutture. Il mitico ponte sullo stretto diventa una scenografia davanti al nulla, come ha detto ieri Fassino.

Attaccato dalle opposizioni, ma anche dai suoi, il ministro Tremonti non si scompone. Alla camera si è presentato ieri con aria spavalda e si è permesso anche il lusso di sedersi sui banchi di Rifondazione comunista, accanto a Fausto Bertinotti.


Alitalia taglia 2700 lavoratori: Fiumicino bloccato per tre ore
Maristella Iervasi su
l'Unità

I megafoni danno il via, e immediatamente l'assemblea sindacale dei lavoratori dell'Alitalia si è trasformata in una grande manifestazione spontanea di protesta, contro il piano industriale dell'azienda che prevede 2.700 esuberi, dei quali 1.500 a Roma-Fiumicino ma sullo sfondo anche l'"insoddisfacente" e "deludente" incontro al ministero dei Trasporti di martedì. Gli operai del Leonardo da Vinci sono subito usciti dagli hangar e scesi in corteo e in un baleno il tam-tam ha richiamato il 90% della forza lavoro che era addetta alle operazioni in pista, nonchè il 50% del personale impiegatizio nelle aerostazioni, operatori dei check-in compresi e rinforzato via via da molti dipendenti non in turno.

LA PARALISI. E l'aeroporto romano si è quindi “fermato”, restando paralizzato per circa tre ore: 80 voli cancellati (56 nazionali e 24 internazionali); ritardi nelle partenze e nella consegna dei bagagli. Passeggeri “imbufaliti” per lo sciopero selvaggio e costretti a raggiungere a piedi le aerostazioni - trascinandosi a mano le proprie valigie - per via del blocco degli accessi stradali a taxi ed auto all'aerea aeroportuale. Insomma, una giornata caotica: ci sono stati pure due feriti in un parapiglia nel pomeriggio tra alcuni manifestanti e la polizia.

Quasi tutti i sindacati avevano proclamato per ieri uno sciopero di 24 ore: il piano industriale, congelato fino al 31 gennaio prossimo, prevede il blocco degli aumenti di stipendio e nuovi esuberi. Il garante però lo aveva ritenuto illegittimo perchè troppo vicino ad altri scioperi nel settore di trasporti, decidendo una nuova data: il 19 gennaio. Ma il rischio di mobilitazioni spontanee era comunque nell'aria dopo l'incontro deludente ai Trasporti. Così ieri il lunghissimo corteo Alitalia ha sfilato per le strade delle scalo bloccando la circolazione sull'autostrada e per centro direzionale della compagnia alla Magliana, fino allo scalo dei voli nazionali e il terminal delle partenze internazionali. Tanto che la Polaria ha deciso - a scopo precauzionale - la chiusura di tutte le porte di accesso delle aerostazioni per evitare che la protesta di spostasse anche all'interno, mettendo completamente in ginocchio l'operatività dello scalo. Solo le porte centrali sono rimaste aperte ma sotto l'occhio attento degli agenti, che hanno consentito il passaggio solo ai passeggeri con in mano il biglietto aereo. A parenti e agli accompagnatori dei viaggiatori è stato vietato l'ingresso. Così alla rabbia dei manifestanti si è unita quella di chi doveva prendere un volo e non è potuta partire o di chi è rimasto intrappolato nel traffico da e per la Capitale che si è visto costretto a dirottare l'automobile in direzione Ostia o Fiumicino paese e prendere il treno per la stazione Termini.


SLOGAN E DISPERAZIONE. E i manifestanti? Loro, con le bandiere delle sigle sindacali di categoria (Cgil, Cisl, Sulta, Ugl, Uiltrasporti) hanno intimato slogan contro il piano Alitalia e distribuito volantini ai passeggeri chiudendo “scusa” per il disagio arrecato. "Lavoro da venti anni in Alitalia e sono padre di tre figli. Non posso permettermi il lusso di rimanere senza lavoro oppure finire in qualche piccola azienda poco affidabile alla quale la Compagnia vuole cedere uno dei suoi rami", sottolinea Michele, 45 anni. "È una vergogna - precisa Antonio, 55 anni - vogliono smembrare un'azienda storica e mandare a spasso centinaia di lavoratori senza preoccuparsi della loro sorte". Si avvicina una donna e dice: "Ma che fate, lo sciopero non era il 19 gennaio? e ora, chi tutela i diritti di chi paga il biglietto?". La risposta: "Questa manifestazione non era autorizzata ma è sorta spontaneamente a seguito degli esiti della riunione al ministero da cui è scaturito un nulla di fatto sulla nostra vertenza". La signora gira le spalle e va via, mentre sotto il naso gli passano gli slogan: "Non siamo lavoratori in vendita": "Alitalia o Ali-Taglia?".



