La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 28 settembre 2003
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Nota introduttiva. Questa settimana in rete è una lettura dantesca fatta con la guida di Maria Soresina, che è nata e vive a Milano. Si è laureata alla Statale in scienze politiche e per anni ha svolto il lavoro di traduttrice e di interprete. Prima ha scoperto l'India (negli anni '60, traducendo una selezione di scritti di Gandhi), poi ha scoperto Dante. Così racconta nell'introduzione del suo libro libro Le segrete cose. Dante tra induismo ed eresie medievali editore Moretti&Vitali :
Nell'ottobre 1992 ero in partenza per l'India, quando mia figlia mi regalò la piccola Divina Commedia della Hoepli. Pesa poco più di cento grammi: non avevo scuse. Me la misi in borsetta. Incominciai a leggerla - a rileggerla già in aereo.
La scarsità delle note mi obbligò ad usare la testa per capire cosa Dante intendesse dire. All'inizio era un po' faticoso, ma l'Inferno lo ricordavo abbastanza bene dai tempi del liceo, e quando arrivai alle cantiche più difficili il linguaggio mi era ormai familiare.
Stetti in India alcuni mesi: di giorno approfondivo lo studio della filosofia indiana, la sera leggevo qualche pagina della mia piccola Commedia. Fu così che incominciai a scoprire che questi due mondi non sono affatto lontani e a individuare, quasi per gioco, le prime analogie.
Ne Le segrete cose l'autrice mette a confronto diversi temi della filosofia indiana con i temi della Divina Commedia e nota diverse e sorprendenti analogie. Due esempi: il contrappasso e la legge del karma, ed il cammino guidato da un maestro, da un guru. E questi temi vengono poi studiati, per comprendere quali sono i motivi profondi delle analogie. In questa ricerca compare con tutta evidenza la dottrina dei Catari, che ha tanti punti in comune con l'induismo e che Dante conosceva bene, sia perché storicamente era impossibile non conoscere un fenomeno così diffuso in diverse città italiane, compresa Firenze, sia per il rapporto molto stretto di Dante con il mondo dei trovatori, il mondo della lingua d'oc. Non si tratta quindi di fantasiosi accostamenti pluriculturali, ma di una indagine che tiene conto dei simboli, delle allegorie, ed appunto, delle segrete cose cui accenna Dante stesso, nella Commedia e nel Convivio.
Dopo essere tornata dall'India, dove era nata l'intuizione delle analogie fra Dante e l'induismo, Maria Soresina si è dedicata allo sviluppo di questi temi conducendo nel frattempo gruppi di lettura dantesca, tenendo conferenze e scrivendo articoli. Solo in un secondo momento vi fu la scoperta di un collegamento col catarismo. Su questo punto occorre insistere, perché Maria Soresina nega una conoscenza diretta dell'induismo da parte di Dante, mentre afferma che la conoscenza del fenomeno cataro era in Dante molto profonda, e non poteva essere altrimenti. Questa "scoperta" comportò non solo l'esigenza di uno studio approfondito del fenomeno cataro, sia sui testi disponibili in Italia, sia nella grande biblioteca del Centre d'études Cathare di Carcassonne, ma un vero e proprio sconvolgimento: il libro, al quale stava già lavorando dal 1997, ha dovuto essere reinterpretato, anzi riscritto. Il lavoro non si è svolto solo a tavolino ma con l'ausilio, i consigli e le critiche di un gruppo di lettura dantesca.
Il libro è uscito nel maggio 2002 e nel marzo 2003 ha avuto la prima ristampa.
Due osservazioni personali. Maria Soresina distingue tre categorie: i professori, i poeti e gli esoteristi. Nel testo che segue spiega assai bene il significato di questa suddivisione. Ma i professori, oltre a quelli che hanno scritto i commenti, sono anche gli insegnanti che ognuno di noi ha avuto al liceo. Sono convinto che chi ha avuto la faticosa gioia di avere un insegnante che amava veramente Dante, questa potenzialità se la porta dietro per tutta la vita. Poi ci sono gli irregolari, noi lettori intendo, ognuno con le sue convinzioni e con i suoi pregiudizi, che ogni tanto ci leggiamo un canto per conto nostro. Nei secoli, gli irregolari ci sono sempre stati, e nelle campagne ci poteva essere chi non sapeva né leggere né scrivere, ma sapeva a memoria brani interi della Commedia.
Le immagini sono tratte da opere di William Blake e dal sito della Tate Gallery.
p.c.
