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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 11 dicembre 2003


Tra divieti e cattiva coscienza ritorna la morale di Stato
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

NON credo che l'ipotetica richiesta d'un referendum abrogativo per cancellare la legge sulla fecondazione assistita, che oggi sarà approvata dal Senato, avrebbe successo. Non ho dubbi che la maggioranza dei cittadini italiani (e le donne in particolare) siano d'accordo sull'abrogazione, ma il tema riguarda direttamente una ristretta minoranza, il testo della legge è particolarmente complicato, i grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani di chi sappiamo; per di più la nostra è una società tendenzialmente indifferente alla cultura dei diritti. Molto probabilmente la maggioranza silenziosa favorevole all'abrogazione non andrebbe a votare in massa; quella favorevole alla legge tantomeno. Sicché il risultato più probabile sarebbe il fallimento del referendum per mancanza del quorum necessario per la validità del voto.

Nemmeno la sponda dell'incostituzionalità può essere invocata, né presso il presidente della Repubblica né presso la Corte: questa legge è infatti un obbrobrio ma non mi pare che confligga con le norme e neppure con i princìpi della nostra Costituzione per il semplice fatto che quando la Carta fu redatta dai padri costituenti la scienza era ancora ben lontana dai progressi successivamente compiuti e la cosiddetta fecondazione assistita non era neppure ipotizzabile.

La conseguenza di queste premesse è che mai come in questo caso il Parlamento è l'unico luogo nel quale la questione sarà decisa senza appello. I membri del Senato debbono pertanto essere ben consapevoli della gravità del compito che peserà sulla loro coscienza nelle prossime ore, quale che sia lo schieramento politico e il partito cui appartengono.

La Chiesa può ricordare ai suoi fedeli le conseguenze che, a suo sindacabile giudizio, possono derivare da certi comportamenti; ma nulla più di questo può fare.
Tantomeno affidarsi e invocare il braccio secolare (politico) dello Stato per far rispettare i suoi - sindacabili - prescritti. Sindacabili, intendo dire, dai suoi stessi fedeli che hanno tra i loro imprescrittibili diritti quello di conoscere direttamente e direttamente interpretare la parola di Dio.

Ma se può esser messa in discussione dagli stessi fedeli la posizione della Chiesa su questioni che attengono al libero arbitrio degli individui, per quanto riguarda lo Stato il problema non può neppure esser posto.

Eppure, quando si abbiano ben chiari nella mente i principi del liberalismo laico, la conclusione è evidente: un liberale laico rifiuta e combatte contro ogni idea di Stato etico, cioè di un'etica fatta propria e fatta valere dallo Stato. Qualsiasi etica: cristiana, pagana, atea, capitalistica, socialista.

L'addebito maggiore che il liberalismo laico addossa ai regimi totalitari, fascisti o comunisti che fossero, è stata quella d'aver imposto ai popoli un'idea etica dello Stato.

Ebbene, chi è contro l'etica di Stato non può accettare una legge che ne è impregnata, che usa violenza e coazione contro il libero convincimento delle persone, che ne presume l'incapacità di scegliere la cosa giusta e ne assume perciò la tutela in nome di un'etica che nessuno gli ha delegato né intende delegargli.

Per questo la legge sulla fecondazione assistita è da rifiutare: è una legge fondata sulla base di un'etica che lo Stato ha ritenuto di darsi, mutuandone i principi dalle indicazioni - sindacabili da parte dei fedeli - della Chiesa di Roma. Non credo che altri paesi di cultura cristiana e anche cattolica, non credo che i loro liberi Parlamenti accetterebbero una legge siffatta, che espropria la coppia e la donna in particolare del diritto di disporre del proprio futuro e del proprio corpo. A noi soltanto deve toccare questo tristissimo privilegio?

* * *

Le prime avvisaglie di questa invasione si ebbero qualche anno fa quando si cominciò a discutere d'una questione quanto mai complessa e cioè della distinzione scientifica tra il feto e l'embrione.

Discussione soprattutto scientifica sebbene subito contaminata dall'irruzione dell'ideologia. Detta con parole chiare, si discuteva in quale momento un gruppo di cellule formatesi dentro il corpo della donna fossero ancora parte di quel corpo o avessero acquistato una propria individualità diversa da quella maternale e quindi portatrice di diritti alternativi.

