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La prima volta di Affile
Dallo sterco può nascere un fiore
Umberto De Pace


il mausoleo

L'irripetibile Jannacci in una delle sue canzoni ci ricordava come dallo sterco possa nascere un fiore; il comune di Affile ci ricorda oggi come da un'opera scellerata possa nascere una prima presa di coscienza di appartenere a un paese la cui Carta Costituzionale nasce dalla lotta di Liberazione dal nazifascismo.
L'opera scellerata è il mausoleo dedicato al generale, nonché gerarca fascista Rodolfo Graziani, che l'amministrazione comunale di Affile ha voluto costruire utilizzando, con l'inganno, dei fondi regionali destinati alla costruzione di un sacrario al Milite Ignoto (fortunatamente il nuovo presidente della regione Lazio, Zingaretti, ha provveduto a sospenderne il finanziamento).

La presa di coscienza è la celebrazione del 25 aprile che, per la prima volta in 68 anni dalla liberazione del nostro paese, si è tenuta quest'anno ad Affile.
Affile è un piccolo comune – circa 1600 anime – della Provincia di Roma, nel quale, come in una ridotta, sopravvivono un manipolo di nostalgici del fascismo – tra i quali il sindaco – dediti a scrivere a proprio compiacimento la Storia, inaugurare monumenti a personaggi imputabili di crimini di guerra, dedicare piazze a segretari del fu partito della destra fascista nel nostro paese, il Movimento Sociale Italiano (M.S.I.).
Un gruppo di nostalgici, a dire il vero, compatto e solerte, con un proprio araldo autoctono – Giovanni Sozi – sollecito nel cantar le gesta di un proprio “Figlio celeberrimo” – Rodolfo Graziani appunto – con toni all'altezza del proprio autocompiacimento (http://www.affile.org/?s=storia-cultura&p=personaggi-illustri-rodolfo-graziani).
Peccato che la “mano fin troppo ferma” – citando Sozi – con la quale l'allora colonnello Graziani condusse la riconquista della Libia – siamo negli anni che vanno dal 1921 al 1934 – in realtà fu il periodo nel quale Graziani consolidava la sua fama di militare “durissimo, senza pietà, crudele. E non erano soltanto i parenti delle vittime a definirlo il “macellaio degli arabi”, ma anche qualche suo collega, che non ne condivideva i metodi spietati” – come ci ricorda lo storico Angelo Del Boca. Più che una mano ferma, forse è una mano vile quella che lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulla linea di frontiera tra la Libia e l'Algeria e che per due giorni, il 13 e il 14 febbraio 1930, bombardarono e mitragliarono i ribelli libici in fuga con le loro famiglie e il bestiame. Fu un massacro.

