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sulla stampa
a cura di G.C. - 17 dicembre 2003


Lezione di coraggio
Curzio Maltese su
la Repubblica

Con il rinvio alle Camere della legge Gasparri, il presidente Ciampi offre al Paese e ai partiti un'occasione formidabile, storica e purtroppo unica per invertire il processo di degenerazione della democrazia italiana. È una bocciatura solenne quella del presidente della Repubblica, che colpisce al cuore la riforma ed anticipa un probabile giudizio di incostituzionalità della Consulta. Si capisce che un Berlusconi livido e provocatorio non voglia neppure leggere le motivazioni del Quirinale. Il suo problema è che forse non ha mai davvero letto neanche la Costituzione. Ma gli altri leader politici di maggioranza e opposizione, che non sono toccati nella carne viva degli interessi aziendali come il premier, hanno ben ragione di voler riflettere sulle ragioni di un "no" tanto secco e deciso.

Soprattutto avrebbero ottimi motivi per agire di conseguenza e modificare radicalmente la legge.
Non si dicono tutti, a parole, gran riformisti e liberali? Ebbene, se c'è una grande riforma liberale di cui l'Italia ha urgenza è la fine dei monopoli televisivi, com'è avvenuto già in tutta Europa, grazie a governi di destra, di centro e di sinistra. Non hanno tutti a cuore il ritorno al "primato della politica"? Allora prendano atto che a minacciare e avvilire il primato della politica nell'ultimo decennio non è stato un pugno di magistrati milanesi e tantomeno i movimenti della cosidetta "antipolitica".

È stato lo strapotere mediatico di uno solo a minacciare prima, dunque asservire e infine sostituirsi alla politica.

Certo per sfidare l'impero berlusconiano occorre un coraggio ben superiore al minimo necessario per muovere guerra a quattro onesti magistrati e agli improvvisati organizzatori di girotondi. Come ha ben chiarito la storia degli ultimi vent'anni, compresi i cinque dei governi di centrosinistra. Ora però il forte e motivato intervento del Quirinale può riuscire nel miracolo d'infondere quel coraggio a chi non se l'era mai dato.

La libertà d'informazione e il pluralismo sono in tutte le democrazie occidentali il terreno comune, condiviso da destra e sinistra, sul quale si fonda il confronto politico. Il presidente Ciampi, interpretando lo spirito della Costituzione e la volontà della maggioranza del popolo italiano, chiede che lo diventi anche in Italia. Lo chiede per la seconda volta, in termini non equivocabili e in perfetta coerenza con l'unico messaggio finora inviato alle Camere.

La differenza è che stavolta i signori dei partiti non possono far finta di nulla e rifugiarsi nell'ombra. Devono assumersi alla luce del sole la responsabilità di una scelta decisiva per il futuro politico e anche economico del Paese. La mossa del Quirinale non lascia spazi all'ambiguità e all'eterna tattica del rinvio ma pone un'alternativa chiara. I leader di maggioranza e opposizione possono mettersi a discutere intorno a un tavolo e trovare una maggioranza ampia e nobile, come è richiesto da una riforma così vitale, per modificare la legge nel senso antimonopolista richiesto da Ciampi e dalla Costituzione. Oppure possono ancora una volta inchinarsi alla volontà del padrone e accordarsi su una serie di inciuci e compromessi per ripresentare nella sostanza la controriforma Gasparri così com'è.

La prima soluzione conviene al Paese, alla democrazia, al libero mercato e a tutti i partiti. Perché dovrebbe essere evidente anche ai vari Fini, Casini e perfino Bossi che il meccanismo della Gasparri consegna a chi avrà il potere politico tutte le chiavi del consenso mediatico e non è detto che il Cavaliere sia eterno. La seconda soluzione conviene soltanto a uno.


È assai più facile che la maggioranza decida di blindare le reti di Berlusconi con un decreto immediato e quindi si dedichi in Parlamento a un lieve ritocco estetico all'impresentabile riforma. Le conseguenze in questo caso sono semplici da immaginare. L'Italia di Berlusconi sarebbe ridotta a zimbello dell'Europa, che ha già giudicato questa legge vergognosa. L'immagine complessiva del capitalismo italiano, già pessima, precipiterebbe a livelli da terzo mondo.

