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sulla stampa
a cura di P.C. - 2 dicembre 2003


Preso Al Douri, vice di Saddam
Operazione Usa a Kirkuk
Redazione de
la Repubblica

BAGDAD - Il vice di Saddam Hussein, Izzat Ibrahim Al Douri, sarebbe stato ucciso o fatto prigioniero in un'operazione di ampia portata che le truppe Usa hanno condotto la scorsa notte nella zona di Kirkuk, nell'Iraq settentrionale. A dare la notizia che tra le vittime di questo rastrellamento ci possa essere il numero due della gerarchia del regime di Saddam Hussein (e Re di fiori del famoso mazzo di carte inventato dagli americani) è stato Mowaffaq al-Rubaie, un membro del consiglio provvisorio di governo iracheno.
Ibrahim Al Douri, baffi rossi, aspetto fisico molto "inglese" è considerato uno dei più duri e sanguinari tra gli uomini dell'entourage del raìs, del quale era uno dei più ascoltati consiglieri. Ritenuto il coordinatore degli attacchi alle forze della coalizione nel Nord del paese, Al Douri è l'uomo più ricercato dopo lo stesso dittatore e sulla sua testa c'è una taglia di dieci milioni di dollari. A suo tempo fu uno dei protagonisti, insieme a Saddam, del colpo di stato che nel 1968 portò al potere il partito Baath. E' legato al dittatore anche da legami di parentela, poiché sua figlia fu sposata per un breve periodo al figlio di Saddam, Udai. Come il dittatore, al Douri è originario della zona di Tikrit, a nord di Bagdad, dove suo padre faceva il venditore di ghiaccio. Nel 1988 era il diretto responsabile delle operazioni nel Nord dell'Iraq, quando furono usate le armi chimiche e, anche poco prima della guerra, venne inviato all'estero per seguire gli interessi iracheni.
L'esercito americano non ha però confermato la notizia, anche se l'autorità irachena ha affermato di essere in continuo contatto con gli ufficiali statunitensi.
Un funzionario di polizia della zona di Kirkuk ha comunque confermato che quella della scorsa notta è stata "la più importante operazione di ricerca mai condotta nella zona" partita grazie alle segnalazioni che proprio nel villaggio di Rashad, 60 chilometri a sud di Kirkuk e a Hawijah, 45 chilometri a ovest della cittadina, sarebbero nascosti esponenti di primo piano del deposto regime iracheno.
Intanto continua la battaglia tra soldati e guerriglia nella zona di Samarra, la città sunnita che si trova 110 chilometri a Nord della capitale, dove domenica scorsa ci sono stati scontri sanguinosi. Le autorità americane hanno riferito che oggi sulla strada che porta in città ci sono stati due attacchi a convogli statunitensi e almeno un soldato è rimasto ucciso.


Iraq, cos'è successo davvero a Samarra?
Dubbi sulla battaglia tra americani e feddayn
Toni Fontana su
l'Unità

All'indomani della battaglia di Samarra l'unico fatto certo è che si è sparato a lungo e alcune persone sono morte. Per il resto le versioni del comando Usa e le testimonianze raccolte sul posto divergono su tutto ed il sospetto che non si sia trattato di una vittoriosa spedizione "contro il terrorismo", come sostengono i generali, ma di una sparatoria tra la folla, è più che fondato.
I fatti: domenica sera il comando Usa annuncia che a Samarra, a nord di Baghdad, sono stati uccisi 46 "insurgents" (insorti, è il termine usato dalla stampa americana). L'ultimo bilancio fornito ieri sera a Baghdad dagli americani è di 54 morti, 22 feriti e un feddayn arrestato. Tutti sarebbero "combattenti". Secondo questa versione i militari Usa hanno reagito ad un'aggressione bombardando tre edifici nei quali si erano asserragliati i "terroristi". Il Washington Post, in una corrispondenza da Baghdad, fornisce altri particolari sull'accaduto. I convogli americani erano due, ciascuno protetto da sei carri armati, quattro blindati Bradley e gipponi armati di mitragliatrice, e sono penetrati in città da diverse direzioni.
Una colonna scortava una forte somma di denaro (il comando non ha fornito su questo alcun dettaglio) destinato ad una banca locale che sta sostituendo le vecchie banconote con l'effige di Saddam con i nuovi biglietti introdotti dopo la caduta del regime. Secondo il quotidiano la guerriglia ha scatenato due "attacchi simultanei" facendo largo uso di mitra e lanciagranate. Il Washington Post cita quindi due particolari che sollevano molti dubbi su come sono andate le cose. Il primo è che il comando americano ha fornito diversi bilanci delle vittime; dapprima ha parlato di 54 morti, poi di 46, poi ancora di 54, aggiungendo che alcuni guerriglieri uccisi vestivano le uniformi nere dei feddayn di Saddam, il corpo d'élite, un tempo agli ordini del figlio del dittatore, Uday.