Questo punto era ed è di capitale importanza. Del resto esso era già stato legislativamente risolto dalle norme previste per l'aborto volontario, che mantenevano ferma la distinzione tra embrione e feto.

Questa distinzione, che è di speciale importanza e che aveva dalla sua parte non solo le opinioni quasi unanimi della scienza ma anche il senso comune, è stata completamente scavalcata dalla legge sulla fecondazione assistita che non soltanto la abolisce ma addirittura fa cominciare i diritti del nascituro nel momento in cui la donna accetta di ricorrere alla fecondazione dei suoi ovuli che sono, all'evidenza, parti del suo corpo sulle quali nessuno può interferire con decisioni esterne e coattive.

La legge prevede infatti che, nel momento in cui la donna accetta di fornire i suoi ovuli affinché siano fecondati, ne perda la disponibilità dovendosi impegnare a farli successivamente impiantare nel proprio corpo in una misura predeterminata dalla legge stessa, anche nel caso in cui l'ovulo fecondato sia portatore di alterazioni e malattie genetiche delle quali viene addirittura vietato l'accertamento.

Il colmo della contraddizione risulta dal fatto che la donna, vittima d'una così palese violenza, può tuttavia ricorrere all'aborto volontario terapeutico previsto dalla relativa legge, vanificando in tal modo la violenza che le è stata imposta.

Non a caso già qualche eminente porporato ha osservato che una norma siffatta conduce, per logica coerenza, alla revisione se non addirittura all'abolizione della legge sull'aborto visto che due leggi confliggono in un punto fondamentale. Lo Stato etico, quando si materializza in un punto del tessuto normativo, si espande poi con estrema rapidità fino a permeare l'intero organismo politico, legislativo, terapeutico, giudiziario. Se cedi su un punto non ti salverai più da quel tumore che alla fine avrà invaso l'intero organismo della democrazia liberale.

* * *

Il disegno di legge è nato, come era giusto che avvenisse, per iniziativa parlamentare, non dovendo e non potendo il governo della Repubblica essere coinvolto da problemi delicatissimi che riguardano esclusivamente la coscienza individuale dei singoli dei membri del Parlamento. Per la stessa ragione anche i partiti avrebbero dovuto astenersi dal dare ai singoli parlamentari direttive e indicazioni che introducessero nel libero dibattito e nella libera votazione motivazioni "altre", convenienze elettorali, calcoli di schieramento, eccetera.

Questi paletti sono stati più o meno rispettati durante l'iter parlamentare alla Camera dei deputati ma, arrivato il testo in Senato, lo scenario è cambiato di colpo. Anzitutto nel centrodestra, dove tutti i partiti della coalizione hanno rilasciato dichiarazioni di adesione incondizionata a quel testo.

La vera svolta tuttavia è avvenuta martedì per opera naturalmente del solito Schifani. Il quale ha solennemente informato che "il governo non è neutrale sulla legge in discussione" ed ha di conseguenza emanato istruzioni e circolari al suo gruppo per assicurare la presenza in aula di tutti i componenti e il voto conforme su tutti gli articoli in discussione e sulla legge nel suo complesso affinché la vicenda si concluda entro oggi "senza ping-pong" tra Camera e Senato.

Questa irruzione dei partiti e dello stesso governo ha cambiato, come è evidente, i termini della questione. Le cautele fin qui osservate per consentire a tutti i membri del Senato un effettivo voto di coscienza del quale ciascuno di loro dovrà individualmente rispondere di fronte a se stesso e ai propri elettori, sono platealmente saltate materializzando plasticamente il fantasma dello Stato etico che da tempo aleggia sulle nostre istituzioni.

Non meno aberrante mi sembra quanto sta accadendo all'interno della Margherita e in particolare nel comportamento di Francesco Rutelli che di quel partito è il presidente oltre ad aver conservato la qualifica di coordinatore dell'Ulivo.

Rutelli, pur con la generica dizione di non condividere in tutto il testo in discussione, ha dichiarato formalmente e per scritto in una polemica lettera indirizzata al segretario del Partito radicale, che la legge avrà il sì della Margherita. Ne è seguita addirittura una conta all'interno di quel gruppo parlamentare che si è conclusa con 19 voti in favore delle posizioni di Rutelli e 16 contro, tra i quali gran parte dei prodiani e di laici e repubblicani.