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I professori, i poeti, gli esoteristi
Sulla Divina Commedia è stato scritto di tutto e di più, e dirò subito che chi sostiene (e purtroppo sono in tanti che, più o meno esplicitamente, lo fanno) che la propria è l'unica chiave per comprendere il "vero" Dante, commette un grave errore: un'opera di tale grandezza e complessità può e, anzi, deve essere letta secondo diverse angolature. Ogni interpretazione è dunque legittima e anche quelle apparentemente più folli apportano sempre un qualche elemento che integra e arricchisce la conoscenza del poema.
L'esigenza di "spiegare" la Commedia fu avvertita sin dall'inizio, dato che già i figli di Dante (Pietro e Jacopo) hanno ritenuto opportuno scrivere un commento. A dire il vero, già Dante stesso, nella sua lettera a Cangrande della Scala, aveva fornito alcune chiavi di lettura. Aveva scritto, per esempio, che il suo poema va inteso secondo i quattro sensi (letterale, allegorico, morale e anagogico), dando così un autorevolissimo avallo alle interpretazioni più strane.
Oltre a quello dei figli, furono scritti nei primi anni numerosi commenti, tra cui eccelle il cosiddetto "Ottimo", scritto da un anonimo coevo di Dante e ritenuto, appunto, il migliore. Ne scrisse anche il Boccaccio, grande ammiratore di Dante (a lui si deve l'aggettivo "divina"), ma le sue esaurienti Esposizioni sopra la 'Comedia' di Dante si interrompono a metà Inferno. Peccato.
Poi si continuò a scrivere e ancora oggi escono incessantemente nuovi commenti e numerosi libri su Dante sia in Italia che all'estero: non basta una vita per leggerli tutti.
Tutta questa marea di commenti e libri può essere suddivisa in tre grandi categorie, a seconda di chi li ha scritti: 1. i "professori"; 2. i poeti; 3. gli esoteristi, che Umberto Eco definisce gli "Adepti del Velame" in quanto cercano la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani.
1. Gli studi dei "professori" sono fondamentali e sono il primo passo inevitabile per chiunque voglia avventurarsi nella lettura del divino poema. Intendo soprattutto la lettura di uno dei tanti commenti ad uso scolastico, come per esempio quello sintetico ed essenziale di Natalino Sapegno, che ha avuto una meritata fortuna, o quello profondo e bello di Anna Maria Chiavacci Leonardi, pubblicato recentemente nei Meridiani Mondadori, e che non è propriamente rivolto alle scuole. Questi commenti si basano sulle ricerche filologiche e sui manoscritti condotte da altri studiosi. Il testo della Commedia proposto oggi da tutti, è quello stabilito da Giorgio Petrocchi.
I "professori" non scrivono solo commenti, ma anche testi, più o meno divulgativi, in cui espongono la loro visione globale del poema, oppure affrontano qualche aspetto particolare che il commento non consente di approfondire. Se si può fare una critica, è che raramente escono dal seminato. Così, per esempio, per secoli si è sostenuto che Dante ha messo in versi il pensiero di Tommaso d'Aquino, fino a quando Bruno Nardi, che aveva studiato teologia, smentì tale opinione. Bruno Nardi in Italia ed Etienne Gilson in Francia. E qui si apre un'altra pagina interessante: l'apporto degli stranieri. La nostra critica, forse perché più legata alla tradizione, non ha mai saputo scrivere pagine così forti, coraggiose, nuove come quelle di Erich Auerbach, che ha portato, nei primi decenni del '900, una ventata di freschezza nella ormai stantia critica dantesca. Più avanti ci sarà Singleton e le scuole americana e inglese (Freccero, Barolini, Boyde, Dronke per citare qualche autore tradotto in italiano).
2. Un altro appunto che farei ai critici italiani, è di non avere abbastanza tenuto conto di quanto su Dante hanno scritto i poeti. I poeti hanno un approccio del tutto diverso nei confronti di un testo poetico: ne colgono non solo il suono, ma i colori e persino gli odori. Dicendo questo non penso solo ai più recenti contributi di T.S. Eliot, di Borges o di Osip Mandel'tam, ma a quelli del Tasso, del Foscolo, di Giovanni Pascoli, che hanno saputo entrare nel cuore del poema e dietro le parole sviscerare nuovi significati, che in genere non sono stati accolti, forse perché non si sono espressi in modo accademico (ma, appunto, sono poeti).
3. Se la critica ufficiale non tiene conto di quanto hanno scritto poeti così famosi, è facile immaginare cosa farà con i tanti spesso sconosciuti "adepti del velame": li ignora totalmente. E sbaglia, perché in mezzo a tanto ciarpame vi sono spesso anche intuizioni geniali. Peraltro tra coloro che hanno cercato la "dottrina segreta" nascosta nei versi "strani" di Dante vi sono anche professori come Luigi Valli, autore di molti studi, tra cui il bellissimo Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore, o poeti come Ugo Foscolo e, soprattutto, Giovanni Pascoli, che ha scritto ben tre voluminosi libri su Dante, di cui uno ha il significativo titolo Sotto il velame.
