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LETTERE DALLA PALESTINA
Gerusalemme e il campo profughi di Dheisheh
Annalisa Caron

Qui di seguito l'ultima e-mail di Annalisa Caron, della Cisl di Monza, partita il 27 ottobre per la Palestina e Israele insieme a una delegazione di pacifisti raccolti dalla Tavola per la Pace. Scopo del loro viaggio è stato quello di incontrare e sostenere le realtà impegnate nel dialogo palestinese-israeliano.

1 novembre 2012
.... a seguito della precedente ....
Fuori dalla scuola siamo usciti nuovamente dalla Porta Nuova e abbiamo costeggiato il muro della città vecchia fino alla porta di Damasco.

la Porta di Damasco

Questa porta ha un importante valore simbolico per i palestinesi in quanto è proprio davanti a questa porta che si ritrovano quando c'è qualche attività politica. Proprio fuori le mura c'è quella che era una volta la linea di demarcazione del confine fra le due parti della città: oggi la città è unificata, secondo la prospettiva israeliana, ma le nostre guide ci spiegavano che i palestinesi, sebbene non esista un legge che glielo proibisca, preferiscono non andare a Gerusalemme ovest. Sotto la porta di Damasco, si possono ancora vedere i resti della vecchia porta romana. E da questa porta si entra nel quartiere arabo, quartiere che è comunque fortemente a rischio di colonizzazione da parte dei coloni israeliani. Anche Ariel Sharon, a suo tempo, aveva acquistato una casa in questo quartiere oggi trasformata in un centro studi e particolarmente evidente nel quartiere visto che lungo tutto l'edificio scorrono due lunghe bandiere israeliane e sul tetto c'è un'enorme menorah.
Gerusalemme al tempo dell'impero ottomano era stata divisa in quartieri assegnati ai vari paesi europei (francesi, austriaci, tedeschi etc.). Nell'attuale quartiere arabo si trova "l'ex ospedale austriaco" oggi trasformato in albergo dal cui tetto si gode uno dei più bei panorami della città e dal quale abbiamo potuto iniziare a capire "sul terreno" gli effetti delle politiche di rimodulazione della città. Subito dopo questa boccata di bellezza abbiamo raggiunto l'African Community Center (un luogo di ritrovo della comunità di origine africana e dove nel pomeriggio sono organizzati dei corsi post- scuola per i bambini e i ragazzi). Già, proprio così a Gerusalemme possiamo trovare una consistente comunità africana che vive nella città vecchia e in particolare nel quartiere arabo.
Qui abbiamo incontrato Yasser un giovane militante della causa palestinese e per questo già ospite delle prigioni israeliani. La sua testimonianza è stata davvero molto interessante. Ecco qui di seguito una breve sintesi di quanto ci ha raccontato: "Gerusalemme è di fatto, per noi, una città occupata in quanto Israele non rispetta le risoluzioni ONU esistenti, avendo come obiettivo finale quello di farne la sua capitale. La popolazione araba che abita a Gerusalemme e per la quale questa città è parte della propria identità non possono accettare i piani di Israele. Dopo l'inizio della seconda intifada, ai negoziati di Camp David, Arafat non firma l'accordo che era stato proposto proprio perché non era possibile accettare le richieste israeliane sullo status di Gerusalemme. Nonostante tutto però gli israeliani cercano di raggiungere comunque il loro obiettivo utilizzando diverse politiche e diverse azioni per trasformare Gerusalemme in una città ebraica. Ovvero a Gerusalemme si stanno utilizzando in modo congiunto le politiche già utilizzate a Jaffa, che da città molto popolata è stata ridotta ad un piccolo centro grazie ai trasferimenti della popolazione araba. L'altra strategia è stata quella di fare pressione sul centro così da costringere la popolazione araba a trasferirsi verso le periferie. Nel caso di Gerusalemme, poi, accade che le periferie a maggioranza araba sono state staccate dalla città, ritrovandosi a far parte della West Bank, con la costruzione del Muro. Molte delle persone hanno cercato di tornare a vivere a Gerusalemme ma a quel punto era necessario che dimostrassero che il centro della loro vita fosse lì. Il piano israeliano viene generalmente denominato "Gerusalemme first" ovvero Gerusalemme al primo posto e proprio per questo motivo si possono vedere anche sul terreno gli effetti di questo mix di politiche e strategie che mirano a farne una città ebraica, dove "conservare" qualche palestinese, giusto per dimostrare di essere una stato democratico...”.
Alle nostre domande, quali:
1) avete degli interlocutori israeliani con cui riuscite a parlare e dialogare?
2) Al contrario di Israele che sa ben utilizzare l'informazione a proprio vantaggio, la mancanza di una leadership palestinese riconosciuta non è una delle cause della scarsa visibilità delle ragioni di questo popolo?
Le risposte sono state precise e dirette: tutti abbiamo, qui a Gerusalemme, qualche amico "israeliano" ma il dialogo su questi temi sarà impossibile fino a che non ci verranno prima riconosciuti i nostri diritti, solo allora potremo sederci ad un tavolo. Alla seconda domanda ci è stato risposto che la leadership palestinese manca perché morta o in carcere a seguito della seconda intifada.
Parlare di leadership e rappresentanza è un nodo non facile da sciogliere per i Palestinesi di oggi: "l'OLP rappresentava i palestinesi, oggi l'Autorità Palestinese chi rappresenta? Noi giovani abbiamo gli strumenti per capire e non seguiamo più ciecamente ciò che viene detto o proposto dai nostri movimenti...."
In una situazione così complessa e così bloccata chiediamo a Yasser come si faccia ad andare a avanti e lui ci risponde che nessuno può rubargli i sogni che ogni giorno colora dentro di sé.