La Gasparri infatti non è soltanto un monumento al conflitto d'interessi, che grazie al cielo in tutte le democrazie rimane una malattia da combattere, come testimonia lo scandalo americano intorno agli appalti in Iraq. Non è soltanto antidemocratica. È anche antieconomica. Quando Berlusconi e Fede piangono per i mille posti di lavoro di Rete4 in pericolo (in realtà sono meno della metà), qualcuno dovrebbe ricordare che Mediaset, con i suoi soli 3.500 dipendenti e il 35 per cento della raccolta pubblicitaria globale, da anni di fatto impedisce la creazione di decine di migliaia di nuovi posti di lavoro. Quando il ministro Gasparri spiega che la sua legge rimedia al nanismo delle imprese editoriali italiane, qualcuno dovrebbe spiegare che il nanismo deriva dal fatto che Mediaset non conta nulla oltre Chiasso e regalarle il monopolio in patria non servirà di sicuro a renderla più competitiva sul mercato mondiale. Al contrario, è la garanzia del declino del settore, com'è accaduto in passato per la chimica, i computer e l'automobile.

Purtroppo nessuno lo può spiegare ai cittadini perché in televisione ci vanno soltanto le bugie di Berlusconi e il piagnucolio delle sue star milionarie che oggi hanno il coraggio di tirare in ballo le loro "povere" famiglie dopo aver buttato la croce ogni giorno addosso a tramvieri (a 600 euro al mese), infermieri, precari della scuola, operai cassintegrati e pensionati, tutti "egoisti" e profittatori.
Questo spettacolo di cinismo all'italiana è davvero uno dei più avvilenti e privi di dignità, fra i tanti che ci ammanniscono le nostre televisioni.



Legge tv, in arrivo il decreto "salva-Fede"
Aldo Fontanarosa su
la Repubblica

ROMA - Palazzo Chigi interverrà per "salvare" Emilio Fede. Il Consiglio dei ministri comincerà ad esaminare già venerdì il decreto legge che eviterà a Rete4 il trasloco su satellite. Il decreto, che sarà votato solo il 30 dicembre, autorizzerà anche Rai Tre a continuare la messa in onda degli spot. "Ci è stata indicata la possibilità di questo decreto", dice Berlusconi da Bruxelles, quasi parlasse di cose che non lo riguardano, lui che è premier e proprietario di Mediaset. I suoi, a Roma, già lavoravano al testo.

Il parto - lascia intendere però il ministro Carlo Giovanardi - sarà travagliato per le tante incognite, tecniche e politiche. La Corte Costituzionale e il Quirinale (che lunedì ha rinviato alle Camere la legge Gasparri) indicano nel 31 dicembre la data entro cui obbligare Rete4 alla trasmissione solo satellitare e RaiTre a finanziarsi di canone, rinunciando agli spot. Solo così potranno liberarsi frequenze e risorse, condizione di un maggiore pluralismo.

Ora il decreto non potrà essere congegnato allo scopo di aggirare la Corte, il Quirinale e la scadenza di fine anno. Se verrà scritto con questo scopo, il presidente Ciampi potrà rifiutarsi di firmarlo e la Consulta affondarlo per la sua plateale incostituzionalità. Lo ammette anche Publio Fiori di An, intervistato da Radio Radicale. Semmai il decreto legge dovrà impegnare il governo a recepire finalmente le indicazioni della Corte e del capo dello Stato, quando le Camere lavoreranno alla nuova versione della legge Gasparri.

Il punto vero è proprio questo. Sta tutto nella reale disponibilità del Polo a pentirsi e a cambiare la legge sui tre pilastri che il Quirinale ha demolito lunedì: le (blande) norme anti concentrazione, la troppa pubblicità in Tv, la moltiplicazione (apparente) dei canali attraverso la tecnica digitale di trasmissione del segnale.

