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sulla stampa
a cura di P.C. - 1 dicembre 2003


Il terrorismo si batte con lo sviluppo
Intervista con Amartya Sen
Jacopo Iacoboni su
La Stampa

Il presidente George W. Bush ha appena trascorso la festa di Thanksgiving a Baghdad. Professor Amartya Sen, ha ragione l'amministrazione Usa, è possibile esportare la democrazia?
" Guardi, le politiche dell'attuale amministrazione sono difficili da comprendere. Perciò preferirei non cercare di indovinare che cosa esattamente sta accadendo a Washington. Certi giorni sembra che siano impegnati a promuovere la democrazia nel mondo, certi altri sembra che il punto cruciale sia combattere il terrorismo... Ho molta difficoltà a seguirli, come credo tante altre persone nel mondo. Il terrorismo si combatte con la democrazia, che è sviluppo".
C'è una frase che i neocons ripetono spesso, "bisogna pur rompere qualche uova per fare una buona omelette".
" No, io non credo sia necessario fare cose brutali per ottenerne buone. Non ho mai usato, anche se qualche volta mi è stata attribuita, quell'espressione sulle uova. La conosco e la detesto. Io penso il contrario, lo sviluppo non deve essere un processo sanguinoso ma qualcosa dal volto umano".
Certo la tesi che lo sviluppo globale debba essere qualcosa di doloroso sembra aver perso smalto. L'idea di sviluppo s'è addolcita?
" Da quale punto di vista?"
Per esempio c'è un'attenzione incomparabilmente più sensibile alle questioni sociali. New York Times dice che l'opinione pubblica è diventata l'altra grande superpotenza mondiale...
" Oh sì, se lei ha in mente le questioni delle privazioni delle donne, della sanità pubblica, dell'educazione scolastica, anch'io ritengo che la consapevolezza oggi sia molto più diffusa e avanzata che in passato. Questo naturalmente non elimina i problemi e le disparità".
Eppure l'ha scritto lei: un clima “participatory” in economia, uno sviluppo più partecipato, sta funzionando. Per esempio nell'Asia orientale, no?
" Nel mio libro Sviluppo come libertà arguisco che non esiste un paese ideale. Ogni regione del pianeta ha esperienze dalle quali possiamo imparare. L'Asia dell'est è un buon esempio di economia partecipativa, di sviluppo attraverso l'attenzione all'educazione di base e alla sanità pubblica, ma non è un esempio abbastanza buono di partecipazione politica e diritti democratici: la Cina di queste ore è proprio in questa situazione. Ammiro quello che hanno fatto, ma sullo sfondo di quello che ancora non hanno raggiunto. L'India si trova nella situazione opposta: va meglio la democrazia, va meno bene il Welfare.
Quello est-asiatico non potrebbe essere un riferimento per lo sviluppo del tumultuoso Medio Oriente?
" Onestamente credo che non sia facile. Faccio un esempio: la grande sensibilità per l'educazione pubblica di base, in estremo oriente, non è stata inventata dalla Cina ma dal Giappone, e almeno dagli anni Sessanta. Dal 1930 i giapponesi hanno pubblicato più libri degli inglesi. Questa lezione è stata esportata in Corea, Taiwan, Hong Kong, Cina. E dopo anche in Thailandia. Da questo punto di vista, India, Pakistan e Bangladesh hanno molto da imparare. E ancora di più Iran, Iraq, Giordania, Marocco. Ma sono processi richiedono anni. L'esempio è di nuovo la Cina, dove ultimamente queste opzioni democratiche sembrano così impraticabili".
Esempio perché?
" Nel 1979, quando la Cina ha introdotto le riforme economiche, il paese era parecchio avanti all'India; aveva delle aspettative media di vita di 68 anni, l'India dai 53 ai 54: l'India aveva un gap di quattordici anni. Oggi il gap è di soli sei anni, la Cina è passata da 68 a 70, l'India da 54 a 64. Vede, la democrazia è fondamentale, ma non come bene in sé: citando Machiavelli, come strumento per ottenere altre cose".

Lei ha citato Machiavelli come un grande pensatore politico per l'attenzione alle classi svantaggiate. Eppure è solitamente letto come un padre della Realpolitik. Cosa c'entra Amartya Sen il buono con Machiavelli il cattivo?
Risata. "Ogni pensatore politico originale, Hobbes, Burke, Machiavelli, ha tante facce. In Machiavelli c'è il teorico della Golpe astuta, ma anche il grande difensore della democrazia, che è quello che io cito. Guardi i Discorsi, “le città non hanno mai aumentato il loro potere senza prima aver stabilito e consolidato la propria libertà”. E poi in Machiavelli, come secoli dopo in Antonio Gramsci, c'è un'analisi tra le più penetranti delle radici della disuguaglianza umana. C'è anche un poeta e una poesia che amo tantissimo citare, riassume la globalizzazione equa e complessa che ho in mente, unica risposta al terrore".
E sarebbe?
" W.H. Auden, e la poesia è Le speranze del poeta. Dice “la speranza di un poeta, essere dolce come i formaggi delle valli, radicato nella sua comunità, apprezzato nel mondo intero”".