Gli autori che sostengono che il poema di Dante nasconda un significato sfuggito ai commentatori, sono numerosissimi, e le loro ipotesi sono le più varie: Dante viene assimilato alla setta dei Fedeli d'Amore o ai Templari, e la sua dottrina presentata come neoplatonica, gnostica, manichea, ermetica o eretica. Non potendo citarli tutti, dirò solo che il primo di loro fu Gabriele Rossetti. Per il resto rimando all'interessante bibliografia ragionata su questi studi che si trova nelle pagine iniziali di Dante e la Gnosi di Adriano Lanza.
Con il mio Le segrete cose appartengo naturalmente anch'io a questa categoria.
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Chi è il veltro?
Penso di fare cosa gradita ai lettori di queste pagine presentando alcune interpretazioni particolari, incominciando da quello che è senza dubbio il più grande e forse irrisolvibile enigma della Divina Commedia: chi è il veltro?
Non si può trattare del veltro senza parlare della lupa, dato che l'azione del veltro consiste essenzialmente nell'uccidere la lupa e ricacciarla in Inferno. Per comprendere questo - come lo vogliamo chiamare: personaggio? simbolo? - è altresì indispensabile abbinarlo all'altra grande profezia, quella del "515". Beatrice parla del 515 nell'ultimo canto del Purgatorio, Virgilio del veltro nel primo canto dell'Inferno, con una simmetria che (come scrivono tutti i commentatori) non può essere casuale.
Il poema inizia, come è noto, con Dante che si trova in una selva oscura, dalla quale vuole uscire per salire su un colle che ha visto illuminato dal sole. La salita gli viene impedita da tre animali: una lonza, un leone e, soprattutto, una lupa. Gli appare poi Virgilio che della lupa dice:
questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. (Inferno I, 94-105)
Sull'identità di questo veltro si sono ovviamente scatenate le fantasie di tutti gli interpreti: antichi e moderni, ufficiali ed esoterici. Letteralmente il veltro è un cane da caccia; per questa ragione una delle identificazioni che ha avuto maggior successo è quella con "Can" Grande della Scala, il Signore di Verona che ospitò a lungo Dante durante il suo esilio. Ma è anche l'abbinamento all'altra profezia che ha contribuito a questa ipotesi. Sulla vetta del Purgatorio Dante assiste a una scena terribile: il carro (che a detta di tutti i critici rappresenta la Chiesa) viene ricoperto di penne dall'aquila (allusione alla donazione costantiniana) e man mano trasformato nel mostro dell'Apocalisse su cui è seduta una puttana, alla quale infine si affiancherà un gigante che condurrà l'intero carro nella foresta (allusione al trasferimento della sede papale ad Avignone). Alla fine di questa scena Beatrice dirà:
Non sarà tutto tempo sanza reda (senza erede)
l'aguglia (l'aquila) che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch'io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn'intoppo e d'ogni sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia (la ladra)
con quel gigante che con lei delinque. (Purgatorio XXXIII, 37-45)
I critici anagrammano la scrittura latina del numero 515 (DXV) e leggono DVX, duce. Questo va bene per un personaggio come Can Grande, ma ancor meglio a un imperatore (peraltro qui Dante parla di un erede dell'aquila), e dunque un'altra identificazione che ha avuto e ha molti sostenitori è quella con Arrigo VII. Ma la serie delle ipotesi fatte è lunghissima e per certi versi esilarante: si va da vari pontefici illuminati a Dante stesso, dallo Spirito Santo o da Cristo a
Mussolini (sì, anche questo è stato scritto!).
Le maggiori difficoltà ai fini di una chiara individuazione sorgono dal fatto che le due profezie non sono univoche, anzi sono contraddittorie: se per il 515 Dante faceva riferimento all'impero, del veltro dice che non ciberà terra né peltro, cioè che non possiederà terre né ricchezze, cosa che certamente non si può sostenere di un imperatore.
Dal confronto tra le due profezie risulta però evidente che vi è un elemento presente inequivocabilmente in entrambe, e cioè che l'azione del "salvatore" sarà quella di uccidere il nemico:
- il 515 anciderà la fuia, ucciderà la puttana seduta sul carro,
- il veltro farà morir la lupa.
