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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 10 dicembre 2003


Afghanistan, un altro «danno collaterale»,
altri sei bambini uccisi dai marines
sommari de
l'Unità

Un'altra strage di bambini. Un altro «danno collaterale» in Afghanistan. Sei bambini sono rimasti uccisi durante un'operazione condotta dalle forze militari americane nell'est del paese. Lo ha ammesso lo stesso portavoce militare statunitense: è la seconda volta in una settimana che azioni condotte nel paese contro presunti esponenti dei Taleban e di Al Qaeda provocano vittime tra i civili, in particolare tra i più piccoli.


Al Gore spiazza l'America
Appoggerà Howard Dean come candidato anti-Bush
Ennio Caretto sul
Corriere della Sera

WASHINGTON - È la sorpresa elettorale dell'anno: l'ex vicepresidente democratico Al Gore, il grande sconfitto del 2000, appoggia la candidatura del liberal Howard Dean alla Casa Bianca. Per qualcuno è anche la sua vendetta: contro George Bush, «che l'America non può permettersi per altri quattro anni» grida Gore dal palcoscenico del teatro di Harlem a New York; e contro Bill Clinton, ai cui scandali continua ad attribuire le proprie sventure, che appoggia il generale centrista Wesley Clark. Più ancora dell'ex presidente, Gore rappresenta la storia e la macchina del partito, e la sua benedizione trasforma Dean da «outsider» a «insider».
Non solo: con il suo gesto, Gore emargina i neo-democratici, i clintoniani moderati; chiede al Paese di scegliere tra i due radicalismi di destra e di sinistra che attualmente lo spaccano in due.
Molti osservatori ora danno le primarie democratiche finite prima di cominciare, rilevando che nei sondaggi Dean è in vantaggio di 7 punti su Clark, il 25% contro il 17%, mentre gli altri 7 candidati mordono la polvere.

Nel teatro dei neri di Harlem, Dean si comporta da anti-Bush. Ringrazia Gore, «il presidente eletto nel 2000» lo definisce tra le risate e gli applausi (Gore vinse il voto popolare ma fu proclamato sconfitto dalla Corte suprema), e si dipinge come il paladino delle minoranze, dei sindacati e del welfare state. Promette di unificare il partito e il Paese, e di piegare il terrorismo. E' chiaro che pensa a come conquistare i moderati, democratici e repubblicani. In privato, il manager Joe Trippi non esclude un ticket con Wesley Clark. Già a settembre Dean offrì al generale la candidatura alla vice presidenza: il generale è «sudista» (viene dall'Arkansas, lo stato di Clinton), ha credenziali superiori a quelle di Bush per la difesa.
Gore, che un anno fa rinunciò a candidarsi, ma potrebbe essere segretario di stato se Dean fosse eletto presidente, pare felice del ruolo di Grande vecchio democratico. Si scaglia contro la guerra dell'Iraq, «catastrofica e inutile perché fu Bin Laden non Saddam Hussein ad attaccarci», ed elogia Dean «l'unico che ebbe il coraggio di denunciarla dall'inizio».


«L'Europa non deve temere ma accogliere la diversità»
Dichiarazione sulle religioni: no agli estremismi, generano violenza
Magdi Allam sul
Corriere della Sera

E' il passaggio centrale della «Dichiarazione sul dialogo interreligioso e la coesione sociale» che, con tutta probabilità, verrà approvato venerdì prossimo dai capi di Stato e di governo dell'Unione Europea riuniti a Bruxelles. Le riserve avanzate da Svezia e Danimarca sono state superate. Il Corriere è in grado di anticipare i contenuti del documento voluto fortemente dal nostro ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu. L'iniziativa comunitaria si propone fondamentalmente di affrontare non tanto i sintomi, quanto le cause ideologiche e culturali che alimentano la piaga del nostro secolo, il terrorismo globalizzato. Che pur avendo il suo fulcro nel fanatismo islamico, è in grado di coalizzare le più variegate forme di estremismo attratte dall'antiamericanismo e dall'antiebraismo. Non è un caso che nelle due cartelle della Dichiarazione la parola «terrorismo» compaia una sola volta. L'approccio non è di natura repressiva bensì preventiva.