Non può sfuggire ai dirigenti e ai parlamentari della Margherita che avere politicizzato così platealmente le loro posizioni "di coscienza" fa tabula rasa appunto della coscienza e riporta il tema a dimensioni puramente politiche, cioè lo immiserisce e lo riduce a calcoli e convenienze di partito. Sicché il voto finirà per essere così come non avrebbe dovuto: a favore o contro il governo che si è dichiarato parte in causa; il tutto sulla pelle delle donne, dei nascituri, dei feti, degli embrioni e degli ovociti. E chissà se non saranno messi in causa prima o poi anche gli spermatozoi che qualche ruolo pure hanno nella complessa questione.

Chissà che cosa ne pensa Prodi, il cui partito d'un tempo è confluito nella Margherita. Voci maliziose insinuano che le divisioni in quel fiore dai dolci petali sarebbero anche provocate da chi vuol mettere a rischio la lista unitaria dell'Ulivo e la stessa candidatura prodiana. Sarebbe il colmo, ma se ne vedono tante in giro di questi tempi...


Procreazione assistita: la legge, gli articoli, le schede, i grafici
un dossier di
la Repubblica



Scienza e coscienza
Ida Dominijanni su
il Manifesto

Trionfali lanci d'agenzia annunciano che l'Ulivo, anzi tutta l'opposizione, ha trovato la sua unità sulle riforme istituzionali. Accade in un vertice di nove uomini alla camera, nelle stesse ore in cui al senato l'Ulivo perde la faccia e qualcosa di più sulla pelle delle donne. Gli elettori e soprattutto le elettrici saranno lieti di votare una coalizione, anzi una lista unica, compatta e riformista sui poteri del premier e sfracellata e controriformista su quisquilie da niente come lo statuto dell'embrione e la laicità dello stato. Ma nell'Ulivo è opinione comune, questa sì, che i poteri del premier siano una questione politica e di interesse generale, mentre la procreazione assistita è una questione privata e di coscienza, e che c'entra la coscienza con la politica? Vanno presi sul serio. In scienza e coscienza, non per subalternità all'ideologia cattolica o alle gerarchie vaticane ma per profonda convinzione, i senatori della Margherita, d'accordo con quelli della Casa delle libertà, ritengono che l'embrione sia una persona contrapposta alla madre, che le donne siano mediamente delle irresponsabili e i ginecologi dei delinquenti. Che la ricerca medica sia sospetta per definizione. Che lo stato e la legislazione debbano indirizzare, sorvegliare e punire le scelte morali dei cittadini. Che l'unica famiglia degna di chiamarsi tale sia quella col bollo del parroco o del sindaco, che single e gay godono di diritti inferiori a quelli degli eterosessuali e degli accoppiati, che si debba decidere per via amministrativa, forse contando quanti spazzolini da denti ci sono in una casa, se un uomo e una donna convivono o no. In scienza e coscienza ritengono che una donna partorirà con dolore in natura, e si farà inseminare con le sevizie in un laboratorio.

Sta a tutti, sta alle donne in primo luogo, dentro il parlamento e fuori soprattutto. Non è in questione un elenco di divieti, che sono trasgredibili quanto una legge è abrogabile, e si sa che il desiderio di essere e di non essere madre difficilmente si ferma dinanzi a dei divieti. E' in questione qualcosa di più, uno schiaffo alla soggettività e alla libertà femminile, un «adesso basta» che il parlamento pronuncia e che una sponda mediatica autorizza. Sta a noi trasformarlo in un boomerang.