Tutti leggono nella lupa un simbolo della cupidigia. Ci si dovrebbe però chiedere come mai Dante abbia scelto la "lupa" e non piuttosto il "lupo", dato che tradizionalmente è il lupo l'animale cattivo e ingordo, e nell'iconografia cristiana e medievale è il lupo il simbolo del nemico che minaccia il gregge dei fedeli. La lupa ha due significati particolari: da un lato rappresenta Roma (la lupa, nutrice di Romolo e Remo, è l'emblema della città di Roma. Ma Roma, ai tempi di Dante, coincideva con la Chiesa, e pertanto non escluderei che Dante l'avesse pensata qui proprio per indicare la Chiesa); dall'altro nella lingua latina la parola "lupa" indicava la prostituta.
A questo punto il parallelo tra le due profezie diventa assai più consistente e significativo: il veltro e il 515 non hanno in comune solo il fatto di uccidere, ma entrambi uccidono una "puttana" che in entrambi i casi è figura della Chiesa di Roma. Che "il simbolo della Lupa" andasse "inteso per la Chiesa meretrice venale" lo sosteneva peraltro già Ugo Foscolo, nel suo Discorso sul testo della Commedia di Dante, ma, come detto, delle opinioni dei nostri poeti i critici non hanno mai tenuto conto.
Ma torniamo al veltro. Avevo promesso un'interpretazione particolare. Devo premettere che non è stata fatta da un esoterista, ma da un "professore", dal Prof. Paolo Baldan che, grazie a un'intuizione veramente geniale, ipotizza una nuovissima e convincente interpretazione dell'enigmatico verso che del veltro dice che sua nazion sarà tra feltro e feltro. Non si tratterebbe di trovare una qualche località tra Feltre e Montefeltro, né vi sarebbe allusione a un qualche ordine religioso i cui aderenti vestissero col panno umile detto feltro. Tutte queste strade, che finora sono state battute, non hanno portato a una soluzione all'altezza delle speranze dantesche.
Ed ecco l'idea di Baldan: negli anni intorno alla nascita di Dante si inizia in Italia, a Fabriano, a fabbricare la carta di origine vegetale, che viene man mano a sostituire la assai più costosa pergamena di origine animale. Nella fabbricazione di questa nuova carta è fondamentale il "processo della 'feltratura', durante il quale la pasta si consolida e origina, a poco a poco, il foglio ancora madido d'acqua. Questo, poi, viene depositato "tra feltro e feltro", cioè tra due panni di feltro in cui [
] attende la pressatura del torchio".
Il veltro sarebbe così il suo poema sacro, il cui "substrato materico" nasce, come si è visto, tra feltro e feltro. L'ipotesi che con il veltro Dante intendesse alludere a se stesso era peraltro già stata avanzata ma, come giustamente scrive il Baldan, ora le viene "fornita una specifica base materiale ottenuta nel più assoluto rispetto del testo dantesco"
Il veltro
non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e il Baldan nota "come al 'sacrato poema' ottimamente si addicano queste altissime qualità che riconducono a una ispirazione divina, patente nel suo strutturarsi trinitario.
E forse (ma questo non lo scrive Baldan) si può scorgere una conferma di questa ipotesi nei versi conclusivi dell'ultimo canto del Purgatorio, proprio il canto della profezia del 515, dove Dante lamenta che non può più dilungarsi
perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda. (Purgatorio XXXIII, 139-140)
Qui la "carta" viene innalzata ad essere parte integrante della sua opera, come l'ordito lo è di una tela.
* * *
Anche sul "515" vi è un'interpretazione originale e convincente, e questa volta non proviene da un "professore", ma da un sacerdote austriaco, Robert John, autore del libro Dante templare. Come ho già detto, è abbastanza ragionevole supporre che il messo di Dio sia un imperatore, come sostengono praticamente tutti i commentatori, e questo non tanto per l'anagramma dux, che è opinabile, quanto per l'indicazione che si tratta di un erede dell'aquila che rappresenta l'Impero. L'ipotesi di John è però veramente intrigante:
Quello che a Dante importava era il numero 515, e non la parola DVX formata mediante trasposizione delle cifre romane, sebbene questo DVX sembri aver conquistato un dominio dittatoriale apparentemente incrollabile nei commenti danteschi. [
] Ciò che per lui contava era il numero, non la parola: non si trattava di trovare un titolo per il futuro restauratore di ogni ordine, bensì di formulare un enigma numerico che ne caratterizzasse l'attività. [
] Ma esiste una relazione evidente fra il numero 515 e l'attesa riedificazione del Tempio, con la quale Dante considera connessa la conoscenza della salvezza dell'umanità?