Nel lungo preambolo si esalta «la pluralità e la diversità di lingue, di culture, di concezioni filosofiche e di religioni», considerate «parte del grande retaggio e dell'identità storica dell'Europa, nazione dai cento volti». E a proposito della diversità si sottolinea che «l'Europa, attenta al rispetto della dignità della persona umana e terra di accoglienza di culture diverse, non deve temere la diversità ma accoglierla in uno spirito di rispetto reciproco».
Particolare attenzione viene riposta al dialogo interreligioso perché «aiuta a superare estremismi filosofici e religiosi, stereotipi e pregiudizi, ignoranza e indifferenza, intolleranza e ostilità che anche nel recente passato hanno causato in Europa tragici conflitti e spargimenti di sangue». E' da rilevare come l'Europa prima ancora di puntare il dito accusatorio nei confronti degli «altri», decida di fare i conti con il proprio passato, di fare chiarezza con la propria storia. Anche se non viene espressamente evocato, è evidente il riferimento autocritico per la responsabilità dell'Europa nei confronti dell'antiebraismo che ha avuto nei campi di sterminio nazisti la sua manifestazione più aberrante. Che ciononostante a tutt'oggi è un male non del tutto estinto.
Soltanto dopo si passa alla cruciale questione del rapporto con l'Islam, mai espressamente nominato. I ministri europei si dicono «convinti che il dialogo tra persone di differenti convinzioni filosofiche e religiose e di diversa formazione culturale possa dare un contributo essenziale alla pacificazione e allo sviluppo della comune area del Mediterraneo e in tutto il mondo».

In questa logica le risoluzioni presenti nella Dichiarazione si ispirano al «duplice impegno a promuovere la tolleranza, superando gli estremismi filosofici e religiosi, e a proseguire la lotta contro ogni forma di razzismo e di xenofobia». Sempre al riguardo si afferma la volontà di «assecondare il dialogo come strumento di pace e di coesione sociale in Europa e ai suoi confini», nella convinzione che «il dialogo possa aiutare le nuove generazioni europee a evitare gli errori del passato». Anche qui il riferimento all'antiebraismo è chiaro. La lettura attenta della Dichiarazione evidenzia un'Europa matura che rifugge dalle guerre di religioni, è attenta a debellare anzitutto il male che si annida al suo interno. Ma al tempo stesso è un'Europa che è pronta ad assumersi la responsabilità nella lotta al terrorismo e al fanatismo promossi dai nemici del dialogo e della convivenza.


«La scelta francese: nucleare con sviluppo sostenibile»
Massimo Nava sul
Corriere della Sera