Il bilancio finale, per gli americani è di "54 insorti uccisi", mentre per le fonti locali le vittime sono "8-9, tutte civili e 63 feriti" e tra questi vi sarebbe anche "un pellegrino iraniano" che si trovava a Samarra per pregare alla grande moschea dell'imam Ali al Hadi, luogo di culto importante per i musulmani di osservanza sciita, in minoranza in una città popolata in maggioranza da sunniti.
La verità su come sono andati i fatti forse non si saprà mai, anche perchè è mistero anche su dove sono stati portati i corpi degli uccisi. Secondo alcune testimonianze sarebbero stati portati via dei guerriglieri, mentre il comando Usa non ne sa nulla perchè, dopo la sparatoria, i soldati si sono rapidamente ritirati. Non è dunque chiaro come i generali Usa siano arrivati a stabilire che gli uccisi sono 54



La Gasparri ultima diga per il premier
La legge oggi in aula al Senato
Curzio Maltese su
la Repubblica

A meno di sorprese oggi, o al massimo domani, la riforma Gasparri diventa legge. È un monumento equestre al conflitto di interessi che Silvio Berlusconi si era impegnato solennemente a risolvere nei primi cento giorni di governo. Al solito, ha rovesciato il tavolo e l´ha risolto a proprio vantaggio. È una vergogna nazionale e un attacco frontale alla libertà d´informazione, la poca rimasta che ci permette di navigare nelle classifiche internazionali a ridosso del Madagascar. Si tratta probabilmente di una legge incostituzionale e forse il presidente Ciampi non la firmerà.
La riforma televisiva è infine il compimento della parabola del berlusconismo, cominciata dieci anni fa. Nel momento della discesa in campo Berlusconi aveva in mente anzitutto la difesa delle sue aziende da una possibile o probabile riforma liberale del sistema televisivo. Sarebbe stato il primo autentico passo verso una seconda Repubblica che nei fatti non è mai davvero cominciata. La Fininvest era in difficoltà con le banche senza più lo scudo politico garantito per quindici anni da Bettino Craxi. Il destino di Berlusconi avrebbe potuto essere identico a quello del socio Kirch, fallito dopo il tramonto del padrino politico Kohl.
Con la fondazione di Forza Italia il padrone di Arcore ha giocato il tutto per tutto e ha vinto. Dieci anni più tardi, una legge dello Stato legalizza e blinda il più illiberale monopolio sull´informazione mai visto in una democrazia.
È il trionfo del conflitto di interessi, l´elezione a norma di un´anomalia. Bisogna ammettere che la macchina politica berlusconiana ha in questo dato prova di una paradossale efficienza. Nessuno degli impegni contenuti nel celebre "contratto con gli italiani" è stato rispettato finora nella realtà. Non si sono visti posti di lavoro e tagli fiscali, alla criminalità normale si è aggiunto il pericolo terrorista, i cantieri sono fermi e le pensioni hanno perso potere d´acquisto, come del resto i salari. Ma con l´approvazione della Gasparri il bilancio personale e aziendale del premier, in due anni e mezzo, diventa favoloso.
A colpi di Cirami e rogatorie, falsi in bilancio, i processi sono arrivati alla prescrizione. Qualcuno dovrebbe poi calcolare quanti miliardi guadagnano le sue aziende e la sua famiglia fra condoni, riforma televisiva, lodo Schifani, abolizione della tassa di successione e altre trovate geniali per arricchire i ricchi, soprattutto uno, e impoverire i poveri.
Nello sfolgorante successo del partito-azienda però s´incominciano a vedere i segni della fine. La gigantesca diga costruita dal premier intorno ai propri interessi ha provocato la reazione di alleati e avversari. Nella Cdl c´è chi si è stufato di fare il maggiordomo e prepara un futuro senza Berlusconi e nell´opposizione si è affermata, dopo tanti anni, l´importanza della battaglia sull´informazione. Non è stato facile, in fondo a tanti errori. Perché bisogna ricordare che se si è arrivati a tutto questo non è soltanto per colpa o responsabilità di uno solo. È stato piuttosto a causa di un deficit di valori liberali di tutto il quadro politico.
La nostra politica è dominata da matrici autoritarie. Non soltanto il fascismo, per il quale a destra ora si cerca una faticosa alternativa culturale, ma anche il cattolicesimo controriformista al centro e il comunismo a sinistra. Tutte culture per le quali le libertà borghesi, i diritti civili, il pluralismo e l´informazione o l´indipendenza della magistratura, sono questioni di poca importanza, per non dire faccende da salotti.
Questa sottovalutazione spiega come, nei cinque anni di governo dell´Ulivo, i nipotini di Togliatti ed i neodemocristiani siano arrivati a barattare una vitale riforma del sistema televisivo con una vaga e poi neppure mantenuta promessa di riforme istituzionali.
Nasce da fallimenti come questi l´impossibilità di essere normale della politica italiana, il clima isterico sempre oscillante fra guerra civile e accordi segreti. Fra culture autoritarie non è possibile il dialogo, soltanto il compromesso cinico, l´inciucio alle spalle dei cittadini. È semmai mettendo al centro del tavolo i valori liberali, il rispetto per i diritti civili, come si fa nelle altre democrazie, che si può trovare un terreno comune.
Ora però il quadro sembra cambiato. La brutta avventura ha avuto almeno il merito di produrre degli anticorpi contro l´autoritarismo permanente. Nella battaglia dell´opposizione contro la legge Gasparri, si è assistito per la prima volta a una saldatura solidale fra movimenti e partiti, società civile e leader del centrosinistra. Questo sì costituirebbe l´annuncio di una stagione riformista. Allora la battaglia contro il monopolio, persa in Parlamento, potrebbe essere rilanciata nel paese.
Su queste basi si potrebbe anche immaginare un dialogo con una destra diversa, liberale, più simile a quella che in tutta Europa ha combattuto e non protetto i monopoli della comunicazione. Questo però è forse il futuro. Il presente è pessimo e rimane un enorme lavoro da fare, sullo sfondo di un´Italia sempre più stanca e delusa d´aver votato un sogno per ritrovarsi un padrone.