Pensioni, moratoria per un mese
Fini: resta aperto un tenue filo di dialogo. I sindacati: confronto, non trattativa
Maroni conferma l'impianto della delega: sospendiamo il voto sugli emendamenti, ma la vareremo entro gennaio
Luciano Costantini su
Il Messaggero

ROMA Un mese esatto di tempo per «condurre un confronto serrato» nella speranza di arrivare ad un accordo. Tre ore di trattativa a palazzo Chigi tra governo e sindacati (il vice premier Fini, i ministri Tremonti, Maroni, Alemanno da una parte; Epifani, Pezzotta e Angeletti dall'altra) hanno sostanzialmente partorito una tregua armata nel durissimo confronto sulla riforma delle pensioni. E' stato lo stesso Maroni, al termine del vertice, a precisare che il negoziato andrà avanti sino al 10 gennaio con l'impegno a varare la delega, presentata dal governo, entro il prossimo mese. In pratica, il testo in discussione resta quello elaborato dall'esecutivo e su di esso i sindacati potranno apportare delle correzioni. Resta lo spartito, da oggi ad un mese può cambiare la musica. «Domani (oggi per chi legge) - ha aggiunto il titolare del Welfare - si chiuderanno i termini per la presentazione degli emendamenti, ma non si procederà alla loro votazione fino al 10 gennaio augurandoci che il confronto possa portare alla definizione di un accordo o almeno una proposta condivisa».

Il vice premier, Gianfranco Fini, ha giudicato la riunione «positiva perchè non si è interrotto il filo del dialogo, che certamente è un filo sottile», ma ha pure ribadito che il governo «è indisponibile al ritiro della delega per verificare se una proposta alternativa può avere una valutazione positiva da parte dell'esecutivo. Il tempo che abbiamo offerto non è breve. Non siamo di fronte ad una trattativa, ma ad un confronto tra visioni completamente diverse. Oggi uno dice bianco e l'altro dice nero, bisogna vedere se sarà possibile arrivare al grigio».
I sindacati hanno ottenuto un mezzo successo o una mezza sconfitta (c'è da stabilire come si vede il classico bicchiere) perchè comunque la delega resa congeleta, tuttavia hanno tenuto a precisare che non si è aperta una fase di trattativa, ma che, più precisamente, prosegue il confronto. Che è cosa diversa. Questo per ribadire che Cgil, Cisl, Uil non intendono apportare eventuali emendamenti al provvedimento elaborato dal governo, ma ridiscutere profondamente l'impianto dell'intera riforma. Più che esplicito il leader della Cgil: «Non vogliamo sottraci al confronto, ma è un confronto e non è una trattativa perchè non c'è una piattaforma. L'esecutivo ha espresso il suo punto di vista, noi il nostro. Il tutto può finire anche con uno sciopero». Nel senso che Epifani disconosce, o almeno non legittima, il progetto dell'esecutivo. «Abbiamo lanciato una serie di proposte - ha spiegato Pezzotta - nel frattempo resta fermo l'iter parlamentare ed è chiaro che non parte neppure la lettera agli italiani del presidente del Consiglio. C'è una tregua anche se armata. Il sindacato? E' unito come la Santa Trinità».



Berlusconi difende la Gasparri
"Giornali obsoleti, futuro digitale"
"Quotidiani e periodici sono vecchi e per un'elite"
"Approvata una legge pluralista e contro i monopoli"
su
la Repubblica

ROMA - I giornali? "Obsoleti: le massaie non li leggono, sono fatti per l'elite". In occasione della presentazione del libro di Bruno Vespa, il presidente del Consiglio dice la sua sull'informazione prendendo le difese sia delle nuove tecnologie che delle tv che "rappresentano il progresso". Argomento perfetto per difendere la legge Gasparri appena approvata dal Parlamento e in attesa della firma di Ciampi: "E una legge pluralista, contro gli oligopoli e i monopoli".

"Non potete fermare il progresso tecnologico. Voi non potete fermare il digitale. Quando la tecnologia presenta delle forme possibili di comunicazione, non la si può fermare. Questo è il progresso che avanza..." dice Berlusconi alludendo alle novità contenute nella legge Gasparri, a cominciare dal digitale terrestre.

Che rappresenta il progresso che non si può arrestare anche a discapito della stampa: "I giornali, i periodici fanno parte di una stagione della comunicazione. Oggi, per esempio c'è Internet, che fornisce a domicilio tutte le notizie immaginabili. Non attribuite quindi alla televisione - dice il premier rivolto ai mediatori del dibattito, i direttori de La Stampa Marcello Sorgi e del Messaggero Paolo Gambescia - la possibilità di togliervi dei lettori. Voi fate dei bellissimi giornali. Non dico che non siete capaci di farli. Anzi. Sono giornali bellissimi, ma li fate per una elite di cittadini. La carta stampata fa parte di un momento dello sviluppo della tecnologia e della comunicazione. Non so indicarvi io la soluzione, ma quando ci sono prodotti che diventano obsoleti bisogna prendere altre strade".