Milano: lo sciopero parte prima e non si ferma
Redazione del
Corriere della Sera

MILANO - Migliaia di milanesi e pendolari inferociti e bloccati dallo sciopero anticipato dei mezzi pubblici. L'astensione dal lavoro era stata annunciata da giorni dalle 8,45 alle 15 di lunedì. Invece stamane i cittadini hanno trovato le porte delle metropolitane sbarrate e senza alcun avviso che spiegasse all'utenza cosa stava succedendo, e anche il ritorno a casa è pregiudicato: il servizio infatti non ripartirà.
LA SITUAZIONE - Stamattina le strade erano vuote: zero tram e zero autobus. Nelle stazioni delle metropolitane, in particolare quelle terminali e dove ci sono i parcheggi per chi giunge da fuori città, il numero dei passeggeri esasperati era molto elevato e in parecchi hanno intasato il centralino dei Carabinieri per protestare per questa che è considerata una violazione da parte dei lavoratori della Atm, Azienda trasporti municipale, delle norme che regolano il diritto di sciopero.
PREFETTO CONVOCA SINDACATI - Il prefetto di Milano, Bruno Ferrante, ha convocato per le ore 13 i sindacati in relazione agli sviluppi dell'agitazione dei trasporti che, anticipata rispetto ai tempi previsti, ha paralizzato la città.
A OLTRANZA - E intorno alle 15 arriva la notizia più attesa: il blocco continuerà, i lavoratori dell'Atm che hanno deciso di scioperare dall' inizio del turno di stamani, contrariamente a quanto preannunciato dalle organizzazioni sindacali, non risaliranno sui mezzi alle 15.30. Lo hanno detto i delegati sindacali di tutte le sigle, che dalla scorsa notte sono riuniti in assemblea permanente in uno dei depositi dell'azienda in via Palmanova. "Di sicuro per oggi non riprendiamo. Per domani mattina, decideremo nelle prossime ore", hanno detto Antonio Longo, delegato Cgil, e i rappresentanti di altre sigle sindacali. Questa comunicazione scavalca di fatto quella fatta da Cgil, Cisl e Uil milanesi, che al termine dell'incontro con il Prefetto di Milano Bruno Ferrante, cui hanno partecipato anche i responsabili cittadini di Cgil e Uil, Giorgio Roilo e Amedeo Giuliani, e il segretario della Fit Cisl Lombardo, Dario Balotta, avervano chiesto ai lavoratori in sciopero di riprendere il servizio alle 15.30 come stabilito. "Invitiamo tutti i lavoratori, iscritti o non iscritti ai sindacati confederali ad assumersi la responsabilità di tornare a lavorare alle 15", aveva affermato Maria Grazia Fabrizi, segretario della Cisl milanese.
118 IN CRISI - Lo sciopero dei trasporti a Milano sta mandando in crisi anche la centrale operativa del 118. Decine le chiamate di persone che questa mattina dovevano ricoverarsi o effettuare dialisi e che si sono rivolte al 118 per poter raggiungere gli ospedali. "Abbiamo istituito 5 mezzi aggiuntivi - spiega Carlo Fontana, responsabile del 118 milanese - ma per noi è impossibile soddisfare tutte le richieste e per questo diamo alle persone che ci chiamano i numeri delle varie associazioni che sono a loro volta in difficoltà". Inoltre le 21 ambulanze operative questa mattina hanno molte difficoltà a raggiungere i luoghi di destinazione, a causa della congestione delle vie cittadine. Al momento, comunque, non sono stati registrati casi limite.
SINDACATI - Lo sciopero è stato indetto da Cgil, Cisl e Uil di categoria per chiedere il rinnovo del secondo biennio del contratto nazionale. "È stata una fermata spontanea dei lavoratori", conferma la segreteria della Fit Cisl lombarda. "Sappiamo che questo non sarebbe consentito dalla normativa sugli scioperi e ci rendiamo conto dei disagi che arrechiamo, ma - conclude la Fit Cisl - questo è l'ottavo sciopero che facciamo per il rinnovo del contratto, senza che si sia ancora ottenuto nulla".
UIL: DIPENDENTI ATM TORNINO IN AZIENDA - Il primo a incitare un rientro dei dipendenti in azienda perché il servizio riprenda regolarmente alle ore 15 è il segretario lombardo dei trasporti Uil, Roberto Monticelli: "L'iniziativa spontanea, anche se non giustificabile, è il frutto dell'esasperazione prodotto dalle lungaggini che il rinnovo contrattuale sta subendo". La Uil ha chiesto l'intervento del prefetto di Milano per risolvere la questione. "Vi sono gravi responsabilità delle organizzazioni datoriali, del governo e delle istituzioni locali che continuano a rimpallarsi la soluzione del problema. Cgil, Cisl e Uil hanno da tempo chiesto un rimedio e oggi è arrivato il giorno di affrontarlo con serietà".
IL COMUNICATO DELL'ATM - Ecco il comunicato che compare sul sito internet dell'Atm: "Attenzione! CIRCOLAZIONE BLOCCATA SULLA RETE ATM: sciopero iniziato prima del previsto. Si comunica che contrariamente alle previsioni lo sciopero indetto dalle organizzazioni sindacali FILT CGIL, FIT CISL, UILT UIL, FAISA CISAL e UGL è stato attuato fin dall'inizio del servizio. Pertanto, l'intera rete ATM è totalmente priva di vetture in circolazione sulla rete di superficie e metropolitana. L'agitazione non ha pertanto rispettato la fascia di garanzia dettata dalla normativa di settore che per Milano prevedeva, come comunicato, il completo servizio fino alle 8,45. Nel corso della giornata, si provvederà a fornire tempestivi aggiornamenti".
A ROMA MINACCIA DI PROLUNGAMENTO SCIOPERO - Situazione d'allarme a Roma dove si parla di un possibile proseguimento dello sciopero , che dovrebbe terminare alle 16.30 fino alla mezzanotte. "Di fronte all'ipotesi che, come sta avvenendo in altre città, si verifichino spinte perchè lo sciopero sia prolungato fino alle ore 24 - dice il sindaco della città Walter Veltroni - rivolgo ai lavoratori del settore e alle loro organizzazioni un appello urgente perchè‚ questa eventualità venga scongiurata, nell'interesse di tutti i cittadini e degli stessi lavoratori". Veltroni "ha rinnovato l'auspicio che i gravi problemi che hanno portato allo sciopero dei trasporti pubblici vengano al più presto affrontati e risolti".
LE ALTRE CITTA' - Altissima, superiore al 90% secondo i sindacati, l'adesione allo sciopero nelle altre città d'Italia interessate dove però sono state rispettate le tabelle di marcia dichiarate. Qualche disagio ma nessuna situazione di crisi a Napoli, Bologna e Firenze.
A Palermo adesioni superiori al 95%. A Venezia secondo l'Actv, l'adesione è stata del 96,9% per quanto riguarda i lavoratori della navigazione, mentre qualche punto in meno, il 91%,
è stata l'adesione dei conducenti degli autobus.