Una protesta che colpisce i più deboli
Massimo Luciani su
La Stampa

Lo sciopero del trasporto pubblico locale che ieri ha messo in ginocchio molte città italiane fa capire almeno tre cose.
La prima è che l'adesione dei lavoratori è stata quasi ovunque altissima, a dimostrazione di un malcontento diffuso e di una profonda insoddisfazione per l'andamento delle vicende contrattuali, che non possono essere sottovalutati.
La seconda è che dove è stato assicurato il rispetto delle fasce orarie prestabilite i disagi per la popolazione sono stati molto forti, sì, ma non insostenibili: è stato possibile programmare gli spostamenti e nelle fasce escluse molti hanno potuto raggiungere i posti di lavoro e le scuole, così come tornare, più tardi, a casa.
La terza è che dove questo non è accaduto le conseguenze sui cittadini sono state molto più pesanti: lo sciopero ha investito proprio gli orari di punta del trasporto pubblico, che oltretutto erano stati lasciati indenni dalla programmazione iniziale. E la sorpresa ha aggravato le difficoltà.

La condizione paradossale di questo tipo di scioperi, allora, è che essi colpiscono i terzi molto più e molto prima del datore di lavoro. Chi subisce i pregiudizi maggiori, poi, è proprio chi si trova nelle fasce sociali più deboli e non può fare a meno di ricorrere al servizio pubblico o ha molte difficoltà a trovare soluzioni alternative. E' per questo che la legge ha dovuto cercare un delicatissimo bilanciamento tra i vari diritti in gioco, disegnando una disciplina complessa e piena di incertezze interpretative, ma indubbiamente consapevole dell'autentica sostanza del problema.
Proprio il fatto che si scontrino diritti costituzionali di tutti, allora, suggerisce grande prudenza nella determinazione delle forme di lotta, perché qualunque cittadino si può trovare nella condizione di esercitare il diritto costituzionale di sciopero, ma qualunque cittadino si può anche trovare nella condizione di subire dallo sciopero la lesione di un suo diverso diritto costituzionale. E la complessità del rapporto tra questi diritti, comunque, impone sempre un rispetto particolarmente rigoroso della legge che con tanta fatica ha cercato di bilanciarli.