PARIGI - Comunque le si voglia giudicare, le scelte della Francia per l'ambiente sono senza se e senza ma: nucleare e sviluppo sostenibile, con appoggio deciso al Protocollo di Kyoto. Di questi temi, il presidente Jacques Chirac ha fatto un programma di legislatura e una bandiera sulla scena internazionale, con qualche strizzata d'occhio al Terzo Mondo e al movimento no global.
Proprio Kyoto rischia di delineare due concezioni del mondo e nuove divisioni, quasi che anche l'ambiente e la salute del pianeta possano, loro malgrado, riprodurre tensioni della diplomazia. Con qualche polemica anti americana e, in questo caso, anche anti russa. «Ci sono divergenze, ma non voglio cedere al pessimismo», dice Roseline Bachelot, ministro francese dell'Ecologia e dello sviluppo sostenibile, da oggi in Italia. «La conferenza di Milano dimostra una presa di coscienza universale che va al di là delle politiche nazionali e delle posizioni del momento. E' la consapevolezza che il cambiamento climatico è soprattutto opera dell'uomo e che occorre intervenire al più presto sul modello di sviluppo, sul nostro modo di vivere e consumare. Questo non lo nega più nessuno nella comunità scientifica e nell'opinione pubblica».
Il problema è il «come». E' stato sostenuto che gli accordi di Kyoto siano in qualche modo incompatibili con lo sviluppo stesso. Nella comunità scientifica c'è anche chi afferma che esistono altre soluzioni, più «sostenibili» sul piano economico e forse più avanzate sul piano tecnico.
«L'Europa e molti altri Paesi hanno approvato gli accordi. Kyoto deve essere considerato un traguardo minimo da raggiungere, senza alternative. Ogni revisione è un passo indietro negativo. Certamente possono essere discussi tempi e modalità, in uno spirito di dialogo e cooperazione. Ma non ci sono cure alternative per la salute del pianeta che non siano l'intervento sulle cause della malattia».
Stati Uniti, Russia, Australia esprimono posizioni diverse, con considerazioni anche di natura scientifica. Anche l'Italia sembra disponibile ad un ripensamento degli accordi.
«Gli americani vogliono fare affidamento sulle nuove tecnologie per ridurre le emissioni. E' una strada interessante, ma non porta da nessuna parte se non è accompagnata da un cambio profondo del modo di consumare e di produrre».
Si sostiene anche che il costo degli accordi non sia sostenibile per i Paesi in via di sviluppo.
«L'esistenza del pianeta riguarda tutti. Desertificazione, riscaldamento della terra, ritiro delle acque, esaurimento di risorse toccano ancora di più i Paesi poveri. E' una questione di cooperazione fra ricchi e poveri. Non è assurdo immaginare che di questo passo si debba un giorno affrontare il problema del rifugiato ecologico. Kyoto non è un capriccio di alcuni Paesi ricchi. Al contrario, può e deve permettere un migliore sviluppo dei Paesi poveri».

Un'altra questione decisiva è la scelta nucleare. Per la Francia è irreversibile?
«Il nucleare non è una scelta ideologica. L'opzione resta aperta perché oggi offre vantaggi rispetto alle fonti energetiche tradizionali, come il carbone e il petrolio. Finora la scienza non ha offerto strade migliori per garantire energia allo sviluppo. Chi non ha il nucleare compra energia dai Paesi vicini che hanno fatto questa scelta. D'altra parte sono importanti lo sviluppo di fonti energetiche alternative e rinnovabili e la garanzia di sicurezza assoluta per i cittadini».



Fed: tassi fermi ancora a lungo
Mario Blatero su
Il Sole 24 Ore

NEW YORK - L'attacco dei mercati valutari al dollaro o le preoccupazioni di alcuni economisti, che si affidano alle leggi collaudate della teoria economica per chiedere una stretta, non hanno convinto la Fed a modificare ieri l'impostazione della politica monetaria americana. Non solo il tasso sui fondi federali è rimasto invariato all'1%, ma il linguaggio usato dalla Federal Reserve per spiegare il suo orientamento di medio periodo è stato lasciato di fatto immutato: a questo punto, si dice, per una stretta si dovrà aspettare forse il mese di giugno.

L'unica concessione della Fed al mercato nel comunicato di ieri è venuta da due piccole altre variazioni. La prima riguarda il mercato del lavoro. Alla fine dell'ultima riunione la Fed concludeva che si stava «stabilizzando». Ieri la Fed ha concluso che si sta «rafforzando». La seconda riguarda la deflazione. Nell'ultimo comunicato la Fed sottolineava che il pericolo di deflazione era uguale a quello di inflazione. Ieri ha concluso che il pericolo di deflazione è inferiore a quello di inflazione. Un'osservazione giudicata ancora di grande prudenza per un'economia che corre a ritmi di crescita dell'8%, che da 15 mesi consecutivi ha un tasso di interesse di riferimento al di sotto di quello dell'inflazione, e, in particolare negli ultimi mesi, un tasso sui Fed Fund negativo in termini reali. Ma nel contesto macoreconomico di oggi, persino la Fed si è accorta che accennare alla deflazione sarebbe stato ridicolo.