Quando gli viene obiettato che la legge Gasparri favorisce gli introiti pubblicitari per le tv a scapito della carta stampata, Berlusconi nega: "Il limite di raccolta per le tv non è toccato". Per il capo del governo si potrebbe verificare l'eventualità di una perdita di quote di pubblicità, "ma perché nel mondo delle televisioni ci saranno nuovi protagonisti". Nessun vantaggio per Mediaset o per la Rai: "I giornali non raggiungono la popolazione acquirente di determinati prodotti, poiché non c'è nessuna massaia che legge i giornali. Il 70% degli articoli pubblicati non vengono letti da nessuno". E quando gli editori aspirano a togliere fette di pubblicità alle tv (in particolare sui generi alimentari o sui pannolini) "si illudono" perché "nessuna massaia legge i giornali".

Quanto alla satira, Berlusconi chiarisce: "Si vuole fare passare per censura l'oltraggio ed il vilipendio alle istituzioni. Si grida al regime, ma la satira non può diventare insulto ed esplosione d'odio. Il diritto di ciascuno finisce quando comincia il diritto di un altro".

E la libertà di stampa? "L'Italia è ai primi posti per assoluta e totale libertà di stampa".


La repubblica del dottor sottile
Ulivo, Idv e Prc approvano la proposta di riforma costituzionale di Amato. Il Polo entusiasta: «Finalmente»
A. CO. su
il Manifesto

ROMA - Non è solo la proposta del centrosinistra, che pure la sottoscrive compatto. E' anche quella di Antonio Di Pietro, che esprime il suo consenso senza mezzi termini, e di Rifondazione comunista, anche se Bertinotti, prudente, si limita alla «previsione di una possibile convergenza». Del resto, non a caso nel progetto di riforma costituzionale approntato da Giuliano Amato i soggetti sono «le opposizioni di centrosinistra e di sinistra». Il disegno sul quale Rutelli vanta «convergenze molto promettenti» e che Amato, modesto, definisce solo «un passo avanti» si scosta quasi su tutto da quello partorito dai «saggi» della maggioranza a Lorenzago. Non parla di elezione diretta del premier e neppure di indicazione sulla scheda: impone solo di notificare in campagna elettorale il nome del candidato. Una volta eletto, il medesimo candidato dovrebbe comunque ottenere la fiducia delle camere, ma solo sul suo nome: come nel disegno del centrodestra avrebbe infatti il potere di nominare e revocare i ministri. Scompare il potere di scioglimento delegato al premier (sul quale però la Casa delle libertà aveva già fatto parecchi passi indietro di suo). C'è invece la norma antiribaltone: il capo del governo può essere sostituito, ma solo se ad appoggiare il suo successore è la stessa maggioranza. Al senato, come nel progetto di Lorenzago, non spetterebbe più il compito di votare la fiducia. Anche la divisione dei compiti tra le due camere non differisce granché da quella ipotizzata dalla maggioranza. L'opposizione insiste però perché la finanziaria sia vagliata anche dal nuovo senato.

Il capitolo più delicato riguarda la devolution. Le opposizioni sono pronte ad accettare «ragionevoli aggiustamenti» delle competenze regionali. Si oppongono però fermamente alla frattura dell'unità del servizio sanitario nazionale e di quello scolastico. In concreto, si oppongono alla devolution in salsa bossiana..

Il disegno prevede infine una serie di garanzie per l'opposizione, capitolo ignorato dalla destra. Il quorum per eleggere il presidente della repubblica e quelli delle due camere dovrebbe essere innalzato. Alla Corte costituzionale dovrebbero essere affidati alcuni nuovi poteri, come la decisione finale nelle cause di controversia nelle elezioni, nonché su quelle di ineleggibilità. Le opposizioni dovrebbero poi avere i loro portavoce parlamentari e contare su uno «statuto dell'opposizione» che permetterebbe di istituire commissioni di inchiesta e di ricorrere alla Consulta contro le violazioni del regolamento. Il testo cita infine il conflitto di interessi. Chiede di introdurre alcune «norme adeguate a garantire il pluralismo nell'informazione» e altre atte a prevenire i possibili conflitti di interesse in base alle professioni dei candidati «a partire da quelle nel settore dei mezzi di comunicazione di massa».