Sindacati nella bufera
E scatta la precettazione
Rita Querzé sul
Corriere della Sera

MILANO - Torneranno al loro posto su tram, autobus e metrò. La precettazione del prefetto di Milano "per motivi di ordine pubblico" non lascia altra strada ai dipendenti dell'Atm, azienda del trasporto pubblico locale milanese. Nella tarda serata di ieri, però, qualche irriducibile meditava di non presentarsi in servizio nemmeno oggi. E comunque rimarranno i presidi davanti ai depositi. Gli autisti si metteranno puntuali alla guida dei mezzi pubblici? I rappresentanti del sindacato non arrischiano previsioni. Del resto quella di ieri è stata una Waterloo anche per Cgil, Cisl e Uil, oltre che per il traffico di Milano. I confederali si erano impegnati con la Commissione di garanzia sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali perché a Milano l'astensione dal lavoro avesse una durata ben precisa: dalle 8.45 alle 15. A sorpresa, invece, gli ultrà del trasporto hanno incrociato le braccia dall'inizio del servizio, intorno alle quattro del mattino, fino a notte fonda. Ora qualcuno teme la resa dei conti con i milanesi, esasperati da una giornata da dimenticare. "Ci appelliamo alla cittadinanza perché non si verifichino intemperanze verso i tranvieri di Milano" dice Walter Galbusera, segretario generale della Uil Lombardia.
RISCHIO SANZIONI - Lo sciopero "a sorpresa" di ieri non ha precedenti. Ora gli 8.500 dipendenti dell'Atm rischiano pesanti sanzioni. Il presidente della Commissione di garanzia, Antonio Martone, ha convocato con urgenza per oggi i segretari nazionali delle organizzazioni sindacali che hanno proclamato lo sciopero e i presidenti delle associazioni datoriali (Asstra e Anav). Secondo la legge sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali, le organizzazioni sindacali che non hanno rispettato gli impegni possono aspettarsi sanzioni amministrative da 5 a 50 milioni oltre all'estromissione fino a tre mesi dalle trattative. Ogni singolo lavoratore, invece, rischia sanzioni disciplinari. Anche la procura della Repubblica di Milano aprirà un'inchiesta.
CONDANNA UNANIME - Una questione di stipendio che si trascina da due anni: ecco che cosa ha portato i dipendenti dell'Atm alla decisione estrema di bloccare la città. Il contratto di categoria 2000-2003 prevedeva per il secondo biennio un aumento di 106 euro lordi in busta paga. I due anni sono passati e i soldi non sono mai arrivati. Per rivendicare l'applicazione del contratto, il sindacato confederale è arrivato all'ottavo sciopero. Ciò non toglie che la condanna di Cgil, Cisl e Uil alla protesta a oltranza di ieri sia delle più dure. "Quando si proclama uno sciopero bisogna rispettarne le modalità perché altrimenti a pagare è il cittadino", taglia corto il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani. Il leader della Cisl, Savino Pezzotta, sposta l'accento sull'esasperazione dei lavoratori: "Se il governo rinnovasse in tempi giusti i contratti, il sindacato riuscirebbe a governare la situazione".
CRISI DI RAPPRESENTANZA - A livello regionale, il sindacato ammette senza mezzi termini la crisi di rappresentanza. "Nella mattinata di ieri abbiamo diffuso un appello ai lavoratori perché tornassero al lavoro puntuali. Non è stato rispettato", ricorda Walter Galbusera, segretario generale lombardo della Uil. Qualcuno tira in ballo la Fit-Cisl. Lasciando intuire un supporto dell'organizzazione agli estremisti dello sciopero: "Non accetto illazioni, la verità è che tutti i delegati presenti in azienda si sono astenuti dal lavoro. Quelli della Cisl come quelli della Cgil e della Uil", si difende Dario Balotta, segretario generale della Fit-Cisl lombarda.
TRATTATIVA REGIONALE? - Ieri, fino all'ultimo, i ribelli dell'Atm hanno sperato che la protesta si allargasse alle altre città. Ma così non è stato. Ora la Fit-Cisl lombarda propone una soluzione locale del problema. "Bisogna mettere attorno a un tavolo regione Lombardia, Atm e sindacati - auspica Balotta della Fit-Cisl -. L'applicazione del contratto di categoria potrebbe partire dalla Lombardia".
Il presidente della Regione, Roberto Formigoni, non si tira indietro: "Ho sempre sostenuto che i contratti debbano avere caratterizzazioni territoriali. Sarebbe il caso di introdurre differenze non solo tra Lombardia e Calabria, ma anche tra diverse zone della Lombardia". Ma la Filt-Cgil non ci sta: "Questo contratto di categoria è nazionale e deve restare tale - chiude il discorso Franco Fedele, segretario generale della Filt-Cgil lombarda -. Un tentativo è già stato fatto cinque mesi fa, cercando di fare anticipare solo ad Atm i soldi promessi dal contratto di categoria. A nostro parere è invece necessaria un'intesa a livello nazionale".