Nel centrodestra, due forze sembrano disposte a correzioni vere della legge. Il vicepremier Fini, capo di An, dice che "alcuni rilievi di Ciampi vanno accolti nello spirito e nella lettera, questo in nome di un effettivo pluralismo" (ieri Fini ha visto a quattrocchi il segretario Ds Fassino, alla Camera). Aggiunge Volonté, presidente dei deputati dell'Udc: "Ciampi non contesta le virgole, ma la sostanza della legge Gasparri. Dobbiamo cambiarla".

Molto più tiepida è Forza Italia (a leggere le parole di Isabella Bertolini). La Lega - esclusa a sorpresa dal vertice polista di ieri - è l'unica ad attaccare il capo dello Stato che si sarebbe trasformato, secondo Calderoli, "in un nuovo Scalfaro".



La via del realismo
Paolo Franchi sul
Corriere della Sera

Silvio Berlusconi assicura di non avere ancora letto, e di non voler neppure leggere, "le osservazioni dei tecnici del Quirinale". Se è davvero così (ma è lecito dubitarne), commette un errore grave. Quelle obiezioni, sulla cui scorta Carlo Azeglio Ciampi ha rinviato alle Camere la legge Gasparri, vanno lette, rilette, e anche meditate. In primo luogo dal presidente del Consiglio, dal ministro che alla legge ha dato il nome e dalle forze di governo, si capisce. Ma anche da un'opposizione che in queste ore canta vittoria, e però è ancora incerta sulle prossime mosse. Per adesso, la tentazione dello scontro frontale, che serpeggia in entrambi gli schieramenti, si fa sentire, sì, ma (per fortuna) sembra minoritaria, patrimonio di falchi, o presunti tali, che da una parte chiedono di tirare diritto, facendo mostra di non temere il braccio di ferro istituzionale, dall'altra si illudono, dopo aver strattonato la giacca del capo dello Stato, di potervisi appendere, nella speranza malriposta che sia prossimo lo showdown risolutivo con il Cavaliere. Ma tentazioni siffatte possono prendere rapidamente corpo se non si prende da subito la via maestra. Se cioè non ci si assume oggi l'impegno di modificare rapidamente la legge nei punti chiave indicati da Ciampi (non di sottoporla a un qualche maquillage , dunque; ma nemmeno di stravolgerla completamente) in modo tale da poter assicurare domani quel giudizio favorevole sulla sua costituzionalità che il vecchio testo di certo non le garantiva. Il tempo è poco, ma c'è. I margini di manovra sono ristretti, ma ci sono.

Non c'è dubbio, le responsabilità (e i problemi) maggiori per procedere in questa direzione toccano a un presidente del Consiglio gravato da un vistoso conflitto di interessi che la legge l'ha voluta sino all'ultimo così com'è, e a una maggioranza che, in vari suoi settori, l'ha votata sì, ma turandosi il naso, e facendo, nemmeno troppo segretamente, più di un affidamento su Ciampi. E, ad aumentare le difficoltà, c'è alle porte una difficile verifica di governo, in programma più o meno negli stessi giorni di gennaio che dovrebbero essere dedicati a reimpostare alcuni aspetti cruciali della Gasparri. In discussione ci sono nel centrodestra, è inutile girarci attorno, anche una concezione e una pratica (Marco Follini le ha definite proprietarie) della politica e del potere. Tocca alla Casa delle Libertà, e in primo luogo al suo leader, dimostrare, modificando la legge, e rinunciando ad aggirare le questioni poste da Ciampi, di essere in grado di cambiare significativamente la rotta. In Parlamento.



E il Cavaliere tornò a dire: "Io cosa c'entro?"
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

"La Gasparri? E io che cosa c'entro?". Conversando amabilmente terreo coi giornalisti, l'altra sera, dopo la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la legge sulle tivù, Silvio Berlusconi era sinceramente stupito di tutte quelle domande sulle tivù. Certo, lo sa che perfino il suo compagno di salesiani Fedele Confalonieri ha spesso ammesso che "il conflitto d'interessi esiste" e che "lui non può mica risolverlo dicendo "sono affari miei, sarò un autocrate illuminato alla Federico II di Prussia"". Ma proprio non si capacita di come i nemici e addirittura certi amici non capiscano una cosa di tutta evidenza che pure ha spiegato e rispiegato: "La migliore garanzia sono io".