L'identita' del centrosinistra
Il nuovo Ulivo e la lista senza Di Pietro
Gian Enrico Rusconi su
La Stampa

“Tutti uniti contro”. Non è solo uno slogan, ma una necessità per l'Ulivo se vuol ricominciare a vincere, a partire dalle prossime elezioni europee, e portare al successo la lista unitaria. Una necessità che non ha alternative e deve contare anche su Di Pietro e Bertinotti.
Ma quanto sono compatibili in un programma coerente? O, detto in termini positivi, che cosa si deve fare per rendere compatibile il contributo di Di Pietro, non semplicemente tollerato come portatore di voti? In quale logica politica si colloca?
"I numeri contro" non garantiscono affatto la credibilità e la coerenza di un progetto politico alternativo al centrodestra. Nel corteo del centrosinistra di Torino dell'altro ieri c'era un numero consistente di professionisti della politica, di amministratori, di militanti. Tutte ottime persone, dedicate alla causa del centrosinistra. C'erano anche i leader delle diverse formazioni del centrosinistra, che rappresentano una tipologia politica ancora diversa: sono quelli che parlano, una sera sì e una no, per sette secondi nei Tg, ben attenti a sottolineare "l'identità" positiva dei loro rispettivi partiti. E' il loro insieme che fa l'Ulivo?
In realtà l'identità comune dell'Ulivo, se non può essere dettata dal puro antagonismo contro il berlusconismo, non può essere neppure la somma delle identità dei suoi componenti. La sua forza è di saper pescare in profondità in quella che continuiamo a chiamare "società civile", anche se questo termine si è nel frattempo terribilmente logorato.
In questa ottica le differenze che l'Ulivo può rappresentare non si collocano lungo una linea ideale che va da "più sinistra" a "meno sinistra". Le differenze riproducono (dovrebbero riprodurre) sfere di interesse sociale, economico, civile diversificate eppur sovrapponibili, componibili in un disegno comune.
Ci sono cittadini più sensibili e più arrabbiati di altri sulle questioni della giustizia; ci sono cittadini più attenti e impegnati di altri sui temi della laicità; ci sono cittadini più interessati e preoccupati di altri del lento degrado della scuola. Dai girotondi per la giustizia ai picchetti anticensura nati sull'onda del "caso Guzzanti" (e pronti a tornare in campo dopo l'approvazione della legge Gasparri), questi movimenti hanno avuto sempre una caratterizzazione estremistica e di forte contestazione dei gruppi dirigenti ulivistici. Se Di Pietro (che certamente non è di sinistra, anzi si professa moderato, ma ha posizioni affini sulla giustizia) riuscisse ad assumerne la leadership, sarebbe in grado di offrire a quest'area anche uno sbocco elettorale alle Europee, concorrenziale alla lista unitaria e dunque destinato a danneggiarla.
L'Ulivo deve dunque trovare il modo di rivolgersi anche a questi gruppi e riconsiderare la rottura con Di Pietro (con Bertinotti la questione della lista unitaria non è all'ordine del giorno). Ciascuno di essi fa "numero" relativamente modesto (e crea anche domande di rappresentanza). Ma non sono in contrasto con i grandi temi della equità sociale e dello sviluppo, della necessità delle riforme istituzionali o del Welfare o con la nuova centralità della questione europea. La questione dei "confini" della lista unitaria è più rilevante se la lista tende a realizzarsi poi in un nuovo partito "riformista" (in cui l'anima prevalente sarebbe quella socialdemocratica). Mentre invece, all'interno di un grande partito "democratico", posizioni, esigenze e identità diverse potrebbero più facilmente convivere. Anche questa, ovviamente, come quella della leadership, è una questione da chiarire per tempo.