Al conducente
Loris Campetti su
il Manifesto

Una giornata da dimenticare. Dovevano essere 8 ore di sciopero dei mezzi di trasporto cittadino, annunciato come da regolamento, e invece a Milano il servizio è stato bloccato a sorpresa per l'intera giornata dai dipendenti dell'azienda. Una protesta spontanea che difficilmente farà crescere intorno agli autisti la solidarietà dei cittadini, com'era invece avvenuto in Francia un anno fa. Come da copione è partita la caccia alle streghe: dàgli all'autista, incurante dei disagi che provoca ad altri lavoratori come lui. La domanda è rimbalzata da una fermata di metropolitana all'altra: sono diventati matti i tramvieri milanesi? Non siamo matti, rispondono i reprobi, siamo esasperati. E spiegano perché. C'era una volta la "municipalizzata", ossia l'azienda trasporti di proprietà pubblica. Aveva un senso che fosse pubblica, non è forse il servizio il servizio di pubblica utilità? Poi sono iniziate le privatizzazioni e l'obiettivo delle ex-municipalizzate è diventato quello di qualsiasi azienda privata: fare utili, o almeno non fare perdite. A questo scopo bisognava abbattere i costi. Come? Facendo dell'insieme uno spezzatino che si chiama terziarizzazione, espellendo parte dei servizi con annessi lavoratori, precarizzando quelli che restano. Per risparmiare si mettono i precari alla guida degli autobus, si aumenta il costo del biglietto, si riducono le corse. Ma così non si peggiora il servizio? Pazienza, l'obiettivo è far tornare i conti. Se non tornano comunque, a mettere le toppe devono pensarci i comuni. Ma siccome lo stato taglia i fondi ai comuni, i comuni tagliano i servizi.

La realtà è opposta a come viene raccontata e, spesso, percepita: lavoratori dei servizi e cittadini sono sulla stessa barca, la qualità del servizio va di pari passo alla qualità del lavoro. Chi tenta di affondare la barca, l'avversario, è un altro: il governo e la sua politica economica e sociale. Se non si parte da questo punto, la rottura tra lavoratori e fruitori dei servizi si accentuerà e, ancora una volta, a perderci saremo tutti. Insomma, parliamo al conducente.