Macché: non si fidano. Anzi, arrivano a sospettare d'un altro fenomeno eccentrico che si va ripetendo: ad ogni incrocio di interessi economici o giudiziari, come succedeva con certi attori ai crocicchi stradali nei vecchi film del muto, lui è sempre lì per caso. Di passaggio. Per dannatissime coincidenze che, con le malelingue che circolano, finiscono per danneggiargli l'immagine. Gli è successo, ad esempio, con la legge Cirami sul legittimo sospetto quando, per difendersi dagli attacchi degli avversari che insinuavano fosse una indecenza varata con affannata urgenza dal centrodestra per tentare di cavar d'impaccio lui e Cesare Previti imputati a Milano, fu costretto a spiegare che "l'imparzialità dei giudici è un diritto fondamentale che deve essere garantito a tutti i cittadini". Lo difese a spada tratta, quel progetto. Pur non avendo, precisò, "alcun interesse personale".

Una tesi ribadita con fermezza: "Sono decisioni che spettano al Parlamento e io ne sono completamente estraneo. Tant'è che non ho neanche ben capito i motivi di questa urgenza". E confermata dalle parole del suo avvocato, Niccolò Ghedini: "La Cirami è una legge che ci è passata sopra la testa...".

Per non dire del "lodo Schifani" che sospendeva i processi alle più alte cariche dello Stato. Sarà perché stava abbattendosi a Milano una delle sentenze contro Previti co., sarà perché non risultavano sotto processo altri presidenti in circolazione, divampò un tale incendio intorno all'idea che si trattasse di una legge "ad personam" che il capo del governo, a costo di far la parte del citrullo tenuto all'oscuro delle cose, fu costretto a dettare a verbale il 17 giugno, all'udienza Sme, poco prima dell'approvazione della legge: "Ho guardato nella mia agenda: se non ci saranno fatti estranei al procedimento, che in questo momento si stanno pur discutendo e a cui non ho dato un parere positivo, perché ritengo che non debba esserci ombra su chi rappresenta il governo del Paese all'Italia e all'estero, ma dato che c'è stata insistenza...". E prese appuntamento coi giudici per la settimana dopo. Che ne sapeva, lui, che la Casa delle Libertà aveva deciso di votare l'immunità che lo metteva al riparo contro il suo parere negativo?

Tre giorni dopo il processo, non lo avevano ancora informato: "Sul lodo Maccanico la maggioranza e il governo non hanno ancora preso posizione. Io non l'ho presa". Posizione ribadita in un'intervista a Europe 1 in cui spiegava che lui, di quella legge che gli aveva fatto sfangare i processi, era del tutto ignaro: "È frutto di una iniziativa parlamentare, sostenuta dal presidente della Repubblica". Il quale, vittima in quei giorni di velenosissime insinuazioni della destra su un suo coinvolgimento nell'affare Telekom Serbia, manifestò la sua irritazione così chiaramente che Palazzo Chigi si precipitò a precisare: un equivoco.

Così è fatto, il Cavaliere. Ieri, per esempio, è tornato a ribadire: "Le osservazioni dei tecnici del Quirinale non le ho neppure lette e non le leggerò". Certo, lo sa che Emilio Fede è arrivato a dedicare a lui e al suo governo l'87% degli spazi del Tg4 . Ma lui, dell'ipotesi venga rispettata la sentenza che il 31 dicembre spedisce Retequattro sul satellite (ipotesi che renderebbe il 2004 meno fruttuoso del 2003 e di quel 2002 in cui, mentre tutto il mondo era in crisi nera, gli utili della Fininvest erano cresciuti miracolosamente del 70,8%) dice di voler stare alla larga: "Non me ne voglio occupare".