Forza Italia, no degli alleati
Lista unitaria più lontana
Livia Michilli sul
Corriere della Sera

Gli inquilini della Casa delle Libertà sono troppo litigiosi, bisogna ristabilire un clima di unità e concordia. Roberto Maroni, Sandro Bondi, Rocco Buttiglione, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri, riuniti intorno a un tavolo, la pensano allo stesso modo ma non fanno in tempo a dirsi d'accordo che ricominciano a dividersi. Sulla lista unitaria per le Europee e sul partito unico, ad esempio, le posizioni sono tutte diverse, col risultato che a Strasburgo ognuno finirà per andare da solo. Forza Italia è favorevole ad entrambe le ipotesi, la Lega nettamente contraria. An guarda con favore al progetto di una nuova casa comune del centrodestra ma sulle elezioni europee aspetta che si muovano gli alleati. L'Udc, infine, boccia la lista e prende tempo sul partito unico.
La convention di Destra protagonista chiude i battenti con un dibattito sul tema del bipolarismo e i padroni di casa hanno invitato i compagni di governo. E' l'occasione per tastare il polso alla coalizione: troppe polemiche, dicono tutti, "siamo l'uno contro l'altro armati". Secondo il coordinatore di Forza Italia Bondi la lista unitaria sarebbe un modo per far prevalere la logica della concordia ma gli alleati non sono d'accordo. "L'Udc correrà da solo", ribadisce Buttiglione. Il ministro per le Politiche comunitarie è sicuro che intorno al partito c'è oggi grande consenso perché l'identità democratico-cristiana è più forte nella maggioranza che nell'opposizione: "Abbiamo portato lo scudocrociato nella competizione elettorale anche quando tutti pensavano che avremmo avuto risultati da prefisso telefonico - spiega - perché dovremmo rinunciarci ora?".

Insomma, i veti incrociati zavorrano la lista unica del centrodestra anche se il ministro per l'Attuazione del programma Claudio Scajola non si dà per vinto: "Siamo vicini alla scadenza ma sono speranzoso. Comunque, Forza Italia ha una base elettorale forte e non temiamo la concorrenza". Maurizio Ronconi dell'Udc auspica che almeno sul partito unico si possa arrivare ad un'intesa: "Berlusconi deve intervenire e prendere in mano la situazione. Il centrodestra ha bisogno di un nuovo percorso che lo porti ad essere il Ppe italiano, un partito alla Aznar".


La vera sfida al Cavaliere
Massimo Giannini su
la Repubblica

Da Fiuggi a Gerusalemme. Al raduno della Destra sociale all'Hotel Hilton, mercoledì prossimo, si capirà meglio se la "lunga marcia" di Gianfranco Fini traghetterà An verso una nuova "Casa dei moderati". Oppure se la sua "svolta antifascista" condurrà il partito a sbattere contro il muro di una scissione vecchio stile. Nella testa del leader c'è il primo obiettivo. Nel cuore di molti suoi elettori c'è il secondo. La ragion politica pende a favore di Fini. Intanto, dalla proposta del voto agli immigrati fino alla visita al Museo della Shoah, ha riportato Alleanza nazionale al centro della scena. È già un gran risultato, dopo due anni e mezzo di oscuro gregariato in un Polo comandato da Berlusconi e Bossi. Ma soprattutto, con la sua svolta, Fini ha terremotato l'intero centrodestra. E, sia pure senza dirlo, ha ufficialmente aperto la battaglia per la leadership con il Cavaliere.
Passerà attraverso tre tappe di breve, medio e lungo periodo: il rimpasto di gennaio, le elezioni europee del giugno 2004, le politiche del 2006. Per capirlo, è utile partire da una domanda. A chi parla la nuova "pedagogia democratica" di Fini, come la chiama Piero Ignazi? Agli elettori di Alleanza Nazionale, certo.
Gli chiede la maturazione definitiva delle tesi già formulate al congresso di Fiuggi del '95. Gli spiega che quella svolta, fino ad oggi "prodotta" esclusivamente dalla politica, per potersi considerare davvero compiuta deve essere finalmente "dedotta" dalla storia.
Va praticata, oltre che enunciata, recidendo le radici culturali inaridite e i simboli storici logorati: Mussolini, Salò, prima o poi anche la Fiamma. È un passaggio difficile, per quel che resta dell'ex Msi. Può lasciare sul campo molti delusi, e anche qualche transfuga. Dietro a donna Assunta Almirante, alla Mussolini e a Storace si agita un microcosmo che è fatto di anziani nostalgici e di giovani convinti. Non solo manipoli di ultrà scalmanati di certe curve italiane, ma anche circoli di ragazzi che credono davvero nel modello della Repubblica Sociale. Ma una scissione non sembra nell'ordine delle cose. Una Rifondazione fascista esiste già: è la Fiamma Tricolore di Rauti, una presenza politica di pura testimonianza ma di sostanziale irrilevanza polverizzata nel Centro-Sud.

