prima pagina pagina precedente salva il testo


La guerra perpetua
di Vittorio Amodeo


Sin dall'undici settembre il presidente Bush ha dichiarato che la guerra al terrorismo sarebbe stata una guerra lunga. E' una dichiarazione insolita. Ordinariamente un capo di stato, quando viene deciso di iniziare una guerra, rassicura i concittadini sul fatto che la campagna sarà, ovviamente, vittoriosa ma anche breve, perché le prospettive di lunghe azioni militari non possono generare consenso tra la popolazione.
Se Bush ha seguito una strada diversa può dipendere dal fatto di ritenere il terrorismo una manifestazione endemica nella nostra epoca. Epoca caratterizzata da enormi disparità economiche e culturali tra soggetti e popoli, e contemporaneamente dalla facilità di informazioni e di movimento di persone e di mezzi materiali. Le frustrazioni e i risentimenti che derivano dalle disparità e dalla mancanza di attese e prospettive possono generare in determinati ambienti pulsioni terroristiche, e queste avere sviluppo e compimento grazie alla facilità di informazioni e di movimento.
Può essere dunque che nella valutazione di Bush vi siano elementi oggettivi legati al particolare, e insolito, tipo di confronto che si prospetta. Ma un capo di stato che voglia ridurre per quanto possibile i tempi e l'entità dei disagi che il popolo deve affrontare, assieme alle misure militari – se necessarie – attiva tutti quegli altri mezzi che possono portare alla cessazione o almeno attenuazione del fenomeno che si vuol combattere.

L'ex-presidente Clinton dice: “Le radici del terrorismo affondano nelle disparità economiche, nella povertà e nell'assenza di democrazia. Gli Stati Uniti dovrebbero comprendere questi problemi e occuparsene seriamente”. Ma il presidente Bush sembra perseguire esclusivamente, e con accanimento, la via militare, con la prospettiva di estendere il campo delle operazioni a livello planetario verso tutti gli stati che, nel giudizio americano, sono inaffidabili o addirittura vengono considerati stati canaglia.
Sono molte le iniziative non militari che gli USA potrebbero intraprendere, affiancati dagli altri paesi in sede ONU, per ridurre le tensioni e togliere pretesti e motivazioni ad azioni terroristiche. Tra queste: un programma di aiuti concreti e mirati ai paesi più bisognosi, con riduzione dei debiti; un deciso intervento per la soluzione della questione palestinese, sulla quale ora sembra si voglia agire con decisione ma troppo tempo si è perso; una attenta considerazione alla possibilità di ridurre le basi e presenze militari in aree considerate sacre dall'islamismo, quali i territori dell'Arabia saudita.

Ma nulla viene fatto in queste direzioni, mentre crescono i preparativi militari per operazioni in aree successive e aumentano gli stanziamenti destinati al Pentagono: ben 50 miliardi di dollari in più per armamenti, portando così la spesa militare americana vicina al 50% di quella mondiale! E' chiaro che solo una piccola parte di questa spesa, ove fosse devoluta a iniziative di riduzione del debito e della povertà, avrebbe un impatto rilevante nella riduzione delle tensioni internazionali.

Occorre ricordare che Bush è stato eletto presidente con una maggioranza risicata di voti. Chiamando gli americani alla guerra contro il terrorismo giuoca sul sentimento patriottico e riesce a ottenere l'adesione di (quasi) tutti i cittadini. La presenza di un nemico compatta le fazioni, tacita le divisioni e mette la sordina alle istanze dell'opposizione. Il nemico è utile. Chi non è con noi è contro di noi, è un motto rozzo e fastidioso per molti europei, ma evidentemente ha presa su un popolo che si sente minacciato, sospinto in questo clima dalla campagna mediatica.
Che dire poi della questione armamenti? Le produzioni belliche sono, tra quelle industriali, le più ambite. Nell'industria degli automobili e dei beni di consumo la competizione è forte, i margini sono risicati o possono non esserci. Ma produzioni missilistiche, avionica e altri armamenti sofisticati sono al riparo dalla concorrenza. I dati progettuali sono riservati e segreti, le produzioni possono essere affidate solo a poche industrie selezionate in base a principi di affidabilità e riservatezza. I prezzi non sono oggetto di gara, ma vengono stabiliti con il principio del 'cost plus': i costi documentati, più un margine di guadagno convenuto. E' chiaro che è un modo di lavorare, come si dice, 'sul velluto', perché con un po' di abilità molti costi si possono scaricare lì e poi, in ogni caso, più si spende più si guadagna!

Lo scrittore Gore Vidal, che bene conosce i meccanismi del potere in America, dice: “ I politici danno soldi al Pentagono, il Pentagono li dà ai produttori di armi, questi li danno ai politici; per non interrompere il ciclo occorrono guerre continue”. E queste non vengono a mancare: studiosi hanno elencato le operazioni americane nello scacchiere mondiale, guerre più o meno mascherate: si tratta di circa 60 operazioni tuttora in corso, ciascuna con il suo nome fantasioso; tutto ciò senza tener conto delle operazioni antidroga.
Ovviamente non si intende dire che i politici ricevano bustarelle dai produttori di armi: questi sono sistemi rozzi che venivano riservati ai paesi vassalli (ricordate il caso Loocked in Italia?). Tuttavia, quando ci sono le elezioni, gli industriali si ricordano di chi ha procurato loro commesse e, avendo ottenuto buoni utili, sono generosi con i contributi di sostegno – perfettamente legali – alle campagne elettorali. Il candidato, o il presidente, viene rieletto, e il giuoco può proseguire.
Il senatore democratico William Praxmire diceva: “La gente comune mi chiede se l'industria militare è al servizio del governo o viceversa, e onestamente io faccio fatica a rispondere”. D'altro lato Ugo Stille, direttore del Corriere della Sera, scriveva: “Un'azione militare all'estero crea sempre negli Stati Uniti un'ondata di sostegno al presidente e lo presenta agli occhi degli americani come un leader deciso e capace di affrontare qualsiasi emergenza”.

Dunque dal presidente Bush sentiremo assai più spesso pronunciare la parola 'guerra' anziché la parola 'pace', che sembra quasi esulare dal suo lessico. L'ideale per lui (poco condivisibile per quanto riguarda la pace e la sicurezza internazionale) è quello di giungere alle prossime elezioni presidenziali in stato di guerra: in tal caso il paese deve essere unito e la rielezione appare praticamente certa, specie se la guerra è verso paesi piccoli e poveri che non possono opporre significative resistenze.
Se la posizione americana ha una sua logica interna, che tuttavia giudichiamo distorta, l'Europa e altri paesi amanti della pace non possono che prendere le distanze e chiedere all'amica America di riscoprire i suoi veri valori, che non devono essere solo quelli mercantili ed elettoralistici.

Vittorio Amodeo

Sulla situazione americana vedi anche l'articolo di Vittorio Zucconi su la Repubblica del 9 marzo, riportato nella rassegna stampa di arengario.net (n.d.r.)

in su pagina precedente

  15 marzo 2002