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Articolo 18, alcune eresie
di Vittorio Amodeo

L'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (letto assieme all'art. 35) stabilisce che, nelle aziende con più di 15 dipendenti, sia reintegrato nel posto di lavoro il lavoratore licenziato senza giusta causa.

Questo discrimine tra 15 e 16 dipendenti rappresenta di per sé un problema. Si può pensare ai contorcimenti cui si assoggetterà il datore di lavoro con 15 dipendenti, pur di non superare il numero fatidico anche se la sua azienda si sviluppa e richiederebbe più mano d'opera. O, al contrario, le manovre di chi ne ha 20 e, scottato da qualche caso, fa l'impossibile per rientrare sotto i 15. Bisogna ammettere tuttavia che, in questo tipo di regolamentazioni, è impossibile trovare soluzioni che non presentino il fianco a critiche. Quello che interessa, piuttosto, è vedere se non appaiano soluzioni più generali che possano evitare gli scogli delle regolamentazioni particolari.

Ripensiamo il rapporto di lavoro dipendente. Un'azienda occorre disponga dei locali, impianti, macchinari, attrezzature e mezzi di lavoro per i quali i soci di capitale avranno posto le loro disponibilità. Ma con i soli mezzi l'azienda non vive ancora: occorre l'apporto della mano d'opera, dei talenti tecnici, creativi e organizzativi, insomma delle persone, affinché l'azienda divenga un organismo pulsante di vita.
Un'azienda, quindi, è composta di capitale e lavoro, dei mezzi economici e dei talenti delle persone fisiche. Chi ha posto i capitali è proprietario dei mezzi, ma i mezzi da soli non fanno l'azienda. L'azienda, come organismo vivente, è in realtà qualcosa che dipende da entrambi, che è proprietà di entrambi.
E' in base a questi criteri di comproprietà che la socialdemocrazia tedesca ha introdotto la cogestione, ossia il concetto che, essendo l'azienda di proprietà di entrambi, capitale e lavoro, da entrambi va gestita. E i rappresentanti dei lavoratori siedono alla pari nei consigli d'amministrazione delle aziende, ove vengono assunte le decisioni fondamentali per la vita aziendale.
Nella nostra sinistra, almeno fino a tempi recenti, la parola “socialdemocrazia” era impronunciabile, faceva semplicemente ribrezzo. A mio avviso già il PCI di Amendola e Berlinguer era nella sostanza socialdemocratico, ma non lo poteva riconoscere. Il sindacato era meno avanzato, comprese questi temi solo qualche decennio dopo. Bisogna giungere ai DS del piemontese Fassino (invece degli imperversanti leader meridionali) perché la voce “socialdemocrazia” entri ufficialmente nel lessico del partito.
Il rifiuto di questa parola (e, cosa più importante, dei temi sottesi) è per me inspiegabile. Se l'azienda si regge su due gambe, capitale e lavoro (e sfido qualcuno a dimostrare il contrario), tra le due gambe ci dev'essere coordinamento e intesa, se no si va appunto a gambe all'aria. Come il capitale deve essere responsabile del buon impiego del lavoro, così il lavoro deve rendersi corresponsabile del corretto impiego del capitale.
Ma il nostro sindacato, tradizionalmente, sembra aver respinto il concetto di corresponsabilità. La gestione dell'azienda è affare della proprietà, mentre il compito del sindacato è la difesa del lavoratore.