Non aveva forse detto, già otto anni fa, al momento dei referendum sulla tivù commerciale "ormai mi sono staccato dalle televisioni, per me i referendum non hanno importanza"? Macché: non gli credono. Eppure l'ha detto: "In fondo, avere tre reti televisive mi ha danneggiato". Ridetto: "Trovatemi una segretaria o un telefonista che possa dire che a Palazzo Chigi mi sono occupato della Fininvest". E ridetto ancora: "Non oso telefonare al mio gruppo perché un solo operatore telefonico potrebbe dire "Berlusconi sta chiamando"". L'ha giurato: "Io, uomo delle tivù, sono per essenza l'uomo della democrazia". Rigiurato: "Ci sono le mie garanzie personali: non compirò mai un gesto che avvantaggi gli interessi del mio gruppo". Rigiurato ancora: "La miglior garanzia è quella che può venire dall'impegno, dalla passione civile, dal disinteresse personale che io mi accingo a mettere in questo incarico".

Macché: sospettano di tutto.

Tutta colpa di qualche indecisione sparata via via nei titoli: "Sono pronto a vendere le mie aziende, ad andare anche oltre il blind trust americano. La mia vita di imprenditore si sta concludendo". "Non venderò mai le mie televisioni". "Oggi vi annuncio che ho deciso di vendere le mie aziende". "Vendere la Fininvest? Non ci penso nemmeno". "Della Fininvest terrò solo il 30%, una quota di minoranza. S'era pensato anche di vendere tutto ma si sono opposti i miei figli". E tutti lì, a fargli le pulci: e il conflitto d'interessi? E il conflitto d'interessi? E il conflitto d'interessi? Un assedio. Eppure, appena eletto, era stato chiaro: "Ho preso un impegno a dare una soluzione entro i primi cento giorni, cosa che faremo sicuramente. Immagino di poterlo fare addirittura prima delle ferie estive". Mica aveva specificato di che anno.


Prodi: la mia candidatura alle Europee è "possibile"
Redazione de
l'Unità

La mia candidatura alle Europee "è possibile". Lo ha detto Romano Prodi ad una trasmissione televisiva, ma non è ancora un annuncio. Semmai una disponibilità a parlarne, a rilanciare un'ipotesi che libererebbe la lista unitaria dalle secche in cui si è arenata. Ma il discorso del presidente della Commissione Ue, al momento, è solo teorico. E parte da un presupposto: che un commissario può candidarsi senza suscitare problemi: "Emma Bonino lo fece – spiega il professore - l'hanno fatto in tanti, ma sarà sempre più frequente perché la Commissione è sempre più un organismo politico".Dunque di fronte a una sua candidatura, precisa Prodi, "non ci sarebbe nessuna violazione. Credo però che sia un bene che io faccia fino in fondo il mio dovere qui alla Commissione".
Le parole del Professore suscitano la piena approvazione di Piero Fassino, il cui commento è anche un invito a compiere ulteriori passi avanti: "Le parole di Romano Prodi sono molto importanti – afferma il segretario Ds - perché il progetto della lista unitaria è nato su sollecitazione di Prodi, si è alimentato del suo manifesto europeo, ed è evidente che la presenza di Prodi alla testa della lista unitaria ulivista per le europee ne accrescerebbe credito, autorevolezza e capacità di attrazione. Mi auguro che si vada in questa direzione". Gli stessi concetti vengono ribaditi anche da Dario Franceschini, coordinatore della Margherita: "Da tempo diciamo che è necessario che chi propone un grande disegno politico poi lo guidi". Ma c'è di più: "Una sua disponibilità ad essere presente nelle liste, da sola aiuterebbe a risolvere tutti i problemi sorti in questi mesi rispetto ad un'apertura della lista a tutti quelli che sono disponibili a starci, Di Pietro compreso. La sua presenza garantirebbe di proseguire tenendo la lista aperta senza forzature e scontri interni". Un'ipotesi, quest'ultima, raccolta anche dallo Sdi: "Può aiutare a superare i problemi, non voglio forzare ma si apre una possibilità", commenta Roberto Villetti.
I prodiani però frenano: "Nulla di nuovo nelle parole di Romano Prodi" …