Visita al Campo Profughi di Dheisheh

il campo Profughi di Dheisheh

Il campo profughi di Dheisheh sorge di fatto dentro la città di Betlemme, è come se ormai fosse un suo quartiere. Incontriamo subito le nostre guide Abu Fadhi, responsabile e punto di riferimento del Campo, nonché Focal Point per tutte le Agenzie che lavorano nel campo stesso, e Sandi Hilal, referente UNRWA per questo campo nonché architetto impegnata nel progetto DAAR - Decolonization Architecture Art Residency. ( http://www.decolonizing.ps/site/ ).
Nel campo, di 1/2 kmq, abitano 13.000 persone che provengono da 46 villaggi diversi della Palestina storica (prima del 1948) e attualmente in territorio israeliano. Nel campo si offrono servizi e assistenza sanitaria, cibo, sostegno e assistenza sociale, educazione, ci sono poi programmi di camp improvement.

E' uno dei 19 campi presenti nella West Bank ed è il più grande, per numero di abitanti, nella parte sud della stessa WB. E' uno dei campi più liberi, con un forte network fra i rifugiati e il fatto che sia praticamente in Betlemmme è sicuramente una delle spiegazioni per cui questo campo sia così particolare, ma non di certo l'unica. Qui ci sono 40 ONG registrate, ci sono 4 scuole (2 maschili e 2 femminili) che assicurano la frequenza fino alla terza media a 2600 studenti. Compito dei gestori del campo è quella di registrare tutti i profughi e i loro familiari, affinché le informazioni siano il più aggiornate possibili. All'interno del campo c'è anche una Università con il progetto CAMPUS in Camp.
Dopo 64 anni di esilio, pensare al ritorno, coltivare il diritto al ritorno, è difficile in quanto nel tuo paese c'è uno stato terzo che non ti vuole. I campi della West Bank sono tutti campi liberi, non recintati, dove i profughi possono uscire, lavorare e possono anche decidere di trasferirsi altrove, avendone la forza e la possibilità. Nel 1948, all'inizio della loro odissea, i profughi vivevano nelle tende. Poi queste tende furono gradualmente trasformate in case, sebbene al momento della costruzione del tetto si aprì un intenso dibattito fra i profughi in quanto costruire il tetto avrebbe significato rinunciare al ritorno...
Se l'obiettivo di sempre è il ritorno perché, si domandano da 64 anni i profughi, dobbiamo migliorare le nostre condizioni e quindi la nostra immagine?
Da un certo punto di vista si teme che se il rifugiato si riappropria della sua vita non venga più riconosciuto come rifugiato che ha diritto al ritorno - un diritto politico al ritorno. Si è pertanto di fronte a una contraddizione, all'impossibilità della coesistenza fra la possibilità di miglioramento della qualità della vita e il diritto al ritorno.