John intende dimostrare l'appartenenza di Dante alla cerchia culturale legata all'Ordine dei Templari. Purtroppo il suo libro contiene notevoli forzature, ma non in questo caso. L'ultimo canto del Purgatorio inizia con un versetto latino: "Deus, venerunt gentes". Le sette donne intonano il salmo che lamenta la distruzione del tempio di Gerusalemme:
O Dio, nella tua eredità sono entrate le nazioni,
hanno profanato il tuo santo tempio,
hanno ridotto in macerie Gerusalemme.
Beatrice ascolta e il suo aspetto è dolorante quasi come quello di Maria sotto la croce.
Iniziando il canto con queste parole e con queste immagini, è più che legittimo collegare le successive parole di Beatrice alle vicissitudini del Tempio, tanto più che nella sua profezia Beatrice annuncia una vendetta di Dio come il versetto 10 del salmo citato. Il problema resta allora come si chiedeva John - quello di verificare se sussiste una relazione tra il numero 515 e le vicende del Tempio.
Sì, una tale relazione esiste. La si ricava dalla storia dell'antico Tempio di Salomone, distrutto completamente ad opera del re babilonese Nabuccodonosor II. Quella distruzione avvenne nell'anno 588 a.C.
Come narra la Bibbia, il Tempio venne poi ricostruito da Zorobabele e
si terminò la costruzione di questo tempio il giorno tre del mese di Adar nell'anno sesto del regno del re Dario.
- Questa data corrisponde al 515 a.C.
- Perciò - conclude John la riedificazione del Tempio era per Dante chiaramente connessa col numero 515. Se quindi Beatrice profetizza il grande "Cinquecento dieci e cinque", ella non intende preannunciare un futuro DUX, bensì il secondo Zorobabele che riedificherà il Tempio distrutto dalla "fuia" e dal gigante.
A mio avviso questa ipotesi collima perfettamente con la precedente.
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Colui che fece per viltade il gran rifiuto
Scorrendo la Commedia incontriamo subito un altro di quegli enigmi che hanno fatto versare fiumi di inchiostro: chi fu colui che fece per viltade il gran rifiuto? Ma vediamo innanzitutto come lo dice Dante:
"Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli".
E io: "Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?".
Rispuose: "Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui. (Inferno III, 34-63)
Su questi versi ci sarebbe molto da dire: c'è, subito, il problema dei cosiddetti "angeli neutrali", di cui non c'è parola nella teologia cattolica, per cui si pensa che siano prodotti dalla fantasia di Dante. Ebbene no: sono previsti dalla dottrina dei Catari (ma nessuno lo dice).
Anche il fatto che vi siano anime che non possono essere accolte in Inferno, né trovare alcun'altra sistemazione è, dal punto di vista teologico e dottrinale, inaccettabile. E non si tratta di poche eccezioni, ma di una schiera talmente numerosa, come mai più Dante incontrerà, e della quale dice infatti che non avrebbe creduto che morte tanta n'avesse disfatta.
Questi dannati sono i cosiddetti "ignavi", parola che però non esiste nel lessico dantesco: Dante - guardate bene - li chiama cattivi. Lo dice all'inizio, parlando degli angeli, e alla fine: questa è la setta dei cattivi! E c'è di più: ad eccezione di un latinismo per cui Dante definisce cattiva Ecuba nel senso di prigioniera, queste sono le uniche due volte in cui Dante usa questo termine in tutto il poema!
Ma veniamo a colui che fece per viltade il gran rifiuto. La grande maggioranza dei commentatori, a partire dal figlio Pietro, identifica quest'ombra con Celestino V, il papa che "rifiutò" il seggio pontificio. Altri, tra cui Pascoli, pensano a Ponzio Pilato; altri a Esaù. Un contributo originale è quello di Flavia Giuliani che dedica una buona parte del suo libro Dante cum Sibylla alla dimostrazione che Dante intende riferirsi al poeta Guido Cavalcanti. Tra le tante ipotesi ritengo la più convincente quella del già citato Professor Baldan, che esclude tutti questi personaggi per il semplice fatto che Dante dice inequivocabilmente che fama di loro il mondo esser non lassa: dunque non può trattarsi di personaggi "famosi" nel bene o nel male che sia. In un altro suo libro Paolo Baldan sostiene trattarsi del "giovane ricco" di cui parlano i Vangeli, il quale "rifiuta" di seguire Gesù Cristo: senza dubbio un gran rifiuto. E siccome non segue Cristo perché non vuole perdere i suoi beni, si può ben dire che lo ha fatto per viltade. E siccome i Vangeli ne parlano senza farne il nome, fama di lui il mondo esser non lassa.
Perché Francesca è in Inferno e Cunizza nel Paradiso?