Europa senza programma
Gianni Vattimo su
La Stampa

Non è solo a causa della cattura di Saddam, che è stata abilmente giocata, almeno in Europa, per attutire gli effetti del fallimento della Conferenza di Bruxelles. Forse anche senza questo annuncio clamoroso, l'opinione pubblica europea non sarebbe stata profondamente scossa dalla mancata approvazione della nuova costituzione europea. Che è certo un fatto grave, la cui portata, però, come spesso è accaduto in altri momenti della difficile storia dell'Unione, non riesce a farsi sentire e a provocare emozione nell'animo dei cittadini del nostro Continente. Una constatazione come questa, che è ovviamente solo fondata su una impressione ma che sembra ragionevolmente sostenibile, deve far riflettere tutti coloro che, per ragioni di ufficio o per considerazioni politiche generali, hanno invece risentito profondamente di quanto è accaduto nell'ultimo fine settimana. Possibile che mentre si era a un passo dalla realizzazione del sogno di Altiero Spinelli e degli altri padri fondatori, si sia mandato (quasi) tutto in aria senza che l'opinione pubblica d'Europa abbia dato segno di risentire con qualche emozione questo scacco? Fondata o meno che sia l'impressione di indifferenza, si deve almeno prendere atto che, rispetto al clima che si respirava al tempo delle ultime elezioni europee (1999) o anche, piu´di recente, al momento della introduzione dell'Euro, oggi la temperatura emotiva intorno all'Unione europea è gravemente calata. Più che una causa, il fallimento di Bruxelles appare già un effetto di questo calo di tensione.

Ma più importante ancora di tutto ciò, è il fatto più generale che i cittadini europei non hanno avuto modo di capire la portata politica, e non solo istituzionale, del progetto di Costituzione che non è stato approvato. Del resto, erano propositi politici quelli che muovevano i padri fondatori: si trattava di evitare per il futuro le sanguinose guerre tra i grandi paesi del continente, e poi di favorire la ricostruzione dell'Europa del dopoguerra; non di realizzare una unificazione scelta per se stessa, per amore dell´unità come tale. Nemmeno le lotte per l'unità nazionale dell'Ottocento erano ispirate da puro patriottismo unitario.

Ma oggi? Se non si ha il coraggio di dire che vogliamo una Europa federale e capace di decisioni perché è la condizione per una economia più forte ma anche per una legislazione sociale più solidale, per una politica mondiale meno succube degli Stati Uniti, anche se non necessariamente antiamericana, e più rispettosa dei diritti del cosiddetto Terzo Mondo; insomma, se non si lega chiaramente l'ideale istituzionale europeo a un programma politico non generico come quelli che mettono d'accordo tutti senza impegnare nessuno - perché i cittadini europei dovrebbero sentirsi coinvolti dai destini della costituzione e da quelle che appaiono ancora a molti semplici beghe tra stati nazionali incapaci di guardare oltre gli interessi immediati delle loro classi dirigenti?


Procura di Torino: inventate le accuse a Prodi, Fassino e Dini
Redazione del
Corriere della Sera

TORINO - Igor Marini rischia fino a quindici anni di carcere. Questa la pena prevista per la calunnia, reato contestato al sedicente promotore finanziario che si era presentato come uomo chiave per risolvere il giallo Telekom Serbia. Questa mattina, nella cella del penitenziario torinese delle Vallette in cui è rinchiuso sin dalla fine dello scorso luglio, Marini ha ricevuto un ordine di custodia cautelare: la Procura di Torino lo accusa di avere montato ad arte un castello di false accuse contro esponenti politici di primo piano (dal presidente della Commissione europea Romano Prodi agli attuali leader dei Ds e della Margherita, Piero Fassino e Francesco Rutelli, dall'ex ministro degli esteri Lamberto Dini alla moglie Donatella, dal sindaco di Roma Walter Veltroni al numero uno dell'Udeur Clemente Mastella) e ad almeno un'altra ventina di persone.