La certezza dell'impunità
Giulio Anselmi su
la Repubblica

Senz'autobus, senza tram, senza metropolitana - per di più in un giorno di pioggia - la città più moderna e ricca d'Italia è affondata nel caos senza capire cosa stesse accadendo. Poi si è saputo che lo sciopero dei tranvieri, annunciato per le otto e tre quarti, era stato anticipato a sorpresa, alla faccia delle leggi che regolamentano i pubblici servizi, beffando tutti coloro che si erano alzati prima per raggiungere il posto di lavoro dalla città o dallo sterminato hinterland. Uffici, scuole, ospedali, negozi, tutta Milano è stata coinvolta in un crescendo di tensione, tra dichiarazioni di fuoco e appelli al buon senso, con gli scioperanti che annunciavano l'astensione dal lavoro a oltranza, i sindacati costretti ad arrendersi all'evidenza d'essere stati scavalcati e i sindaci di altre città, come Veltroni a Roma, che lanciavano appelli per evitare che il virus milanese si propagasse anche in casa.
Il disastro metropolitano, che ha rischiato di allargarsi a macchia d'olio e potrebbe avere un seguito per l'opposizione dei Comitati di base alla precettazione decisa in serata dal prefetto Ferrante, ha molte cause e chiama altrettante responsabilità. Ma l'agitazione che l'ha provocato è stata comunque un atto ingiustificabile di prepotenza da parte di una corporazione, una violenta prevaricazione nei confronti di tutti i cittadini, compiuta con la consapevolezza di non rischiare gran che.

La crisi di ieri ha fornito l'ennesima prova della fragilità delle nostre metropoli, della crescente difficoltà di governare la complessità dei sistemi urbani. E anche della debolezza della nostra etica civica, intesa come collante tra gli abitanti di una città. Non c'è da meravigliarsene, dato che gli italiani non ne hanno mai dato gran prova e che, a sentire i sondaggi, neppure la tengono in gran conto. Ma la battaglia per i propri interessi, al di fuori delle regole e del rispetto per gli altri, non è un indicatore di buona salute per una democrazia.


Se la vittima è il pendolare
Bruno Ugolini su
l'Unità

È un pendolare e per lui, a Milano, è stato un lunedì d'inferno. È un operaio ma potrebbe essere un impiegato, un professionista. Uno che si guadagna il pane, insomma. È una formichina in mezzo a milioni di altri cittadini costretti a marciare per ore sotto una pioggia battente. Sono le prime ore dell'alba e non trovano autobus, non trovano metropolitane. Nessuno li ha avvertiti. Lo sciopero nazionale dei trasporti doveva scattare verso le nove C'era tutto il tempo per raggiungere il posto di lavoro. E invece sono appiedati.
Tentano di raggiungere in ogni modo la loro destinazione, dando vita a tanti cortei imprecanti, in mezzo a code infinite d'auto. La città è ingolfata. Gira su se stessa. Sembra una manifestazione enorme, spontanea. Non lanciano insulti magari contro chi da ben due anni non rinnova il contratto di lavoro degli scioperanti e li costringe a otto scioperi nazionali finora inutili. Quei milioni di cittadini milanesi sono in preda all'odio di classe - avremmo detto una volta - proprio contro gli scioperanti. Perché quello sciopero colpisce come uno schiaffo non le istituzioni, non i rappresentanti del governo, non il sindaco Albertini ma proprio loro, milioni di pendolari ignari.
I lavoratori dei trasporti della metropoli lombarda sembrano aver dimenticato, in quest'occasione, la lezione di Massimo D'Antona, lo studioso che aveva contribuito proprio a scrivere le nuove regole di un conflitto civile, capace di difendere il diritto di sciopero ma anche il diritto alla mobilità. Anche per questo lo sciopero nazionale dei trasporti, per decisione di Cgil, Cisl e Uil, ieri doveva cominciare alle 8 e 45. Così è avvenuto a Roma e nelle altre città d'Italia. A Milano è partito alle quattro del mattino. Non per decisione di quattro estremisti o di qualche minuscolo comitato di base. C'erano di mezzo tutti, anche gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil. Non si sono resi conto che così esplodendo si finiva non col colpire la controparte, ma nuocere nei confronti di masse d'altri lavoratori, dando armi in mano ad una controparte in cerca di pretesti per eludere i propri compiti di governo.
E proprio quelli che stanno dalla parte del governo, non avrebbero diritto di lamentarsi. In questi mesi hanno dipinto i sindacati come covi di terroristi, per poi magari chiedere la loro alleanza proprio contro il terrorismo. Hanno seppellito la concertazione (vedi il caso pensioni) e la politica dei redditi. Hanno distrutto la coesione sociale. Sono gli stessi che di fronte al dramma dei milanesi appiedati sanno offrire solo l'odore della vendetta. Sanno solo parlare di tolleranza zero (come fa il sottosegretario Maurizio Sacconi), di precettazione, di ricorso alla magistratura. Invece di pensare a costruire uno sbocco positivo. Invece di pensare ad interventi capaci di interrompere la pretesa delle imprese di trasporto pubbliche che non vogliono nemmeno aprire le trattative. Perché il governo non riflette sulla marcia indietro effettuata rispetto alle previsioni del Dpef, circa i fondi aggiuntivi preventivati per il settore? Perché il progetto di riforma langue?