Dopo questi celebri enigmi, vorrei proporre un problema, che in genere nessuno si pone: perché Francesca da Rimini è in Inferno? Se la risposta è "perché ha tradito il marito", allora ci si deve chiedere (e la vera domanda è proprio questa): perché Cunizza è in Paradiso? Cunizza da Romano è uno dei personaggi meno noti (per noi, perché ai tempi di Dante era famosa: era la moglie di uno dei potenti dell'epoca, il conte di San Bonifacio, Signore di Verona; era famosa come possono esserlo oggi le mogli dei potenti, la principessa Diana o Jacqueline Kennedy).
Cunizza è senza dubbio uno dei personaggi più scabrosi della Commedia: ha avuto almeno tre mariti, tutti regolarmente traditi, e innumerevoli amanti. Le cronache dell'epoca la definiscono "grande meretrice". Rispetto a lei Francesca è una santa. Eppure è in Inferno, mentre Cunizza se ne sta beata nel cielo di Venere.
Va subito detto che non è possibile comprendere bene l'episodio di Francesca e tutto l'Inferno se non si conoscono anche le altre due cantiche. Questo perché la Commedia è un'opera armonica, in cui ad ogni voce corrisponde un'altra che su altro registro le fa da contrappunto, e solo nel reciproco rispecchiarsi si rivela il senso di ciascuna. In altre parole: solo nel confronto con i lussuriosi del Purgatorio e gli spiriti amanti del Paradiso il destino di Francesca diviene pienamente comprensibile. Tutti e tre subirono l'influenza del pianeta Venere, di "quello cielo, pieno d'amore, dal quale prende la forma [...] uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore." Venere è peraltro l'unico pianeta il cui influsso in tutti i tre regni è chiaramente individuabile: ne subirono l'influenza gli spiriti amanti che si trovano, appunto, nel cielo di Venere (Paradiso, canto IX), i lussuriosi dell'Inferno (canto V) e i lussuriosi del Purgatorio (canto XXVI).
Molti personaggi della Commedia richiedono uno sforzo per essere compresi. Non è il caso di Francesca: tutti l'abbiamo sempre capita e amata. Il problema non si pone nemmeno per Guido Guinizzelli, il poeta che Dante incontra nel fuoco che brucia i lussuriosi del Purgatorio. Il problema si pone invece, e con forza, quando arriviamo in Paradiso dove, tra gli spiriti amanti vi è la sorella di Ezzelino da Romano, il famigerato tiranno della Marca Trevigiana, Cunizza, che, come già detto, era una donna famosa e piuttosto chiacchierata. L'episodio che fece maggior scalpore fu l'abbandono del primo marito, il conte di San Bonifacio, signore di Verona, per seguire il poeta Sordello. Morta nel 1279, si trova ora già in Paradiso, dove Dante la incontra nel cielo di Venere.
Perché Cunizza è in Paradiso? Perché da vecchia si pentì della sua vita dissoluta e si dedicò alle opere pie, dicono i commentatori. Questo è uno dei tanti punti in cui la critica fa dire a Dante cose che in realtà egli non dice: non c'è il minimo cenno di pentimento nelle parole di Cunizza. Questa risposta è dunque in stridente contrasto con il testo e non poteva bastare ai lettori più sensibili. Ugo Foscolo, per esempio, ritiene che a Dante in quel momento non "occorresse alla fantasia personaggio più conveniente" e che dunque "introducesse la sorella di Ezzelino in via d'espediente, e fino a tanto che gli sovvenisse d'alcun'altra ombra". L'assurdità di questa ipotesi dimostra quanto il problema fosse sentito.
Anche il famoso teologo Hans Urs von Balthasar si sofferma su questo episodio e, con evidente disappunto, osserva: "Mentre nessuna figura di vergine d'un certo rilievo ravviva le pagine del Paradiso dantesco, queste donne [Cunizza e la prostituta biblica Raab] vi occupano un posto d'onore"
Ma anche senza ricorrere a una delle tante figure di sante vergini, dato che il peccato di Francesca è l'infedeltà, Dante avrebbe potuto e forse dovuto contrapporle qualche edificante esempio di fedeltà coniugale. E invece le contrappone l'ancor più infedele Cunizza che osa anche dire
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia. (Paradiso IX, 34-35)
ovvero: lietamente perdono a me stessa l'inclinazione ad amare che ho avuto in sorte, e non mi dispiace.
Illuminante ai fini di una possibile soluzione è stata per me una nozione dell'induismo: quella dei tre guna, di cui parla ampiamente anche la Bhagavad Gita.