"SI E' INVENTATO TUTTO" - La tesi del faccendiere era che sull'operazione che nel 1997 portò Telecom Italia ad acquisire una quota della compagnia di telecomunicazioni jugoslava fossero state ricavate tangenti supermiliardarie. Ma adesso i pm Marcello Maddalena e Bruno Tinti, dopo indagini che li hanno portati persino a compiere rogatorie in Europa e in Estremo Oriente, affermano che si è inventato tutto. E in un'ordinanza di 90 pagine il gip Francesco Gianfrotta lo incolpa di calunnia e di autocalunnia. Marini ha dichiarato, "con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso", alla Procura e alla Commissione parlamentare che Prodi, Dini e Fassino avevano stretto con il presidente jugoslavo, Slobodan Milosevic un accordo scritto, chiamato "Telekom Assegnation", con il quale i politici italiani si sarebbero assicurati il 40% di 873 milioni di dollari.

LE INDAGINI PROSEGUONO - Così, almeno dal punto di vista giudiziario, la magistratura torinese dice la sua sul giallo che ha arroventato i rapporti fra centrodestra e centrosinistra per mesi e mesi. Ma la questione è tutt'altro che chiusa: la Procura starebbe vagliando la posizione di altri personaggi che avrebbero aiutato Marini a mettere assieme la sua personalissima ricostruzione dei fatti.

LA REPLICA - L'avvocato Luciano Randazzo, il legale che, con Magdalena Giannavola, assiste Marini, replica così: "Marini è come Giovanni Guareschi (lo scrittore che negli anni cinquanta finì in carcere per avere criticato pesantemente Alcide De Gasperi, ndr). Guarda caso, tutte le volte che si toccano i politici di una certa levatura ecco come va a finire". Randazzo ne ha anche per la Commissione parlamentare di inchiesta e in particolare per il suo presidente, Enzo Trantino, che ha intenzione di denunciare. "Qualcuno - dice - mi deve spiegare perché Marini, fino a qualche tempo fa, era considerato attendibile al punto da ottenere una scorta e un regime di sorveglianza straordinario".

RUTELLI - Il presidente della Margherita Francesco Rutelli commenta come "una piccola soddisfazione" il nuovo ordine di custodia cautelare nei confronti di Igor Marini. "In galera finisce lui - ha sottolineato il coordinatore dell'Ulivo - e per quanto riguarda noi, che siamo stati molto pazienti e misurati, vedremo quanti denari riceveremo per risarcimento danni. Anche dalla stampa libera che ha dato retta a quel delinquente".


Poveri lavoratori
Massimo Gramellini su
La Stampa

Nel silenzio assordante della politica, giustamente impegnata a salvare i Mille di Emilio Fede, l'Annuario 2003 dell'Istat ha fornito ieri un dato da allarme rosso. Crescono gli occupati (+315.000) ma non la distribuzione della ricchezza. Quasi 4 famiglie su 10 dichiarano di star peggio di un anno fa. Salta il nesso, che pareva scontato, fra lavoro e benessere. Il posto sicuro non rappresenta più una garanzia di sopravvivenza dignitosa e al trauma di chi lo ha perso, o lo cerca senza trovarlo, si aggiunge adesso quello di chi uno stipendio ce l'ha, ma troppo basso per consentirgli di conservare il tenore di vita a cui aveva abituato la propria famiglia.

Lo sciopero selvaggio dei tramvieri è l'avvisaglia di un vento gelido che, per tacer dei pensionati, spira ormai su milioni di dipendenti e di "flessibili", che pur rientrando nella casella "buona" degli occupati, guadagnano cifre insufficienti a contrastare l'aumento delle tariffe e dei servizi garantiti un tempo dallo Stato.

Nella pancia della società sta crescendo una generazione di giovani lavoratori che riescono a mantenere a malapena il livello di benessere che avevano quando studiavano. E soltanto grazie all'aiuto dei genitori, le cui entrate vengono così spremute fino all'osso, azzerando qualsiasi propensione familiare al risparmio. Sullo sfondo si accendono le luci del luna park natalizio. Ma a che scopo, se il ceto medio per il quale era allestito lo spettacolo non è messo in condizione di parteciparvi?