Comunque sia, da ieri sappiamo qualcosa in più. Sappiamo, ad esempio, che a questo punto l'appuntamento con un aumento dei tassi è rimandato almeno fino a giugno. Abbiamo avuto la conferma che la Fed è molto più preoccupata dalla possibilità di un rimbalzo dei tassi a lunga che da un forte indebolimento del dollaro. Sappiamo anche che per il mercato obbligazionario gli spazi per un rafforzamento sono ormai esauriti. E dunque, guardando in avanti, i tassi di mercato potranno soltanto salire, il dubbio ovviamente è nei tempi. La Fed si augura che siano quanto più lunghi possibile. Ma ieri il tasso sul bond decennale è passato dopo l'annuncio da quota 4,27 a quota 4,35. Un balzo non da poco, che potrebbe essere foriero, dopo le turbolenze dei mercati valutari, di tensioni anche sui mercati monetari.


Fecondazione
Berlusconi feconda la legge.
Il governo scende in campo: «Votatela». Rutelli s'allinea: «Non mi piace, la voto».
apertura seconda de
il Manifesto

Il governo precetta la maggioranza per il via libera alla legge sulla procreazione medicalmente assistita. «So di poter contare sul tuo buonsenso e sulla tua capacità di cogliere questo momento politico, pur nel massimo rispetto della tua libertà di coscienza....», scrive il capogruppo Renato Schifani ai deputati azzurri. Ma senza persuadere il fronte laico della casa berlusconiana ancora ostile all'abominio giuridico che, secondo quanto deciso ieri a maggioranza nella conferenza dei capigruppo, dovrà ottenere in tempi contingentati il voto finale di palazzo Madama domani mattina. Ma proprio i laici del centrodestra non escludono che nel corso delle votazioni possa essere approvato qualche emendamento che rimandi la legge alla camera. Dipende da cosà accadrà nella turbolenta area centrista dell'Ulivo. Al termine di una riunione di ore, ieri il gruppo della Margherita ha ribadito il via libera alla legge nonostante il dissenso di una corposa minoranza (Zanda, Soliani, Dato, Battisti, Magistrelli, D'Amico, Treu...). Disponibili alle modifiche, dice il capogruppo Bordon ripetendo quanto annunciato in mattinata da Rutelli, ma «non ci presteremo a nessun tentativo di andare alle calende greche». Una presa di posizione contestata dalla Quercia. Anche se c'è chi intravede nella mossa della Margherita il margine di manovra utile proprio per modificare la legge all'ombra del voto segreto.