Democrazia? Il suo nemico è l'uomo troppo ricco
Maurizio Viroli su
La Stampa

Da pensatore repubblicano qual è, Machiavelli non sostiene alcuna forma di populismo o di conflitto sociale che mira a imporre un interesse di parte, quale che sia la parte, contro il governo della legge e contro il bene comune. Per Machiavelli il governo della plebe contro il bene comune è altrettanto pernicioso del governo dei grandi contro il bene comune. Il male di Firenze fu che i suoi conflitti sociali non portarono all'affermazione di un buon regime repubblicano, ma all' avvicendarsi di servitù e licenza: "Le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non mediante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la servitù e la licenza".

La plebe licenziosa porta al principato. Severo nel condannare i conflitti sociali che mirano ad imporre il dominio di una parte sull'altra, Machiavelli diventa severissimo quando tratta dei conflitti fra le sette. Il governo delle sette è l'opposto del governo libero, e mentre il conflitto fra i gruppi sociali può avere risultati benefici per la repubblica, l'esistenza delle sette, e il conflitto fra sette è, per sua natura, pernicioso perché è sempre contrario al bene comune.
Come impedire la formazione delle sette e dei partigiani, e il conflitto distruttivo che ne deriva? Le cause principali delle sette sono la paura e la corruzione. Della paura Machiavelli parla soprattutto in Discorsi I.7: "La paura cerca difesa, per la difesa si procacciano partigiani, da' partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle". Della corruzione tratta nelle Istorie: "E però è da sapere come in due modi acquistono riputazione i cittadini nelle città: o per vie publiche, o per modi privati. Publicamente si acquista, vincendo una giornata, acquistando una terra, faccendo una legazione con sollecitudine e con prudenza, consigliando la republica saviamente e felicemente; per modi privati si acquista, benificando questo e quell'altro cittadino, defendendolo da' magistrati, suvvenendolo di danari, tirandolo immeritamente agli onori, e con giochi e doni publici gratificandosi la plebe. Da questo modo di procedere nascono le sette e i partigiani".
Il rimedio contro le offese private e contro la paura che esse generano è la difesa intransigente del governo della legge. Il rimedio contro i "modi privati" di acquistare reputazione, o più semplicemente la corruzione, è o impedire che nella città esistano uomini tanto ricchi da poter comprare molti partigiani, o far sì che i cittadini siano così virtuosi da non essere disponibili a servire gli uomini potenti. Tutti rimedi difficilissimi da realizzare. Con l'ovvia conseguenza che le repubbliche, spesso, muoiono o per corruzione o perché sono incapaci di assicurare il governo della legge e di proteggere i cittadini dalle private ingiurie.



IRAQ, la guerriglia continua
Lorenzo Cremonesi sul
Corriere della Sera

FALLUJA (Iraq) - Combattere gli americani come se Saddam fosse ancora libero. Ma partecipare anche alle elezioni, perché è chiaro che il vecchio regime è finito per sempre. E' il curioso paradosso raccolto tra gli attivisti della guerriglia a Falluja, capitale del terrorismo e della violenza antiamericana nel cuore del "triangolo sunnita" appena a Nord di Bagdad. Terra di nessuno. Luogo di paura e morte per le truppe Usa, che sin dal loro arrivo, ai primi di aprile, non sono mai riuscite a controllarlo davvero.

