prima pagina pagina precedente salva il testo


La violenza in TV
di Vittorio Amodeo

TV violenza 1

E' evidente che le attuali televisioni, sia private sia pubbliche, sono dei contenitori per vendere pubblicità e merci, e i cosiddetti palinsesti svolgono soprattutto l'utile funzione di riempire gli spazi tra uno spot pubblicitario e l'altro. A parte qualche generica deplorazione, da noi sembra che pochi si curino della qualità di ciò che viene trasmesso, in particolare riguardo al contenuto di violenza. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che bambini e adolescenti, piuttosto che dalla scuola, la famiglia o la chiesa, vengono ora “educati” dalla TV, che impone modelli di atteggiamenti e comportamenti: poiché la TV è satura di programmi violenti, non è immotivato ritenere che comportamenti violenti possano essere assorbiti. Normalmente latenti o rimossi, salvo a esplodere in devianze quali purtroppo quotidianamente si verificano.
Diceva Luther King che gli USA sono “i maggiori produttori di violenza nel mondo”, e le TV rispecchiano ampiamente questa poco commendevole posizione. Ma, almeno, vi sono serie critiche entro la loro stessa società. Uno studio di Charles S. Clark del 1993 rileva che, grazie alla televisione, un bambino americano (ma, ormai, anche italiano) assiste in media a otto mila omicidi e a 100 mila atti di violenza prima di aver terminato le scuole elementari. E il decano dell'università di Pennsylvania, in una dichiarazione al Congresso, dice che “la maggior parte delle storie che i bambini conoscono non l'hanno imparata dai genitori, a scuola, in chiesa o dai vicini di casa, ma da un pugno di grandi gruppi industriali che devono vendere i loro prodotti”.
Il 25 per cento degli spettacoli trasmessi in prima serata risulta contenere materiale “estremamente violento”, mentre in trasmissioni per i bambini sono state rilevate fino a 32 atti di violenza ogni ora. Il 72 per cento degli americani ritiene che gli spettacoli televisivi di intrattenimento contengano troppa violenza, e un sondaggio Gallup ha registrato un 63 per cento di persone che pensano questo incoraggi la criminalità.
Negli ultimi anni sono state condotte più di tre mila ricerche in paesi diversi sul legame tra violenza sul piccolo schermo e violenza reale. L'aggregato delle ricerche mostra chiaramente che esiste una correlazione tra la visione di scene violente e il comportamento aggressivo, vale a dire che coloro che guardano molta televisione sono più aggressivi di chi ne guarda poca. Un'altra ricerca mostra che gli autori di reati di violenza sono caratterizzati da un basso quoziente di intelligenza, prepotenza, iperattività, scarso senso di solidarietà, mancanza di disciplina, abbandono, carenze affettive e “seguono con eccessiva frequenza spettacoli violenti in TV”.
Lo psichiatra Brandon Centerwall, dell'università di Washington, ha riferito che l'arrivo della televisione in Sudafrica ha coinciso con il raddoppio del tasso di omicidi. Leonard Eron ha seguito un gruppo di 875 soggetti dei due sessi per molti anni, concludendo che chi aveva assistito a più scene di violenza in TV aveva commesso reati più gravi, era più aggressivo sotto l'influenza dell'alcool ed era più brutale nel punire i propri figli, i quali a loro volta mostravano segni di aggressività. “Ciò che s'impara dal piccolo schermo sembra trasmettersi alla generazione successiva” afferma Eron. E una maestra di scuola elementare dice: “Molti bambini pensano sul serio che vada bene essere violenti con i compagni, visto che Le Tartarughe (un seguito programma televisivo) lo fanno.”
Dal canto loro, i dirigenti televisivi hanno sempre respinto tali accuse – che li costringerebbero a onerosi ripensamenti dei loro usuali e comodi programmi - avanzando dubbi e cavilli sulle ricerche. Ma, se la televisione non ha alcun effetto sugli spettatori, come si spiegano – chiede un deputato democratico – i miliardi di dollari spesi ogni anno in pubblicità televisiva?
Da noi non risultano ricerche specifiche su questo campo: probabilmente le nostre università sono restie a iniziare indagini che non abbiano il sostegno di qualche sponsor, non basta l'esistenza del – anche grave – problema in sé. Tuttavia qualcosa si muove se, durante il governo Prodi, è stato varato un “Codice di autoregolamentazione” per le televisioni italiane. Il codice prevede che, nella “fascia protetta” tra le 7 e le 22,30, nei Tg non siano trasmesse scene “particolarmente crude o brutali”, mentre per i film ogni azienda nominerà un comitato di autocontrollo per decidere se lo spettacolo è adatto alla fascia protetta. C'è poi un Comitato di controllo esterno (una sorta di Authority) che vigilerà sull'applicazione del Codice, sanzionando eventuali trasgressioni.
Non sappiamo, sfortunatamente, quale sia l'attività pratica di questi organismi; ma a noi pare di vedere violenza a piene mani a tutte le ore, “fascia” protetta o non protetta che sia.
E le ragioni sono sempre le stesse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli dice: “L'audience ha mostrato in maniera inconfutabile che c'è una grande richiesta di violenza. Associare spot a violenza è particolarmente vantaggioso: la violenza coinvolge, e ciò garantisce la vendita dei prodotti. Pubblicizzare un whisky immediatamente dopo aver massacrato una donna ha un effetto eccezionale”. E ancora: “Mentre si è con la propria ragazza, cambiando canale si indossano le vesti di un killer che prima la stupra e poi la uccide. A causa della TV, la società sta perdendo il confine tra fatto e simulato”.
Poiché l'attuale premier italiano è proprietario di tre reti TV che traggono vantaggio dalla violenza rappresentata e profusa, sembra difficile si dia pensiero di rinnovare e rafforzare il comitato e le linee di condotta volute da Prodi. E infatti niente si muove al riguardo. Rimane alla società civile il compito di salvaguardare se stessa reclamando l'attuazione delle linee Prodi, o meglio ancora spegnendo il televisore.

Vittorio Amodeo

in su pagina precedente

  13 ottobre 2002