Roma, una tranquilla giornata di disagi
Stop dalle 8,30 alle 16,30: come previsto
Davide Desario su
Il Messaggero

ROMA - La Capitale non si ferma come Milano. Frena, rallenta ma poi riparte. Gli autoferrotranvieri aderiscono in massa allo sciopero indetto da Cgil, Cisl e Uil contro il mancato rinnovo del contratto nazionale: dalle 9 alle 17 niente metropolitana, praticamente nessun autobus, tram o corriera. Al termine, però, i sindacati rispettano i patti e riprendono il servizio permettendo ai romani, seppur tra mille disagi e ritardi, di poter tornare a casa. Una lealtà apprezzata da tutti. Dal sindaco Walter Veltroni che in mattinata era intervenuto in prima persona lanciando un appello per chiedere ai sindacati di non ”imitare” Milano, dal prefetto di Roma Achille Serra e dal presidente dell'Atac, Mauro Calamante.
E' proprio vero: tutto è relativo. Così gli autoferrotranvieri romani, che in un giorno normale avrebbero rischiato il ”linciaggio” da parte di migliaia di pendolari lasciati a piedi per lo sciopero, ieri hanno incassato anche ringraziamenti. In molti, infatti, hanno temuto il bis di quello che stava accadendo all'ombra della Madonnina” e quando invece hanno rivisto passare autobus e metrò hanno tirato un sospiro di sollievo.
La giornata, comunque, è stata da dimenticare. Per gli habituè del trasporto pubblico come per gli automobilisti che hanno trovato le strade più intasate del solito. Il blocco è scattato alle 8,30 ma in realtà le prime ripercussioni si sono registrate dopo le 9. Ingorghi e file sulle consolari in direzione Roma. In centro traffico in tilt soprattutto nella zona di piazza San Giovanni.
A farne le spese anche i circa 2.600 taxi costretti a fare gli straordinari nel tentativo di rispondere al fiume di richieste che giungevano ai centralini delle diverse cooperative. A mezzoggiono alla stazione Termini la fila per poter salire su un'auto bianca superava i 200 metri di lunghezza.
A metà giornata si è temuto che anche i sindacati di Roma e provincia attuassero uno sciopero selvaggio. Per evitarlo è sceso in campo direttamente il sindaco Veltroni: "Il Sindaco rivolge ai lavoratori del settore e alle loro organizzazioni un appello urgente perché venga scongiurata l'ipotesi di prolungamento dello sciopero nell'interesse di tutti i cittadini e degli stessi lavoratori" ha detto il primo cittadino auspicando "che i gravi problemi che hanno portato allo sciopero dei trasporti pubblici vengano al più presto affrontati e risolti".
Alla fine della giornata il bilancio delle aziende di trasporto romane racconta di un'astensione dal lavoro praticamente totale: per Trambus (autobus e tram) hanno aderito allo sciopero il 93,5% degli autisti; per il Cotral (linee extraurbane) l'86%, per Met.Ro (linea A, B e ferrovie concesse Roma-Viterbo, Roma-Pantano, e Roma-Lido) il 94% che però è equivalso alla completa interruzione del servizio. Diverso il discorso per Sita-Ati (che geste tre lotti liberalizzati in periferia per un totale di circa 70 linee): il 77% nella zona Tiburtina-Appia; il 56% nel quadrante Flaminio-Eur e Ardeatino; meno del 20% nel settore Ostia-Trionfale.
Dalle 16,30, però, autobus e tram sono riusciti dalle rimesse e hanno ricominciato ”regolarmente” il servizio. Più lenta la riattivazione del metrò e delle ferrovie: la prima corsa della linea A è passata alle 17,08; le ferrovie concesse alle 17,18 e soltanto la linea B è entrata in funzione un'ora dopo la fine dello sciopero.
"A Roma il comportamento dei sindacati è stato corretto a differenza di altre città - ha dichiarato il prefetto Achille Serra - E questo ci dà soddisfazione, anche perché in caso contrario i disagi subiti dai cittadini sarebbero stati ancora più gravi". Secondo i sindacati la spiegazione è tutta nel diverso comportamento delle amministrazioni comunali: "A Milano il Comune ha voluto lo scontro - spiega Alberto Murri, segretario regionale Filt Cgil - A Roma, invece, c'è più dialogo e più rispetto. Certo, ci auguriamo che si tenga conto della nostra prova di maturità".
Ringraziamenti sono arrivati anche dal presidente dell'Atac (la società che gestisce il trasporto nella Capitale): "Alla luce delle decisioni prese dagli autoferrotranvieri di Milano - ha commentato Mauro Calamante - non posso che ringraziare i sindacati e i dipendenti delle aziende di trasporto romane che hanno ripreso regolarmente il servizio alla fine dello sciopero, rispettando le modalità annunciate alla cittadinanza, senza rinunciare a rivendicare i propri diritti, ma dimostrando, al contempo, un grande senso di responsabilità". E propone: "Proponiamo di destinare al finanziamento del trasporto una parte degli introiti del gettito dell'accisa sulla benzina, pari a 3 centesimi di euro per ogni litro di carburante venduto. Una proposta che porterebbe introiti pari a circa 650 milioni di euro l'anno, dapprima inserita nel Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), ma poi “scomparsa” dal testo della Finanziaria presentato dal Governo".