il macellaio Graziani

E come definire la mano con cui Graziani condusse e organizzò la deportazione e gli internamenti delle popolazioni della Cirenaica, circa 100.000 persone, la metà degli abitanti di quella terra? Di certo la mano che ordinava o permetteva che si fucilassero “anche donne e bambini” – come testimonia Giuseppe Daodiace funzionario del Ministero delle Colonie, fra i pochi che cercò di contenere la furia devastatrice di Graziani – sarà stata anche ferma, ma forse più propriamente andrebbe definita una mano criminale.
Non so cosa intendesse sottolineare l'araldo affilano definendo la “solita risoluzione” quella con cui Graziani condusse la conquista dell'Etiopia a partire dall'ottobre 1935. Più che “solita” forse la si potrebbe definire “straordinaria” visto che il generale Graziani fu il primo ad essere autorizzato direttamente da Mussolini all'utilizzo dell'iprite contro gli etiopi: “Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco” (telegramma a Graziani del 27/10/1935). Ed essendo “risoluto” Graziani non perse tempo, il 24 dicembre di quell'anno irrorò di iprite e fosgene in località di Areri, il ras Destà, in sosta con la sua armata e il bestiame per il sostentamento. Gli attacchi aerei furono ripetuti il 25, 28, 30 e 31 dicembre e Graziani suggellò la sua eroica impresa telegrafando al generale Bernasconi, comandante dell'aviazione in Somalia: “ Le ultime azioni compiute hanno dimostrato quanto sia efficace l'impiego dei gas”.
Ma di tutto ciò nella smemorata ricostruzione storica adottata a proprio uso e consumo dal comune di Affile ovviamente non vi è traccia; come non vi è traccia di ciò che successe dopo il citato attentato che subì – ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937 – l'allora viceré, governatore generale, nonché comandante superiore delle truppe Rodolfo Graziani. Fu un massacro che durò tre giorni, di cui ancor oggi non si conosco il numero esatto delle vittime, ma che lo stesso Graziani così descrive a Mussolini: “Sono state in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanto tucul” – per proporre sempre al Duce in un telegramma successivo “ di radere al suolo tutta la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento”. E qui Mussolini dovette opporsi, obtorto collo, al suo fedelissimo rispondendogli a stretto giro di posta perché la cosa “solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo”. Forse fu solo per sfogare la sua “risolutezza” che Graziani si dedicò quindi alla strage di indovini e cantastorie segnalatigli dalla polizia come i “più pericolosi perturbatori dell'ordine pubblico”. E dopo di loro furono massacrati, sempre dietro suo ordine, per mano del generale Pietro Maletti, i monaci del convento di Gulteniè Ghedem Micael e del grande monastero di Debrà Libanòs. Per questi ultimi Graziani comunicava a Roma che: “oggi, alle 13 in punto”, il generale Maletti “ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine … “. Ma tre giorni dopo, il “solerte” Graziani, cambiava idea e inviava a Maletti la seguente direttiva : “Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino per tanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole:”Liquidazione completa” ”. Fu così che Maletti fece “ sfilare davanti alle sue mitragliatrici 129 diaconi” – come ricorda sempre lo storico Angelo Del Boca.
La biografia del Maresciallo d'Italia, ovviamente non finisce qui, ma non è mio il compito di descriverne le successive sorti che lo portarono a diventare ministro della difesa nella Repubblica Sociale di Salò o successivamente, nel dopoguerra, alla presidenza onoraria del Movimento Sociale Italiano. Così come non è questa la sede per approfondire la più complessa vicenda dell'impresa coloniale italiana in Africa, in tutti i suoi aspetti ovviamente, comprese le atrocità e i crimini commessi ad esempio dagli insorti etiopi nei confronti dei civili e dei militari italiani (si veda a proposito “Etiopia 1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano” di Federica Saini Fasanotti pubblicato dall'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito).
Ho voluto solo accennare ad alcune delle imprese che videro protagonista Rodolfo Graziani, le quali sono più che sufficienti, a mio modo di vedere, per annoverarlo tra gli imputabili per crimini di guerra e quale autore di nefandezze e infamie che macchiarono in modo indelebile la storia del nostro paese, checché ne dicano i suoi apologeti affilani per i quali il loro prode fu “ forse troppo dimenticato, come dimenticato fu durante la vita nonostante l'esistenza intera spesa per il bene e la grandezza della Patria.”
Non ci resta che confidare in quei cittadini affilani che, pur in minoranza, hanno contribuito o partecipato ai festeggiamenti del loro primo 25 aprile in paese, augurandogli di poter al più presto liberare dai fantasmi del passato e dagli imbonitori del presente i restanti loro compaesani. E soprattutto che il mausoleo torni al più presto ad essere dedicato al Milite Ignoto.

Umberto De Pace

Nota: le citazioni e i dati storici sono tratti da “Italiani brava gente?” di Angelo del Boca – Neri Pozza Editore e dal dossier “I crimini di guerra italiani” a cura di Mimmo Franzinelli sulla Rivista Millenovecento gennaio 2003.



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  28 aprile 2013