Nonostante le moltissime differenze, il centrodestra (Lega esclusa) ha accolto quasi con entusiasmo la presentazione del progetto di Amato. «Auspichiamo con tutto il cuore un'apertura dell'opposizione sulle riforme», ha esclamato speranzoso Berlusconi. «Anche la sinistra - ha proseguito - ha il problema del cambiamento: spero sia possibile raggiungere un accordo sulla legge elettorale». Sin qui è repertorio, poi però il premier aggiunge un'apertura concreta: «Sarà il capo dello stato a sciogliere le camere, però non ci potrà essere un cambio di maggioranza».

E Il presidente della commissione affari costituzionali della camera Bruno, già intravede un possibile «tavolo di confronto». Sono reazioni giustificate. Non dal merito della proposta Amato, ma dalla sua stessa presentazione. E' un passo limitato ma concreto in direzione di quel dialogo che il premier invoca e di cui, soprattutto, ha bisogno.


Telekom , la commissione archivia Marini. E' polemica
Centrosinistra: atto pilatesco
Fabrizio Rizzi su
Il Messaggero

ROMA - Arriva, sul filo di lana, un nuovo memoriale con il quale Igor Marini lancia accuse su Enzo Trantino («Dov'è la parola del presidente?») e sul commissario ds, Kessler (che risponde annunciando querela). Ma il presunto teste delle tangenti per «Telekom-Serbia» (in carcere a Torino dall'estate scorsa) viene fatto uscire di scena dalla commissione. Un documento della maggioranza (15 voti a favore, 11 contro) è approvato tra le proteste del Centro-sinistra il quale, prima di chiudere il capitolo, avrebbe voluto che si facesse luce sui tentativi di inquinamento della commissione per introdurre il «conte». L'Ulivo parla di scelta «pilatesca».
Ma la presa di posizione del Polo sembra spiazzare gli avversari (le firme sono di Calderoli, Cantoni, Consolo ed Eufemi) con una nota in cui rimette all'autorità giudiziaria di Torino (che ha avviato indagini sull'attendibilità del testimone) «ogni valutazione» e sospende le «attività istruttorie» che coinvolgono il conte. Un'archiviazione, senza appello. Per l'opposizione è solo apparenza.

A questo punto, come sottolinea il Centrodestra, i lavori andranno avanti per accertare le responsabilità politiche che riguardano la quota acquistata dal colosso telefonico in Serbia. «E' prevalsa la linea del buonsenso» ha osservato il senatore Giampiero Cantoni, Fi. Ed il senatore Giuseppe Consolo, An, ha dichiarato di non comprendere «il senso di alcune affermazioni del Centrosinistra».


Stati Uniti
Iraq, niente soldati niente soldi
apertura de
il Manifesto

Il Pentagono detta i criteri per la ricostruzione Chi spara incassa: l'Italia c'è, Francia Germania e Russia no
Il vice-segretario alla difesa Paul Wolfowitz ha emesso la direttiva sul criterio di assegnazione dei contratti per la «ricostruzione» dell'Iraq, per la somma di 18,6 miliardi di dollari. Da convinti sostenitori del «libero mercato», da Washington, ci si poteva aspettare una libera gara internazionale. Il criterio adottato si ispira invece al più puro protezionismo di marca coloniale: «E' necessario, per la protezione degli essenziali interessi di sicurezza degli Stati uniti, limitare la competizione per i contratti primari a imprese degli Stati uniti, dell'Iraq, dei partner della coalizione e dei paesi che contribuiscono alla forza schierata in Iraq». La direttiva elenca così i 63 paesi «eleggibili», su insindacabile giudizio del Pentagono, che con le loro imprese parteciperanno alla gara per l'assegnazione di 26 contratti per la «ricostruzione della infrastruttura di un libero Iraq», dal «ripristino dei servizi petroliferi» all'«equipaggiamento del nuovo esercito». Ecco le esclusioni. Sui 15 paesi dell'Unione europea ne vengono esclusi nove: Germania, Francia, Belgio, Austria, Svezia, Finlandia, Irlanda, Grecia, Lussemburgo. Sono i cattivi che non hanno sostenuto o, peggio, hanno avversato la guerra Usa all'Iraq. Vengono invece premiati i buoni che l'hanno sostenuta: Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi e Danimarca. Insieme a questi vengono premiati i paesi dell'Est che, appena entrati nella Nato, si sono guadagnati i gradi sul campo, Polonia in primis.