Kofi Annan: "E ora il potere agli iracheni"
G. S. su
il Manifesto

La cattura di Saddam Hussein rappresenta un "nuovo inizio" per l'Iraq ha detto ieri il segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan intervenendo al dibattito del Consiglio di sicurezza sul futuro del paese. "Una opportunità di un nuovo inizio nel ruolo vitale di aiutare il popolo iracheno ad assumere il controllo del proprio destino", per "aiutarlo a creare un sicuro, stabile e indipendente Iraq, che possa nuovamente prendere il posto che gli spetta nella regione e nella comunità internazionale". Annan ha detto che l'Onu non si tira fuori, vuol giocare la sua parte, ma il personale resterà fuori dal paese - ad Amman e Nicosia - finché le condizioni non permetteranno la riapertura di un ufficio a Baghdad. Il personale straniero dell'Onu aveva abbandonato progressivamente l'Iraq dopo l'attentato del 19 agosto che aveva provocato ventidue morti, tra cui l'inviato speciale Sergio Vieira de Mello. Al suo posto Kofi Annan nei giorni scorsi ha nominato ad interim il neozelandese Ross Mountain. Uno dei compiti del nuovo inviato sarà proprio quello di preparare un eventuale ritorno dell'Onu in Iraq. Perché, ha rimarcato non senza una vena polemica il "ministro" degli esteri iracheno Hoshyar Zebari, "il vostro aiuto e competenza non può essere efficace operando da Amman e Cipro". Zebari, che ha accusato l'Onu di aver abbandonato il suo paese lasciando Saddam al potere per decenni, ha chiesto all'Onu l'assunzione immediata di un ruolo di primo piano a Baghdad. Un ritorno che secondo l'ex ambasciatore Jeremy Greenstock, inviato britannico in Iraq, non avverrà prima della prossima estate quando sarà formato il governo di transizione iracheno. Una scelta forse non dettata solo da questioni di sicurezza ma anche da opportunità politica. Annan ha infatti sottolineato che il processo per la restaurazione della sovranità agli iracheni è urgente e "finché non ci saranno le condizioni per organizzare libere, oneste e credibili elezioni a questo scopo, è essenziale che il processo che porta alla formazione di un governo provvisorio sia comprensivo di tutti e trasparente".

Mentre il dibattito dopo la cattura di Saddam è in gran parte concentrato su chi lo deve processare, Kofi Annan ha detto che questo giudizio "sarà una parte importante nel processo di riconciliazione nazionale dell'Iraq". Annan ha ribadito, in netto contrasto con Bush, la sua opposizione alla pena capitale per l'ex rais, perché l'Onu "è contraria alla pena di morte e non la prevede nei suoi tribunali". Un ruolo dell'Onu nel tribunale che dovrà giudicare i crimini commessi dal regime di Saddam è auspicato da molte parti e per conciliarlo con la richiesta degli iracheni che rivendicano il diritto al processo, viene avanzata l'ipotesi del tribunale "misto" (iracheni più Onu) sul modello della Sierra leone. Un processo internazionale, richiesto anche da Raghad, una delle figlie di Saddam, potrebbe essere più imbarazzante per le potenze occidentali, perché potrebbe riportare sotto i riflettori i passati rapporti del rais con, tra gli altri, Donald Rumsfeld, principale artefice della guerra ancora in corso.

Se prevarrà la scelta di affidare Saddam al tribunale speciale iracheno deciso il 10 dicembre, con tutte le preoccupazioni che ha sollevato, i tempi non saranno comunque brevi. Ci vorranno mesi prima che sia operante, ha detto Dara Nooraldin, un giudice membro del Consiglio governativo che lo ha istituito. E per quanto riguarda la pena di morte, sarà il governo di transizione a decidere, ha detto il giudice.

Continuano intanto le manifestazioni contro la cattura dell'ex rais che non coinvolgono solo i "nostalgici".



  17 dicembre 2003