E piaccia o no, nel lungo periodo il protagonismo di Fini porta il leader a diventare non più un'inconsistente controfigura di Berlusconi, ma il suo vero antagonista nella guida futura del centrodestra. I suoi strappi, tanto più se saranno chiariti e metabolizzati nei prossimi mesi, configurano già un passo deciso nella terra incognita del dopo-Berlusconi. Questa è la grande partita del 2006. Se il Cavaliere avrà la forza di candidarsi alla presidenza della Repubblica, Fini si presenterà con le carte in regola per ereditare la guida del centrodestra nella prossima legislatura. Se al Cavaliere non riuscirà la forzatura sul Quirinale, e se la sua esperienza di governo si concluderà senza i "miracoli" che aveva promesso, Fini avrà pieno titolo per aprire la guerra di successione. E con l'aiuto di Casini, sempre più innamorato delle suggestioni del Colle, potrebbe avere buone probabilità di vincerla.


Gli elettori di An si schierano con Fini
I risultati di un sondaggio
Renato Mannheimer sul
Corriere della Sera

Le dichiarazioni di Gianfranco Fini in Israele sulle leggi razziali, sulla Repubblica di Salò e sul fascismo sono state seguite, con diversi livelli di attenzione, dall'80 per cento degli elettori di Alleanza nazionale e da una quota poco minore (77 per cento) di tutto l'elettorato, particolarmente dai meno giovani, forse più interessati alle ricostruzioni e alle puntualizzazioni storiche. Con quali esiti per l'opinione pubblica e per il seguito elettorale del partito? "Fini traditore d'Italia!" diceva lo striscione, issato (per caso, proprio davanti a me) da Forza Nuova sabato allo stadio di Torino.
Davvero Fini ha "tradito"? Per rispondere compiutamente occorre distinguere i votanti "potenziali", che, per ora, si limitano a "prendere in considerazione" - assieme ad altre alternative - An per il voto (in larga misura giovanissimi sotto i 30 anni che si "sentono" di centrodestra più che di destra), dai cosiddetti "sicuri", che già oggi sono intenzionati a votare Alleanza nazionale.
Questi ultimi, a loro volta, sono suddivisi tra chi si definisce di destra tout-court (poco meno del 40%, con una presenza relativamente maggiore di titoli di studio medio-bassi) e chi invece si ritiene "di centrodestra" (44%, la maggioranza relativa) o addirittura "di centro" (una minoranza consistente, quasi il 15%).
In tutte queste categorie, nessuna esclusa, così come nel complesso dell'elettorato, le esternazioni di Fini vengono approvate. Esse sono considerate "opportune" da più del 70% dei votanti attuali per An e da una quota ancora maggiore (77%) dell'elettorato potenziale. Non solo: per la maggioranza dell'elettorato nel suo insieme e, in misura ancora più elevata, di quello di An, le dichiarazioni di Fini costituiscono una vera e propria svolta per il partito e per la politica italiana.
Ma Fini è stato sincero? Secondo l'elettorato, sì. Le dichiarazioni sono considerate "credibili" dalla maggioranza degli italiani e da grosso modo tre quarti dei votanti per An, in misura leggermente maggiore tra i "sicuri". Tra i "potenziali" c'è più scetticismo - sia pure in un gruppo minoritario (tra il 20 e il 30%) - sulla credibilità. E' forse questo il motivo per cui, proprio nell'elettorato potenziale, risulta un po' più consistente la minoranza che ritiene che le dichiarazioni di Fini non costituiscano "nessuna svolta" per il partito e/o per la politica italiana o rappresentino addirittura un evento negativo. Al di là di questo, tuttavia, i risultati delle prime indagini di opinione suggeriscono come il viaggio in Israele debba essere considerato un successo, sia per Fini sia per le potenzialità di crescita di An. Per ora, in misura più evidente per il primo che per le seconde.