Iraq, esclusi dalla ricostruzione
i Paesi che dissero no alla guerra
Berlino: "inaccettabile". Parigi vaglia "la legalità" della decisione
su
la Repubblica

ROMA - Niente appalti per i Paesi che si opposero alla guerra in Iraq. Francia, Germania e Russia saranno escluse dalla suddivisione dei ventisei principali contratti per la ricostruzione del Paese, per un valore complessivo di 18,6 miliardi di dollari, che saranno pubblicizzati nei prossimi giorni. La decisione è stata annunciata in un documento firmato dal vicesegretario alla Difesa americano Paul Wolfowitz. E se Berlino ha definito la decisione "inaccettabile", Parigi ha annunciato che ne vaglierà la legalità.

"E' necessario, per la protezione degli interessi essenziali di sicurezza degli Stati Uniti, limitare la competizione per i contratti primari a società americane, dell'Iraq e dei partner della coalizione", ha affermato Wolfowitz, per giustificare la decisione. Che tuttavia potrebbe avere ripercussioni sui rapporti tra gli Stati Uniti e i Paesi esclusi.

I contratti prevedono interventi di ricostruzione nel settore dell'elettricità, in quello delle acque e dei lavori pubblici, della salute, dei trasporti, dell'edilizia, delle comunicazioni e delle infrastrutture petrolifere.

Alla ricostruzione, secondo quanto stabilito dal Pentagono, potranno invece, partecipare 63 Paesi che, a vario titolo, hanno fatto parte della coalizione che si è impegnata anche militarmente in Iraq o l'hanno in qualche modo appoggiata. In testa Gran Bretagna, Italia e Spagna. I Paesi che si sono opposti alla guerra, ha spiegato il Pentagono, potranno competere solo per i subappalti.



Ue, la fine dell'ambiguità
Antonio Padoa-Schioppa su
La Stampa

Il criterio proposto dalla Convenzione per le votazioni a maggioranza qualificata in seno al Consiglio dei ministri - si richiede il sì della maggioranza dei governi, che rappresentino però almeno i tre quinti della popolazione dell'Unione - ha il pregio della semplicità e della coerenza con la doppia legittimazione dell'Unione, che si fonda sia sui popoli che sugli Stati.

I governi di Madrid e di Varsavia vorrebbero conservare la posizione di privilegio strappata nel dicembre 2000. Ma ciò non è giustificabile: un cittadino spagnolo conterebbe all'incirca quanto due cittadini tedeschi nel potere di voto del Consiglio. Ci deve essere un limite anche alla sovra-rappresentanza degli Stati minori. Restare ancorati alla soluzione di Nizza significherebbe affossare la riforma istituzionale che è al centro del progetto della Convenzione. Bene ha fatto il governo italiano a non cedere su questo punto. Se tuttavia la Spagna non rinuncerà alla sua pretesa, alla Conferenza intergovernativa mancherà l'unanimità: quell'unanimità che i trattati - e purtroppo anche il progetto della Convenzione - esigono per le future modifiche.
In realtà l'impasse è rivelatrice di un problema di base. L'integrazione europea è un progetto di natura politica, nel senso più alto della parola: il progetto di progressiva unificazione federale del nostro continente. L'analisi storica del codice genetico del mercato comune non lascia dubbi al riguardo.

Nell'opinione dei cittadini europei l'unione politica del continente non solo non costituisce un tabù, ma è considerata vantaggiosa. L'esito del recente sondaggio condotto in 15 Paesi Ue ha rivelato come su scala europea esista una maggioranza del 60% dei cittadini in favore di una politica estera comune e addirittura del 71% in favore di una difesa comune: obiettivi ben più ambiziosi di quanto previsto nel progetto della Convenzione. Sennonché, se alle intenzioni si vogliono far seguire i fatti, le procedure di decisione efficaci e democraticamente fondate sono indispensabili: dunque, occorre l'abolizione del potere di veto in seno al Consiglio e il costante ancoraggio al Parlamento europeo.