Ma anche luogo dove si può toccare con mano la svolta epocale generata dalla cattura di Saddam Hussein 5 giorni fa. Lo conferma il lungo colloquio con Mohammed Salem Duleimi e Ahmad Hamid Duleimi, due militanti della guerriglia locale incontrati ieri mattina in un covo dello Jeish Al-Faruk, uno dei gruppi islamici più noti della ventina che organizzano i 20 mila uomini armati (secondo le fonti locali), "pesci nell'acqua" in questa regione abitata da circa un milione di sunniti. "E' un errore pensare che la guerriglia agisse in nome di Saddam. Certo che ci spiace sia stato catturato. Ma nessuno in verità lottava per lui. Sin da aprile la nostra battaglia è sempre stata quella di liberarci dall'occupazione Usa. Ecco perché la notizia della sua prigionia non cambia nulla, continueremo ad attaccare gli americani e i loro alleati come prima", dicono all'unisono.

Salem è di origine siriana. Tipico esponente delle brigate arabe internazionali che negli ultimi mesi hanno attraversato i confini per unirsi alla "guerra santa" contro "i diavoli invasori". Quanti sono? Lui non lo vuole dire. Ma è disposto a rivelare che i più si nascondono nel deserto, si travestono da beduini, vivono come nomadi con le capre, quasi impossibili da individuare anche con i sofisticati visori montati su caccia ed elicotteri Usa. Soprattutto larga parte delle loro armi proviene dagli arsenali del vecchio esercito iracheno, ma le risorse finanziarie sono saudite. "La realtà è che, tra chi spara, i reduci del partito Baath o del vecchio esercito di Saddam sono ormai pochissimi. La maggioranza sono invece attivisti islamici, gente che concepisce la lotta contro gli americani come fosse un dovere religioso. E sono pronti al martirio", aggiunge. Al suo fianco Ahmad mostra con fierezza il moncherino della gamba destra, perduta durante una "missione" in maggio, quando accidentalmente esplose la mina che aveva appena posto su una pista usata dai tank nemici.

Sembrerebbero il non plus ultra del radicalismo. Non a caso ripetono con fierezza di appartenere alla tribù degli Al-Duleimi, che negli anni Venti guidò la rivolta antibritannica. Uno di loro litigò personalmente con Saddam nel '96 e fu quello che arrivò più vicino ad assassinarlo. Era Mohammad Madlun, pilota eroe nella guerra con l'Iran. Saddam gli fece uno sgarbo e lui gli sparò mancandolo per un soffio. Poi morì tra le torture nel terribile carcere di Abu Ghreib. Insomma, gente dalla testa dura, che non deporrà mai il fucile. Eppure, commentando la cattura di Saddam, Salem e Ahmad si rivelano pragmatici. "Sino a pochi giorni fa la nostra idea era quella di riportare la situazione allo status quo precedente la guerra. Ma ora ci si rende conto che ciò è diventato impossibile". Le conseguenze? "Potremmo accettare l'idea delle elezioni, anche se la cosa viene dagli americani. A due condizioni però: deve essere ben chiara la data del ritiro totale delle loro truppe dal nostro Paese. E soprattutto noi dovremo essere assolutamente liberi di scegliere i nostri candidati". E di ciò sono poco convinti: "In effetti Bush ci ha invasi non per portare la democrazia, ma per prendersi il nostro petrolio. Ecco perché l'Iraq non lo abbandonerà mai, a meno che noi non lo si scacci con le armi".

Dunque guerra. Falluja, da quando il 29 aprile 17 studenti furono uccisi durante una manifestazione anti Usa, è zona tabù. Quasi non passa giorno senza un attentato contro un convoglio, lancio di granate, spari e arresti.

A pochi chilometri, gruppi di curiosi si aggirano tra le carrozze di un convoglio ferroviario fatto deragliare due giorni fa. Conteneva cibo e vestiti destinati alle truppe Usa: non è rimasto nulla. "E' permesso saccheggiare gli americani e i loro collaborazionisti", si legge su di un muro poco lontano. La folla guarda e ride. "Attenti potrebbero essere spie", dice qualcuno rivolto ai giornalisti. Meglio passare per francesi, qualche tempo fa un cameramen americano e un collega spagnolo sono stati quasi linciati. "Contro gli invasori tutto è legittimo. Ci vogliono rubare il petrolio? E noi prendiamo le scatolette di carne, i giubbotti invernali e i biscotti per i loro soldati", dice allegro Walid Khalil, fiero di essere stato tra i saccheggiatori anche della municipalità. Poi aggiunge minaccioso: "Non siamo terroristi, stiamo solo difendendo il nostro Paese".


  18 dicembre 2003