Washington teme la fuga degli alleati
Dopo le stragi di italiani e spagnoli
Stefano Trinca su
Il Messaggero

NEW YORK E ora l'America teme la diserzione di massa. Non dei propri soldati impegnati in Iraq. Ma degli alleati stranieri colpiti nuovamente e duramente dalla guerriglia fedele a Saddam. Prima gli italiani, poi gli spagnoli, in triste compagnia dei giapponesi e ieri ancora dei coreani e di un colombiano. Nel novembre nero dell'occupazione, che George Bush ha cercato di risollevare a livello di immagine andando a tagliare il tacchino a Bagdad, si fanno i conti con un pesantissimo bollettino di morte: gli americani caduti sul campo sono 439 dall'inizio della guerra, circa 2000 i feriti, 57 gli inglesi, 19 gli italiani, 8 gli spagnoli, due i giapponesi, due i sudcoreani, un polacco.
"Bisogna internazionalizzare il conflitto al più presto - ha dichiarato in Tv l'ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger - i terroristi in Iraq stanno cercando di dividerci dagli alleati, di isolarci. E gli alleati cominciano a tentennare, perché sanno che a Washington c'è la crescente tentazione di tagliare la corda non appena la situazione lo consentirà".
Al di là delle dichiarazioni roboanti e delle manifestazioni di patriottismo militante, la sensazione che si coglie a Washington è esattamente questa. Manca un mese all'inizio del 2004, anno elettorale per eccellenza. C'è in ballo la Casa Bianca e Bush, scrive il Washington Post, ha ben altri eserciti di cui preoccuparsi. Nello specifico l'esercito di sostenitori e potenziali elettori destinati a difenderlo dall'attacco dei democratici. Nella banca dati elettronica del Partito Repubblicano sono già sei milioni i nomi a disposizione: un'organizzazione gigantesca è ben finanziata che nei prossimi mesi entrerà in azione, surclassando nel numero e nei mezzi le risorse dei democratici.
Con il fardello - di vite umane e di dollari - dell'Iraq sulle spalle, Bush teme una nuova elezione decisa da un pugno di voti. Il Paese è profondamente diviso, spiegano i sondaggi di opinione: ogni bara americana in più in arrivo da Bagdad rischia di far pendere la bilancia dalla parte degli scontenti soprattutto se lo stillicidio dovesse prolungarsi fino a estate inoltrata.
Di qui la fretta di chiudere in qualche modo la pentola irachena prima che sia troppo tardi. Altrimenti l'immagine vincente e felice del Thanksgiving fra le truppe diventerebbe un'imbarazzante zavorra. Proprio come ieri suonavano grottesche le dichiarazioni rilasciate, prima della strage degli stranieri e della morte di due altri soldati Usa, le parole incoraggianti del comandante delle truppe Usa in Iraq, generale Sanchez. Secondo il quale nelle ultime settimane gli attacchi contro le forze della coalizione sono diminuiti del trenta percento, grazie alla controffensiva scatenata per catturare o uccidere i terroristi.
Non sarà affatto facile districarsi dalle sabbie irachene, pronosticava ieri il Washington Post. Sottolineando come il piano di transizione preparato dagli Usa sia di nuovo impantanato, in seguito all'ostinata opposizione che al riguardo ha confermato l'ayatollah Sistani, capo spirituale della maggioranza sciita. E dalla crescente ostilità che i liberati iracheni mostrano nei confronti dei liberatori americani e dei loro alleati.


Ballare sui cadaveri
Siegmund Ginzberg su
l'Unità

Lo scempio dei cadaveri ha sempre fatto parte degli orrori della guerra. E dell'orrore dell'umanità contro la guerra. La prima cosa che mi ha fatto venire in mente la terribile foto del piede che calpesta in segno di sfregio il corpo di una delle vittime dell'agguato agli spagnoli a Mahmudiya sono le tavole che Francisco Goya, ormai ultrasessantenne, aveva inciso febbrilmente per documentare le atrocità, da entrambe le parti, viste durante l'occupazione della Spagna da parte degli eserciti napoleonici (1808-1814). Era una "piccola guerra", da lì ci viene il termine guerrilla, guerriglia. Insurgency, sinonimo di guerriglia, è il modo in cui, dopo le esitazioni iniziali, viene definito sempre più insistentemente in America, quel che si trovano a fronteggiare in Iraq.
Quella serie di incisioni Goya le aveva chiamate "I disastri della guerra". Sono delle specie di foto ante litteram. Ma anche il preludio di qualcosa di ancora più angoscioso e indefinibile, delle allucinazioni in cui cercò di dipingere "il sonno della ragione umana che crea mostri". Quasi tutte hanno per argomento scempi atroci di corpi umani, crudeltà, carneficine, stupri e mutilazioni bestiali. Spagnolo sino al midollo, Goya denuncia le atrocità di un esercito occupante, che pure intendeva portare lumi e civiltà nell'Europa in preda al più bieco oscurantismo. Ma anche le atrocità del "populacho" contro i francesi, o contro altri spagnoli ("lo merecia", lo meritava è il titolo inquietante dell'incisione in cui la folla inferocita tortura, o sfregia il cadavere, di un uomo trascinato con una fune con cui gli hanno legato i piedi). Gli chiesero cosa l'avesse portato a registrare tutti quegli orrori. "Poter dire agli uomini, da qui all'eternità, che non possono essere così selvaggi", rispose.