Non è un caso che là dove tali procedure esistono, l'Europa da nano è già divenuta gigante: lo stesso Bush ha dovuto far marcia indietro sui dazi decisi a vantaggio degli Usa per l'acciaio, che l'Ue aveva fermamente avversato.

Due prospettive si fronteggiano, tra governi ma anche all'interno di ciascuno dei due principali schieramenti politici nazionali ed europei, i conservatori e i progressisti. Da una parte, l'Europa come zona di libero scambio e semplice lega tra le nazioni, dall'altra l'Europa come unione politica su base federale. L'ambiguità non potrà durare all'infinito. Il nodo è ormai venuto al pettine. Esso a un certo punto andrà sciolto. O tagliato.


Proibire il velo islamico...
Massimo Nava sul
Corriere della Sera

PARIGI - Proibire il velo islamico nelle scuole? Favorire l'integrazione delle comunità musulmane? Garantire diritti individuali senza tradire principi laici della Nazione? Le domande che percorrono la società francese, in cui si riflettono dubbi e angosce della civiltà europea, arrivano sul terreno delle decisioni politiche: terreno minato, perché obbliga a tracciare confini in un ambito, i cui confini trapassano coscienze, spirito dei tempi, etica e senso comune.
Per decidere nel migliore dei modi, il presidente Jacques Chirac ha istituito una commissione di 40 saggi sulla «laicità», presieduta dal super saggio Bernard Stasi, nominato «mediateur» della République.
La «Stasi» presenta oggi un rapporto conclusivo dopo 120 audizioni e consulti. Dalle prime indicazioni si avverte, però, che le conclusioni non ci sono e non potevano esserci. Il mondo politico pur affermando che «la laicità non è negoziabile» (parola di Chirac) ha fornito più dubbi che indicazioni.

I sentimenti dei francesi, della cultura e delle comunità religiose - raccolti nella consultazione - appaiono anch'essi lacerati, di traverso a ceti, fedi e al mosaico etnico che compone la «nazione» francese. Gli stessi rappresentanti del culto - cristiani, ebrei, musulmani - si sono opposti all'idea di legiferare sui simboli, nel timore che i divieti si risolvano in una deriva confessionale e comunitaria, in collisione con lo spirito di integrazione nazionale che la Francia vuole difendere e con aspettative del potere politico.

Il clima internazionale, con i veleni dello scontro religioso che si insinuano nelle periferie parigine e la dolorosa riflessione su antisemitismo e islamofobia accentuano difese dell'identità e tendenze, rendendo più arduo il compito del legislatore.
La Francia, che per tradizione storica ha fatto della laicità una religione, si specchia in un presente che sembra andare in una direzione opposta.
La questione del velo nelle scuole è persino marginale, nella complessità di un Paese dove le eccezioni valgono più dei principi. In Alsazia, ad esempio, è ancora in vigore il regime concordatario. La poligamia, per convenzioni con ex colonie, è riconosciuta nell'assistenza sociale. Negli ospedali, molte donne musulmane pretendono di non essere visitate da personale maschile. In alcune città sono stati concessi orari differenziati per le piscine. Le centinaia di contenziosi per il velo a scuola sono state lasciate alla discrezionalità dei presidi. Lo Stato laico mantiene le cattedrali e molti vorrebbero che lo facesse per le moschee.
Per queste ragioni, la commissione si limiterebbe a indicare terapie più che norme. La prima è l'idea di una laicità adattata ai tempi, con un inventario delle leggi esistenti. La seconda è che la difesa della laicità non può tradursi in una vittimizzazione della più grande comunità musulmana d'Europa. La terza denuncia il degrado sociale, prima causa di tensioni religiose e derive comunitarie. La quarta, paradossale, sminuirebbe «sacralità» e «illusione» che una legge, vecchia o nuova, possa risolvere le questioni. Si auspicano piuttosto regole, il più possibile condivise, in uno spirito di tolleranza, che è appunto la «religione» del possibile.


  11 dicembre 2003