Un milione in piazza contro le nuove pensioni
Alessandro Barbera su
La Stampa

Al di là di una giornata consumata a colpi (verbali) di fioretto, sulle pensioni il confronto fra governo e sindacati non fa nessun passo avanti. "Io non ho posto alcun ultimatum, al contrario ho rallentato l'iter della delega per venire incontro a richieste, proposte e tempi chiesti dai sindacati", dice in mattinata il ministro Maroni, smentendo chi aveva interpretato le sue dichiarazioni di domenica come l'ultima chance a disposizione dei leader confederali per presentare una proposta alternativa di riforma previdenziale. "Il dieci dicembre è il termine per presentare gli emendamenti alla delega e mi auguro che nei prossimi giorni arrivi una proposta interessante", insiste il ministro. "Se così sarà, saremo felici di discuterla, di confrontarci e di inserirla nella delega. In caso contrario prenderemo atto del fatto che il sindacato non è in grado o non vuole formulare proposte alternative". Punto.
Pronta la risposta di Cgil, Cisl e Uil, che rifiutano il metodo proposto da Maroni e presentano la mobilitazione unitaria del 6 dicembre contro pensioni e Finanziaria, per la quale sperano di far scendere in piazza almeno un milione di persone: la proposta del governo "non è emendabile" e "va ritirata". E nel frattempo, spiega Guglielmo Epifani, stiamo invece lavorando ad una "progetto alto" di riforma complessiva dell'intero welfare. Una proposta alternativa e non emendativa", per dirla con le parole di Savino Pezzotta della Cisl. "Se lo si vuole discutere", dice il segretario della Cgil, l'esecutivo "deve fare un passo indietro e accantonare la sua riforma". Epifani è però convinto che Maroni non senta ragioni, perchè "parla da solo, fa e disfa tutto lui. E noi di fronte ad un governo che non vuole dialogare non abbiamo nulla da dire".

Nel governo e nella maggioranza c'è comunque ancora chi (An e Udc) almeno a parole insiste nel tenere aperto uno spiraglio per il dialogo. Se per il vicepremier Gianfranco Fini l'esecutivo è "pronto a un confronto coi sindacati", il ministro Gianni Alemanno è convinto che "lo slittamento a gennaio della riforma è opportuno, così le pensioni entreranno nella verifica". Rocco Buttiglione parla di un "ultimatum blando" di Maroni: "tutto il governo vuole che il sindacato si sieda e metta le carte in tavola sulle pensioni". Nel breve periodo però la risposta dei sindacati sarà solo una grande manifestazione di piazza, "speriamo la più grande della storia del Paese", dice Epifani. A giudicare dallo sforzo organizzativo è chiaro che i sindacati ci contano: per sabato prossimo sono stati prenotati 40 treni speciali e 3.000 pullman.


   2 dicembre 2003