Era successo ai sovietici in Afghanistan (mettersi contro tutti, anche coloro che poi si sono combattuti tra di loro nei dieci anni successivi alla cacciata dell'armata rossa), agli americani in Vietnam e in Cambogia. Non sarebbe la prima volta che tra due mali, due percepiti oppressori, la gente "finisce col scegliere quello che almeno parla la stessa lingua". Né che ad orrori senza fine di un regime e di una guerra seguono orrori anche peggiori. É forse perché se ne sono resi tardivamente conto che hanno deciso in qualche modo di cercare un'intesa, se non di passare la mano, agli sciiti, l'unica "maggioranza" concepibile al momento.
Eppure c'erano molti e molte esperienze a ricordargli che le "piccole guerre" possono essere le più atroci e bestiali, come la prima così chiamata di cui aveva testimoniato Goya, e che con grandi eserciti "si può vincere la guerra, ma perdere un paese". Fa impressione leggere il monito nella conferenza che Bernard Fall, esimio studioso di politica internazionale (aveva combattuto a fianco degli americani nella guerra contro i nazisti ed era stato tra gli investigatori del processo di Norimberga) era stato invitato a pronunciare all'Us Naval War College. Parlava di Vietnam. Era il 1964. Appena agli inizi. Tre anni dopo restò ucciso a Hué, mentre era coi marines che pattugliavano l'autostrada numero 1.


D'Alema accusa: “L'Italia è in Iraq per caso”
“Il Governo rifiuti la logica di Bush”
Ninni Andriolo su
l'Unità

In Iraq si consuma la dèbâcle della guerra preventiva teorizzata da Bush. La comunità internazionale deve "fare un bilancio" di questa fase. Serve una "svolta" e questa deve riguardare anche "la politica seguita sinora dal governo italiano". Per questo è necessario mettere in calendario "una discussione parlamentare". Massimo D'Alema parla a Bari, alla vigilia di scadenze decisive. Il 15 del mese si riunirà a New York il Consiglio di sicurezza Onu. Il 13 si concluderà a Bruxelles la riunione del Consiglio europeo, l'ultima a presidenza italiana. E a dicembre si porrà anche il problema del rifinanziamento della missione del nostro contingente in Iraq. La coincidenza di queste scadenze, per il presidente Ds, impone un dibattito alla Camera o al Senato. Una discussione che anticipi un decreto governativo che stanzi i nuovi fondi per la presenza italiana a Nassiriya?

E D'Alema è molto critico con il premier italiano. L'idea di sconfiggere "il terrorismo con la guerra è come quella di voler spegnere il fuoco con la benzina", afferma. E la sequela di stragi e lo stillicidio di morti che insanguinano le strade di Tikrit, di Sawaira. di Bagdad, di Nassiriya, come l'allarme kamikaze che preoccupa i governi che hanno inviato contingenti militari in Iraq, richiede "una svolta". "La comunità internazionale" deve "fare un bilancio" dei risultati di questi mesi, afferma il presidente dei Ds. E la "svolta" deve riguardare anche "la politica seguita sinora dal governo italiano". Perché la guerra "è stata un disastroso errore" e "non ha sconfitto il terrorismo, che oggi è più pericoloso e più forte di quanto non lo fosse quando sono partite alla volta dell' Iraq le navi militari americane". È evidente, quindi, "la responsabilità del governo Berlusconi nell'accettare" la logica di Bush. E mentre l'Italia "è minacciata", si ha "la sensazione di essere in Iraq quasi per caso, per una smania di protagonismo servile, per qualche pacca sulla spalla, per qualche fotografia ogni tanto sui giornali".
Per questo "chiediamo una svolta e non lo facciamo con la saggezza del dopo, perché noi avevamo già parlato dei rischi della guerra preventiva" anche se "non siamo quelli della fuga dall' Iraq, non abbiamo chiesto il ritiro dei militari italiani anche dopo la strage di Nassiriya, pur se non li avremmo mandati".