il campo Profughi di Dheisheh

Il dilemma è vivo più che mai all'interno dei campi e quello di Dheisheh non fa eccezione: perché l'UNRWA vuole migliorare il campo e non ci aiuta, invece, a tornare? L'opinione pubblica internazionale ci vuole poveri e deboli, ci conosce da sempre così... perché cambiare? Perché dare una nuova immagine di sé, di healthy refugee - di rifugiato forte? Il diritto al ritorno è un diritto difficile da conseguire. Il ritorno può essere possibile attraverso le esperienze, attraverso lo sviluppo di una cultura dell'esilio. Questo è l'obiettivo di alcune azioni che sono state attivate nel campo.
I Palestinesi non hanno una narrativa del ritorno. Le chiavi e i numeri dei profughi e dell'esilio forse oggi non bastano più, non sono più sufficienti a spiegare cosa i rifugiati hanno perso (per es. la cultura urbana palestinese di Jaffa, Haifa; il diritto al Mediterraneo...). Si deve poter pensare ad un diritto al ritorno sia per i Palestinesi, sia per gli Israeliani ... per questi ultimi, per esempio per gli stessi abitanti di TelAviv si tratta di un ritorno/riappropriarsi della propria dimensione e partecipazione alla vita del Mediterraneo (visto che ad oggi vivono asserragliati senza contatti con l'esterno).
La domanda centrale rimane la seguente: come si può cambiare la rappresentazione del rifugiato? Come si può liberare il concetto di "diritto al ritorno" che è stato di fatto colonizzato?
L'identità palestinese non è più in discussione, è salva, ma a questo punto si deve costruire una narrativa palestinese che dia la possibilità agli stessi palestinesi di reinventarsi.
L'esperienza di vita nel campo è esperienza di vita comune dove le persone riescono a vivere senza stato perché si sono date una propria organizzazione interna. Nel campo non c'è polizia e non ci sono atto di violenza. Il campo non è né pubblico né privato: l'UNRWA non è amministratore del campo, le case del campo non appartengono a nessuno, anche se chi le abita le ha anche costruite. Per i rifugiati lo stato è percepito come nemico perché per esempio il riconoscimento dello stato palestinese significherebbe negare il ritorno. L'Autorità Palestinese è considerata host government (governo ospite) così come quello giordano o quello di altri stati che ospitano i campi. Per questo motivo sino ad oggi i rifugiati non partecipano alle elezioni.
Se cambieranno i campi profughi cambieranno inevitabilmente città come Amman, Beirut ...etc. Israele deve a sua volta cambiare, aprirsi al Mediterraneo e al Mondo Arabo, se non vuole vivere in modo sempre più ostile.
Alla domanda se esiste qualche forma di dialogo o di collaborazione con associazioni israeliane la risposta è stata la seguente: nessuna collaborazione con istituzioni israeliane perché di fatto sono finanziate da uno stato che porta avanti una politica di APARTHEID. Ci sono solo collaborazioni su base individuale
Quale soluzione è possibile? Uno stato o due stati?
Per noi, risponde Sandi Hilal, è importante portare avanti l'opera di decolonizzazione delle nostre menti per capire bene la nostra realtà. La domanda fondamentale per noi è come possiamo decolonizzare tutti gli aspetti della nostra vita? Israele cambia se ciascun singolo riesce a cambiare se stesso. 1 stato o 2 stati, sono pertanto categorie che non ci interessano.
Nell'università del campo si sta redigendo un dizionario contemporaneo del campo per dare un nome a ciò che non lo ha mai avuto e per dare una nuova definizione a termini che, secondo noi, necessitano di essere decolonizzati. Dheisheh è un campo molto avanti nell'elaborazione del pensiero e per questo può essere considerato un campo leader nella West Bank. I rifugiati dei campi e gli stessi abitanti della West bank vivono entrambi la stessa condizione di "occupati".
Il campo deve mantenere, nel contesto in cui si trova, la sua eccezionalità: va pertanto ripensato dentro il diritto al ritorno e dentro al progetto al ritorno. Molti vogliono distruggere il campo per affermare il diritto al ritorno, mentre oggi si cerca di far passare il concetto che sia meglio migliorare il campo per inserirlo nel diritto al ritorno.... Se, infatti, i profughi potessero tornare nei loro villaggi, probabilmente vorrebbero portare con sé un "pezzo" del campo.
La testimonianza di Sandi Hilal è sicuramente illuminante su quanto le nuove generazioni stiano cercando di darsi una identità e una storia propria, dentro l'esperienza del campo, dell'esilio e della stessa occupazione. Questi sono solo alcuni frammenti di quanto ci ha raccontato ma credo che sia di per sé sufficiente per porci di fronte a questa complessa realtà con un nuovo e diverso punto di vista. Probabilmente è il punto di vista di un gruppo di persone che vive l'esperienza del campo da sempre, essendoci nata, ma per la forza con cui cercano di uscire da un cliché che hanno ereditato meritano di avere spazio e voce.
Nel pomeriggio abbiamo raggiunto Gerico.