Questa sembra essere una visione parziale. In realtà, sintetizzando in un motto, possiamo dire che “se l'azienda va bene, il lavoratore può star male (se sfruttato, mal gestito: e di qui la necessità della tutela sindacale); ma se l'azienda va male, il lavoratore non può davvero star bene”. Quindi il lavoratore è interessato, eccome, a che l'azienda sia ben gestita.
Il risultato di questa, per me inspiegabile, posizione tradizionale della nostra sinistra è stato che, nei momenti di crisi, i nostri lavoratori bivaccavano ai cancelli dell'azienda, magari al freddo, battendo i tamburi, accendendo i fuochi e pagando lo sciopero sulla propria pelle. I lavoratori tedeschi, al caldo del consiglio d'amministrazione, prendevano responsabilmente assieme al capitale le decisioni per la salvaguardia del lavoro. Da un lato il lavoratore chiuso nel ruolo di protesta, dall'altro l'individuo responsabile che valuta la situazione nel suo complesso. Da che parte stia la crescita della dimensione umana del lavoratore, non mi sembra difficile da stabilire.

Proposte
Ho grande stima di Sergio Cofferati. Ritengo sia una persona moralmente integra, è un grande conoscitore del mondo del lavoro, e credo sia sinceramente convinto della virtù positiva del lavoro ben coordinato e ben gestito nell'interesse complessivo della nostra società.
Sotto il governo dell'Ulivo (purtroppo sono stati solo pochi anni della sinistra al potere) si presentava, a mio avviso, una grande opportunità: un cambiamento radicale, in senso socialdemocratico, dei rapporti tra capitale e lavoro, con nuovi rapporti tra sindacato e Confindustria che, proprio allora, aveva inaugurato una nuova presidenza più legata alla media che non alla grande impresa.

Forse una disponibilità iniziale tra D'Amato e Cofferati ci fu, purtroppo presto travolta dal ritorno agli schemi consueti. Fu davvero un peccato, perché nuove prospettive di rapporti tra capitale e lavoro avrebbero significato un formidabile consolidamento dell'Ulivo nella nostra società.
Bisogna infatti pensare che, se il nostro sindacato è tradizionalmente restio ad assumere responsabilità di gestione nelle aziende, non meno restia – anzi decisamente contraria – è la proprietà a cogestire le aziende con i lavoratori. Occorre una grossa crescita del senso di responsabilità di entrambe le parti, assieme a una serena e realistica valutazione degli interessi complessivi, per far sì che avvenga da noi questa trasformazione epocale, altrove già avvenuta.
Nella nostra Costituzione c'è l'articolo 46 che recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro… la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare… alla gestione delle aziende”. E' una visione per me lungimirante e di grande apertura, ma credo non vi sia articolo della Carta che sia stato più trascurato e disatteso, sia dai politici sia dalle parti sociali.
Comunque ritengo sia questa la via maestra da seguire. Se l'azienda viene gestita assieme dal capitale e dal lavoro, anche le questioni relative all'articolo 18 decadono. Un'azienda non rinuncia mai volentieri a un buon lavoratore, salvo vi sia costretta dalla necessità. E questa necessità va stabilita di comune accordo, al fine di evitare un tracollo che potrebbe coinvolgere tutti.

E' piuttosto un altro l'argomento importante: che succede del lavoratore licenziato? Ora l'indennità di disoccupazione è a valori irrisori e insultanti. Occorre sia portata al 60% dell'ultima retribuzione così come nel Nord Europa, e comunque vi sia un dignitoso “salario minimo garantito”. Deve poi essere attiva l'assistenza per la riqualificazione e reinserimento nel mondo del lavoro.
La solidarietà sociale è fondamentale in una visione di sinistra della società. A mio avviso questa solidarietà va esercitata verso le persone, verso i singoli lavoratori, che vanno assistiti. Non verso le aziende, che devono essere libere di crescere o diminuire a seconda delle opportunità, delle innovazioni che sono capaci di creare, e dell'andamento spesso imprevedibile dei mercati.

Penso che taluni giudicheranno eresie quanto accennato in queste righe. Credo che la sinistra, se vuole innovarsi e incidere nella società, non debba chiudersi nel ruolo di conservazione e non debba temere le eresie, quando queste possono essere utili alla crescita complessiva dell'individuo e della società.

Vittorio Amodeo

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 13 febbraio 2002