Sarà opportuno spiegare brevemente di che cosa si tratta. La Natura (Prakriti) è costituita da tre qualità (i guna): tutto ciò che è manifestato, tutti gli esseri e dunque anche gli uomini, partecipano dei tre guna in gradi diversi. Nella singola persona può prevalere uno o un altro guna a seconda di quale l'anima si eleverà o cadrà. Ecco cosa dice la Bhagavad Gita:
Sattva, rajas e tamas, i guna
che hanno la radice in Prakriti,
legano al corpo
lo spirito immortale dell'uomo.
Sattva, è puro,
luminoso e senza macchia.
Lega con l'attaccamento alla felicità,
con l'attaccamento alla conoscenza.
Sappi che rajas è la passione;
nasce dal desiderio, dall'attaccamento.
Esso lega l'uomo
con l'attaccamento all'azione.
Sappi che tamas, generato dall'ignoranza,
è causa d'illusione per gli uomini.
Lega alla negligenza, all'indolenza,
all'inerzia.
Si potrebbe dire che i tre regni del viaggio dantesco corrispondono ai tre guna. Ma particolarmente interessante, perché sorprendente nella precisa corrispondenza, è l'analisi dei diversi modi di vivere l'influenza di Venere o, in altre parole, l'amore sensuale nei tre diversi regni.
Tamas è "assenza di luce" e "verso il basso vanno i tamasici, che stanno col guna peggiore". Tamas corrisponde all'Inferno, che è loco d'ogne luce muto e in cui il movimento è verso il basso. Dante vi incontra i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. Dunque il peccato non consiste tanto nell'aver assaporato i piaceri della carne quanto nell'avere sottomesso la ragione al desiderio.
Il tormento di questi dannati consiste nell'essere trascinati dalla bufera:
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina [...]
di qua, di là, di giù, di sù li mena. (Inferno V, 31-43)
È l'immagine perfetta dell'inerzia, tipica di tamas! In questa bufera Dante vede più di mille ombre morte per amore (ch'amor di nostra vita dipartille). C'è tra queste Didone che, per amore, tanto perse il controllo di sé che si uccise. E c'è Francesca da Rimini, cui sono dedicati versi, che sono tra i più belli e famosi del poema:
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense". (Inferno V, 100-107)
È la stessa Francesca a rivelarci perché si trova in Inferno. Da quanto dice emerge la sua incapacità ad assumersi la responsabilità rispetto al proprio operare. È lei che ha tradito il marito, ma nelle sue parole i colpevoli sono gli altri: l'amore che la prese, soprattutto, contro il quale nessuno può resistere (ch'a nullo amato amar perdona), il libro galeotto, il marito che l'ha uccisa.
Quando Francesca dice: amor condusse noi ad una morte, allude, come tutti i critici intendono o sottintendono, all'uccisione da parte del marito. Questo però è solo il senso letterale. Nel senso anagogico, spirituale, l'amore, vissuto in modo "tamasico", conduce alla morte dell'anima, allontana dalla vita che consiste nell'"usare la ragione", quella ragion che qui viene sottomessa.
E c'è di più. Nelle parole di Dante c'è un preciso indizio. Quando all'inizio egli vede tra i tanti spiriti trascinati dalla bufera due che 'nsieme vanno (Paolo e Francesca), desidera parlare con loro e Virgilio gli dice:
"Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno". (Inferno V, 76-78)
Qui Dante usa per l'amore lo stesso verbo che ha usato prima per la bufera: mena! Se Dante usa qui (e per la terza volta!) la stessa parola, non è certo a caso. La ripetizione del verbo mena è una chiara indicazione: la bufera "è" l'amore. Se nel senso letterale la bufera è il castigo-contrapasso per i morti che in vita hanno peccato di lussuria, nel senso spirituale è la raffigurazione dell'amore vissuto in modo sbagliato, perdendo il controllo di sé e lasciandosi trasportare passivamente dalla passione. È l'immagine dell'amore "tamasico".
Rajas è la passione. Come dice la Bhagavad Gita, rajas produce voglia di agire, avidità, desiderio, e il suo frutto è il dolore. A rajas corrisponde il Purgatorio, il regno intermedio. Le anime dei lussuriosi che Dante vi incontra ardono nel fuoco. Qui c'è consapevolezza del proprio "peccato":
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l'appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei. (Purgatorio XXVI, 82-88)
Anche qui il peccato non consiste nell'aver assaporato i piaceri della carne, ma nel non aver ubbidito alla voce della ragione (l'umana legge) che non taceva, come nell'Inferno, dove era totalmente sottomessa.
L'amore viene vissuto come un istinto bestiale, al quale non si riesce a resistere e del quale ci si vergogna. Come esempio di lussuria punita (in ogni cornice del Purgatorio si hanno esempi della virtù opposta al peccato che si espia e del vizio punito) si grida qui la storia di Pasife, la regina che entrò in una vacca di legno per potersi congiungere con un toro del quale si era invaghita, unione dalla quale nacque il Minotauro. Chi racconta questo a Dante è il poeta Guido Guinizzelli, che usa parole pesantissime, con quell'insistenza sul concetto di "bestia", con quel termine obbrobrio che esprime tutta la vergogna che provano queste anime.