Gerico

A Gerico, dopo la visita ai siti archeologici della città, abbiamo concluso la giornata con un momento assembleare "Viaggio nel punto più basso della terra. Come usciamo dalla crisi in cui siamo precipitati?”. Dopo una riflessione a gruppi su tre domande, quali:
- una vita riuscita è .... (dare tre risposte)
- quali sono i valori che vorresti trasmettere ai tuoi figli e/o alle persone più care?
- cosa vorresti che si ricordasse di te.
Il preside del Liceo di Parma che faceva parte della delegazione, prof. Tosolini, al termine dei lavori di gruppo ha proposto un decalogo ("il decalogo di Gerico") di azioni che ciascuno di noi può decidere di porre in essere per uscire dalla situazione di crisi. Ecco alcuni punti del decalogo:
- cambiare rotta, invertire la direzione di marcia;
- riordinare e scegliere i valori che ci devono guidare;
- ripartire dal basso. Il cambiamento comincia da noi stessi dalla nostra responsabilità personale e civile;
- aumentare la coerenza: il cambiamento non è affatto un'utopia e può essere raggiunto;
- camminare insieme e non da soli per promuovere il dialogo e l'ascolto;
- costruire una nuova economia sociale e solidale - ma anche disertare i sistemi distruttivi;
- ridurre l'impatto sull'ambiente;
- riconcepire la politica e i processi decisionali;
- educarci alla pace, alla giustizia e ai diritti umani.
A cena, invece, abbiamo avuto il piacere di incontrare Wahel, sindacalista del PGFTU di Gerico con cui ISCOS Lombardia (ONG promossa dalla Cisl) ha in corso diversi progetti di cooperazione.
Ci ha raccontato di come le condizioni dei lavoratori palestinesi siano particolarmente difficili soprattutto per chi lavora negli insediamenti israeliani ed è, pertanto,sottoposto alla normativa israeliana. Così anche le cause di lavoro devono essere aperte presso le corti israeliane dove possono naturalmente esercitare solo gli avvocati israeliani. Per questa ragione loro collaborano con una associazione di legali israeliani che nel fine settimana vanno nella West Bank a parlare con i lavoratori per fornire loro informazioni e la necessaria consulenza legale per la difesa dei loro diritti.
I contratti israeliani, che dovrebbero essere applicati a chi lavora negli insediamenti, prevedono la paga minima ma, nella realtà, i coloni non rispettano tali accordi e sottopagano i lavoratori. L'attività sindacale, per la maggior parte, si svolge nei villaggi nel fine settimana quando è possibile incontrare e parlare con i lavoratori. Il lavoro agricolo occupa gran parte della popolazione e generalmente si tratta sempre di lavoro non regolare. Nel settore manifatturiero, che è comunque nelle mani degli israeliani, la situazione è leggermente migliore. Non esiste nessun sistema pensionistico ad eccezione per coloro che lavorano nel settore pubblico.

2 novembre 2012

Fare una sintesi di questo viaggio credo che mi sia al momento impossibile. Si è trattato sicuramente di un'esperienza unica nel suo genere nella quale ho respirato il conflitto, il dolore, l'incomprensione, la lacerazione, la parcellizzazione delle vite e delle esperienze, il muro e i muri e allo stesso tempo il coraggio di pensare comunque a un domani diverso per sé e per i propri vicini. Tutto questo in una terra considerata da tutti sacra, ma al là di questo, poco realmente amata nella e per la sua estrema complessità anche di crocevia e luogo di incontro dei tanti diversi ...
Ciao
Annalisa Rachele e PierAldo

Fine
a cura di Umberto De Pace

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  15 novembre 2012