Il buio oltre la coscienza
Giovanni Berlinguer su
l'Unità

Quasi negli stessi giorni il principio della vita (nascere) e la sua fine (morire) sono oggetto in Italia di accesi dibattiti che riguardano la morale, il diritto, l'equità e la libertà. Nel Parlamento è all'ordine del giorno la procreazione assistita, nel Comitato di bioetica si discute il parere sulla «dichiarazione anticipata di volontà», attraverso la quale ogni persona può indicare quale trattamento sia per lui accettabile o meno.
Le decisioni da prendere ai due estremi della vita sono oggi ampiamente influenzate dal progresso biomedico. Il procreare non è più dovuto al caso, non è più un destino o un obbligo: il quando e anche il come mettere al mondo un figlio diviene una scelta libera (e perciò responsabile). Il morire può essere procrastinato con la sopravvivenza artificiale o con l'accanimento terapeutico: è essenziale perciò che ognuno possa decidere sul prolungamento o sull'interruzione delle cure, che è tutt'altra cosa rispetto all'eutanasia attiva.
Mentre però nel Comitato di bioetica, pur essendovi ancora chi nega che ognuno possa disporre della propria vita, sembra possibile che il parere sia basato su un'etica procedurale che consenta ragionevoli accordi, nel Parlamento si sta approvando sulla procreazione assistita una legge che appare fatta per dividere e per imporre.
La divisione non è fra laici e cattolici: lo ha sottolineato il sen. Tonini (l'Unità, 8 dicembre) che ha anche enucleato nel testo della legge «cinque errori di troppo». La divisione è fra coloro che vogliono favorire scelte procreative più libere (e responsabili) e coloro che ancora pensano che la natura sia sempre bene e l'artifizio sempre da scongiurare.
Ben venga la procreazione naturale, ma se la coppia o uno dei due è sterile? Il testo della legge stabilisce tanti obblighi e tanti divieti che non varranno certamente a limitare gli eccessi (che ci sono), ma produrranno molte ingiustizie e incongruenze.
Ingiustizie sociali, innanzitutto. Come una volta c'era il turismo abortivo per l'Inghilterra, così si svilupperà il turismo procreativo verso quei paesi europei (quasi tutti) che pongono meno limiti, col risultato di favorire chi può permetterselo.
Ingiustizie biologiche, inoltre. Vietare la fecondazione «eterologa» significa escludere dalla felicità di essere padre o madre chi, senza colpa alcuna, non ha spermatozoi oppure ovuli propri. Donazione e accoglimento dei gameti sono stati perfino configurati come «adulterio biologico» e le conseguenze sui figli sono state raffigurate come catastrofiche, malgrado l'esperienza positiva di migliaia di casi felici che dovrebbero far riflettere.
Ingiustizie di genere, infine. La donna, come sappiamo, porta (insieme alla gioia in caso di successo) il carico maggiore delle ansie e dei dolori che accompagnano le pratiche di procreazione assistita. La legge accresce le sue difficoltà. Le vieta di congelare gli embrioni, e in caso di insuccesso la costringe ad altre ovulazioni. Le impone di creare al massimo tre embrioni, e di impiantarli tutti e tre nell'utero, col rischio di gravidanze difficili e di conseguenze negative sui nascituri. Le proibisce di revocare il consenso all'impianto anche in caso di gravi malattie e malformazioni dell'embrione, il quale risulta così più tutelato di quanto lo sia il feto in base alla legge sull'aborto.
Quali sono le motivazioni profonde di queste stranezze e di queste ingiustizie? C'è una ragione tradizionale, che va dal divieto religioso delle pratiche contraccettive considerate «innaturali», all'ostilità verso la liberazione della donna, al dogma che l'embrione è persona: un assunto rispettabile ma indimostrabile sul piano filosofico o scientifico. C'è inoltre una ragione politico-elettorale, la stessa che ha indotto a decidere che tutti gli insegnanti di religione (nominati da vescovi) superino chi ha altri titoli e passino per via preferenziale nei ruoli statali. C'è quindi un cedimento sulla laicità dello Stato. All'inizio dell'iter di questa legge, tutti proclamavano che il voto sarebbe stato secondo coscienza. Ora prevalgono, in molti casi, esigenze meno nobili. Ma non credo che i cittadini premieranno questa scelta.


I "terroristi" dell'acqua non meritano la nostra paura
Francesco Merlo su
la Repubblica

COME ci resterebbero male, questi poveri avvelenatori d'acqua, se arginassimo la loro stupida follia con la cautela ironica al posto del panico scomposto. E se tributassimo loro una distratta considerazione, trattandoli da balordi criminali e non da Bin Laden. E se ancora ci limitassimo ad adottare qualche strategia idropinica, un più accorto e discreto uso delle bevande, il vetro al posto della plastica, il controllo olfattivo, l'attenta ricerca del foro, la prudenza forte di chi, pur rischiando un danno, non ha paura della paura. E sempre stando bene attenti, nel rinculare malvolentieri sul filo della modernità, a non scambiare idrologia e ideologia.

A non rinunciare né alla Ferrarelle né alla Coca-Cola, a non farci mai tentare dalle teorie e dalle pratiche idropaganiche e precapitalistiche, quelle che contrappongono le sorgenti della Natura alle dighe dell'Industria, sino agli stregoni visionari, ai maghi della pioggia, ai devoti delle fonti e delle polle (e per capirne la stupidità reazionaria basta pensare a Umberto Bossi, sacerdote del Po).

Non sappiamo cosa bevono gli avvelenatori della nostra acqua, se sono idrofobi e magari sempre ubriachi, ma sembrano così vacui da non curarsi neppure di se stessi e dei loro parenti, visto che l'acqua è ubiquitaria, va ovunque, in tutte le gole.