La legge sull'ambiente: un dono agli abusivi
Salvatore Settis su
la Repubblica

Si era capito che la Finanziaria di quest´anno passerà alla storia come il più selvaggio e determinato attacco al patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale del nostro Paese; ma sbaglia chi crede che abbiamo già toccato il fondo con la sequenza di provvedimenti come il condono edilizio e il silenzio-assenso. Con un nuovo colpo di mano, infatti, la legge sull´ambiente, già più che criticabile e più che criticata anche su queste pagine, si sta trasformando in una sanatoria senza confini e senza regole di qualsiasi abuso, di qualsiasi forma di distruzione del paesaggio.
Il testo della legge delega in materia ambientale (A.S. 1753 B) è stato presentato dal ministro dell´ambiente, Matteoli, di concerto con altri dieci ministri (Tremonti, Lunardi, Castelli, Moratti, Frattini, Buttiglione, Marzano, Alemanno, Stanca, La Loggia), ed è ora al Senato, in attesa della finale approvazione. Ma il testo tornato al Senato in seconda lettura è radicalmente diverso da quello originario: vi si è insediato infatti un perverso emendamento, presentato da parlamentari di maggioranza e votato alla Camera in presenza di esponenti del governo (fra cui il sottosegretario all´ambiente), che modifica radicalmente la portata della depenalizzazione degli illeciti penali in materia paesaggistica.
Che cosa è cambiato rispetto al testo approvato dal Senato in prima lettura? All´art. 32, la totale depenalizzazione era prevista solo "per i lavori compiuti in difformità dalla autorizzazione" rilasciata al richiedente, il che almeno ipotizzava che vi fosse stata una qualche richiesta di autorizzazione. Nella nuova versione, l´estinzione del reato è estesa anche ai "lavori compiuti in assenza di autorizzazione", cioè alle forme più bieche e becere di abusivismo. Non è tutto. Nella versione originaria del testo, si prevedeva almeno che l´estinzione del reato avvenisse solo a condizione che "le difformità non abbiano comportato aumenti delle superfici utili o dei volumi": questo comma, nella nuova versione emendata, è stato semplicemente soppresso, il che vuol dire che chi ha trasformato abusivamente un canile in un condominio di venti piani riscuote il plauso del legislatore. Infine: nella versione originaria l´estinzione del reato era subordinata al pagamento di una sanzione pecuniaria, mentre ora tale sanzione viene rinviata sine die, e solo "ove sia accertato il danno arrecato". In altri termini, con la nuova norma anche chi avesse costruito un grattacielo su una spiaggia senza nemmeno provare a chiedere l´autorizzazione non solo non ha più commesso alcun reato, ma nemmeno pagherà un centesimo di multa. Peccato che questa norma non sia arrivata in tempo a salvare le otto orripilanti torri del villaggio Coppola (Caserta), "la città degli abusi", appena demolite dopo decenni di battaglia civile, come ha raccontato Francesco Erbani nel suo L´Italia maltrattata: sembra fatta a misura per casi come quello.
Con questo emendamento, la possibilità di sanare piccoli abusi paesaggisticamente irrilevanti si trasforma in una generale depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio di qualsiasi forma e dimensione. Il paesaggio del Bel Paese diventa terra di nessuno, regalata agli abusivi, dei quali non c´è dubbio che, con una norma come questa, vincerà il peggiore, cioè chi ha meno scrupoli, il più violento nel distruggere il paesaggio per proprio tornaconto. Inutile e ingenuo sarebbe sperare che la valutazione di compatibilità delle opere abusive, delegata ai Comuni, sia un argine sufficiente: complicatezza delle procedure e le ovvie pressioni locali inducono al più grande pessimismo.
Infine, un´aggravante ulteriore: questo art. 32 della legge sull´ambiente interviene a modifica dell´art. 163 del testo unico sui beni culturali e ambientali (490/1999), e ciò a meno di un mese da quando il Consiglio dei ministri ha approvato il testo del Codice Urbani, che certo non contiene nulla di remotamente simile a una norma tanto incivile e devastante. Chiediamoci per un momento: cui prodest? L´art. 163 del testo unico ha lo scopo di scoraggiare, con multe e con sanzioni penali, le edificazioni abusive nelle aree vincolate: la nuova legge, se approvata, è destinata al contrario a sancire e incoraggiare l´abusivismo, senza nemmeno la scusa (sbandierata ai tempi del condono) di "far cassa", visto che in questo caso anche le sanzioni pecuniarie sfumano nel nulla. La conclusione è inevitabile: la nuova norma, che per lo Stato non comporta alcun vantaggio, nemmeno quello (assai dubbio) di raggranellare un po´ di soldi, è concepita e fatta nell´esclusivo interesse degli abusivi come quelli del villaggio Coppola, cioè di cittadini che si sono distinti per aver violato la legge, e che verranno in tal modo premiati.
Con questo emendamento, dunque, la legge sull´ambiente non solo calpesta tutte le norme vigenti, non solo delegittima preventivamente il codice Urbani, ma fa impallidire persino le recentissime norme sul condono edilizio, che prevedono sì la depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio, ma subordinando la concessione del condono a una valutazione favorevole di compatibilità espressa dalle Soprintendenze.



   1 dicembre 2003 2003