Anche qui, nel senso anagogico il fuoco non è la punizione del peccato, ma l'immagine della vergogna che si prova, la raffigurazione della dolorosa tensione tra la propria azione "bestiale" e la sete (all'inizio del canto l'anima diceva 'n sete e 'n foco ardo), la sete di un comportamento "umano", in cui riesca a prevalere la voce della ragione. La ragione non è qui passivamente "sommessa" al talento, non è messa a tacere, ma non è osservata, e da questo contrasto nasce il dolore.
È l'amore vissuto in modo "rajasico".
Sattva è "la conformità all'essenza pura dell'Essere", il cui nome in sanscrito è Sat. La Bhagavad Gita dice: "Quando in tutte le porte del corpo nasce la luce della conoscenza, allora predomina sattva. [
] Vanno verso l'alto coloro che stanno in sattva".
Sattva corrisponde al Paradiso dantesco, che è ascesa di luce in luce. Anche qui, naturalmente, la beatitudine delle anime non è, se non nel senso letterale, un premio dopo la morte: l'essere lieti, il ridere di queste anime è l'immagine del modo "sattvico" di vivere l'amore sensuale. Perché dell'amore sensuale si tratta, non di una sublimazione, non dell'amore per Dio.
Poche cose dice di sé Cunizza:
In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rialto
e le fontane di Brenta e di Piava,
si leva un colle, e non surge molt'alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto. [il fratello Ezzelino]
D'una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo. (Inferno IX, 25-36)
L'ultimo verso denota che Dante era ben consapevole di quanto fosse innovativo, per non dire rivoluzionario (forte al vostro vulgo, difficile da capire alla vostra gente) ciò che scriveva.
Secondo il Foscolo Dante ha dovuto aggiungere questa terzina perché era consapevole che i suoi contemporanei "non si sarebbero indotti ad avere per santa un'adultera d'infame celebrità." Quello che Dante ritiene sia difficile da comprendere per il vulgo non è solo che Cunizza sia in Paradiso, ma che sia in Paradiso e non condanni il proprio passato. Ed è tanto difficile da comprendere che non solo il Foscolo pensava che Cunizza fosse un personaggio provvisorio, ma che ancora oggi si continua a scrivere commenti come il seguente: "Qui si afferma che l'amore appassionato dei sensi può trasformarsi nel più acceso amore divino.[...] La forza e intensità della capacità di amare avuta in sorte dalla natura si trasforma infatti, in un cuore pentito, nel più alto e ardente amore di Dio." Ma nelle parole di Dante non c'è nemmeno l'ombra né di un pentimento, né di una trasformazione in amore divino. Il che non significa che queste anime non amassero Dio. Certamente lo amavano, ma non è questo il punto. Il punto è che ancora oggi non si riesce ad accettare l'idea che l'amore sensuale possa a pieno titolo trovar posto in Paradiso e tanto meno che tale fosse il pensiero del "cattolico" Dante.
La santità non è prerogativa di chi fa voto di castità entrando in qualche ordine religioso, "ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore" scriveva Dante già nel Convivio. E io mi chiedo: siamo consapevoli noi, oggi, di quale grandezza d'animo e di quanto coraggio ci volesse per pensare e scrivere queste cose nel 1300
e per mettere Cunizza in Paradiso?
Come leggere la Divina Commedia
Questa era una lettura trasversale sul tema dell'amore; ma si potrebbe farne una seguendo altri temi (la poesia, la politica, la scienza, gli angeli) o sui simboli (la barca, per esempio) o sull'unico personaggio che viene citato in tutte e tre le cantiche: Ulisse.
A mio avviso la Divina Commedia va letta così, in modo trasversale, osando fare confronti, anche arditi, tra personaggi diversi, o sviscerando singoli temi. La tradizionale lectura Dantis, in cui si analizza un solo canto non ha più senso. E nemmeno ha senso la lettura che in genere si fa a scuola, in cui vengono studiati alcuni canti, quelli ritenuti più "belli", che però così, tolti dal contesto, senza la lettura in parallelo con altri passi che dia loro spessore e significato
risultano certamente belli. Possiamo anche accontentarci di godere della bellezza, in fondo lo dice anche Dante, nella strofa conclusiva della prima Canzone del Convivio:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per ventura elli addivene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d'essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
"Ponete mente almen com'io son bella!"
28 settembre 2003