L'acqua non risparmia nessuno, e anche l'avvelenatore, se ospite casuale di una vittima casuale, potrebbe imbattersi in un bicchiere della sua acqua avvelenata. Ma forse questo avvelenatore non ha parenti, oppure ancora ne ha uno di troppo e spera nell'eredità, come nella trama del delitto perfetto.

Ebbene, purtroppo anche in questo caso, anche se l'avvelenatore uscisse da un film di Hitchcock, noi riusciremmo comunque a chiamarlo "terrorista", anche se, al contrario dei brigatisti, che ne colpivano uno per educarne cento al veleno della loro ideologia, questo matto davvero ne avvelenasse cento per colpirne uno. Insomma fossero pure le vecchie Martha e Abby, le ziette di Cary Grant in "Arsenico e vecchi merletti", ancora non daremmo loro del terrorista, perché troppo il terrorismo ci ha ferito e ci ferisce, è l'attualità della nostra paura, abbiamo ormai verso il terrorismo la stessa sindrome degli ebrei a Tel Aviv, dove la gente, ogni volta che esce di casa, sa che può scoppiargli accanto un uomo. Così per noi, ovunque c'è una insidia c'è terrorismo, e tutti i delitti li chiamiamo terrorismo, anche quelli commessi contro l'acqua, vale a dire contro il buon senso.

E invece stiamo per fare la cosa che non dovremmo assolutamente fare, e cioè metterci a discutere sulla cattiveria dell'acqua in bottiglia, perché su questo è fondato il dispetto ideologico dell'avvelenatore, chiunque esso sia: mostrare che il veleno stava già tutto nella privatizzazione e nell'imbottigliamento dell'acqua da parte delle solite multinazionali, come la francese Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux, la Coca-Cola, la Pespi-Cola, l'Aguas de Barcelona, l'inglese Thames water, la Biwater, la Perrier, l'Evian, la San Pellegrino e così via.

Delle tante opere suggestive dell'idroantiglobalismo citiamo qui, una per tutte, il saggio dell'indiana Vandana Shiva, che nella quarta di copertina dell'edizione italiana (("Le guerre dell'acqua" - Feltrinelli 2003) viene presentata come fisica, economista e vincitrice del "Nobel per la pace alternativo" (che sarà mai?). Il libro, che addirittura profetizza un Jihad idrico, rintraccia nell'acqua il motivo di tutte le guerre attuali, con Turchia Siria e Iraq che si battono per le dighe sul Tigri e sull'Eufrate, Israele e Palestina che si contendono il Giordano, l'India che combatte contro le multinazionali per lo sfruttamento della acque del Gange, Messico e Stati Uniti che si azzuffano per il Colorado, Egitto e Sudan per il Nilo... E, aggiungerebbe forse il nostro grande scrittore etnico Andrea Camilleri, Enna e Caltanissetta che "si tumpuliano" per il Salso.

C'è insomma un'idrobiblografia in tutti i sensi eccessiva secondo cui "le grandi dighe sono armi di distruzione di massa, strumenti dell'idrocapitalismo per controllare il popolo, maligne indicazioni di una civiltà che si fonda sulla rottura di ciò che connette le uova alle galline, il latte alle vacche, il cibo alle foreste, l'acqua ai fiumi, l'aria alla vita e la terra e all'esistenza umana". E "fanno dighe per vendere acqua, compresa quella minerale... perché i poveri hanno l'acqua del fango e i ricchi l'acqua minerale". Purtroppo noi in Italia non abbiano l'acqua, da Roma in giù non l'abbiamo mai avuta, come bene sapeva il grande Francesco Saverio Nitti e come sanno tutti i meridionali. Noi non abbiamo le grandi dighe, non abbiamo deviato i corsi dei fiumi, ci mancano gli ingegneri idrici, e i nostri poveri sono asciutti, non fangosi. Ecco: non abbiamo l'idrocapitalismo ma abbiamo l'anticapitalismo idrico. Come potremmo prendere sul serio l'idroterrorista?


  10 dicembre 2003