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Il faro americano
di Vittorio Amodeo

Durante la prima metà del secolo XX gli Stati Uniti d'America sono stati, sotto varie forme, un faro di interesse e di libertà per l'Italia. Prima accogliendo le masse dei nostri emigranti straccioni, povere genti del Sud che fuggivano una miseria endemica col miraggio di rifarsi una vita, e spesso ci riuscivano. Poi come nostra alleata nella prima guerra mondiale contribuì a battere il nemico tedesco, consentendo alle nostre truppe, dopo le sofferenze e i disastri iniziali, di giungere in modo pressoché indolore al confine del Brennero.
Nel periodo fascista la democrazia americana costituiva un modello auspicabile per gli oppositori al regime (che forse non erano tanti ma culturalmente i più preparati). Anche la cultura americana esercitava un suo fascino: in letteratura con la rottura degli schemi usuali e il suo populismo diffuso, nel cinema con l'innovazione, nella musica con l'assorbimento dei temi esogeni nel jazz. E durante le persecuzioni razziali molti ebrei trovarono negli USA il rifugio contro lo sterminio nazista.
Nella seconda guerra mondiale l'intervento americano, dapprima osteggiato negli stessi USA, fu decisivo per liberare l'Europa dallo spettro della dominazione incontrastata di un illiberale regime nazifascista. La liberazione non costò poco all'Europa: città smozzicate e incendiate, milioni di morti tra la popolazione civile, l'economia distrutta. I massicci bombardamenti anglo-americani inaugurarono un nuovo tipo di guerra, che purtroppo verrà in seguito ripetuto: non guerra tra e contro gli eserciti, ma contro la popolazione civile, i suoi beni e la sua stessa vita.
Il piano Marshall, concepito soprattutto per contrastare la possibile diffusione del comunismo sovietico, costituì una boccata d'ossigeno per un'Europa distrutta. V'erano, insomma, gli elementi per guardare all'America come a un faro. E forse il momento più alto della “civiltà americana” venne con la costituzione dell'ONU, organismo sovranazionale ispirato ai diritti dell'uomo e delle nazioni, al quale gli USA diedero appoggio e ospitalità per la sede centrale.
Ma nel mezzo secolo successivo, a mio parere, il faro americano iniziò ad appannarsi. La guerra fredda fu giustificata con la necessità di contenere l'espansionismo sovietico; ma in realtà la Russia – con 20 milioni di morti e con il territorio devastato – era stremata dalla guerra e cercava solo faticosamente di ammodernarsi: le enormi spese militari cui la costrinse la minaccia, anche nucleare, americana la bloccò al sottosviluppo, a una “dieta di segatura” così come si compiacevano documenti americani.
Al contrario gli USA erano l'unica nazione a essere uscita dalla guerra con il territorio intatto, la produzione industriale rafforzata e aumentato il prestigio internazionale. La tentazione di ergersi a “dominus” del mondo e regolatore dei rapporti e interessi internazionali era forte, e questi ultimi furono per lo più confusi ed equiparati agli interessi nazionali.
Inizia così la globalizzazione planetaria degli interessi americani, che portano gli USA a giudicare strategica ogni posizione che possa avere addentellati con i propri interessi. Queste posizioni vanno difese anche con le armi, e gli USA hanno disseminato il globo di basi militari (si calcola ve ne siano circa 500) per esercitare ovunque un controllo globale.
In realtà l'espansionismo americano aveva avuto inizio già ai primi del XIX secolo con la dottrina Monroe del “cortile di casa” (interessi nei Caraibi e America Centro-sud). In seguito Portorico, Cuba, Haiti e le Filippine divennero quasi-colonie o porzioni americane. Ma ben oltre andò l'affermazione USA dei propri interessi strategici nella seconda metà del XX secolo: di qui, ad esempio, la guerra in Vietnam, dopo aver sostenuto con un colpo di stato un governo amico nel Sud del paese. E i vari dittatori sostenuti o imposti, da Pinochet in Cile a Suharto in Indonesia, per tentare di garantire i propri interessi economici e strategici.
Noam Chomsky, il famoso linguista americano, nel bel libro Egemonia americana (Ed. Dedalo) sostiene che gli USA violano sistematicamente le regole di non ingerenza e i trattati internazionali quando ritengono di dover difendere i propri interessi. Questa unica superpotenza, insomma , si fa beffe delle regole ch'essa stessa ha contribuito a imporre, che valgono per gli altri ma non per sé.
Ora l'America è duramente colpita dall'atto terroristico che ha subito. Ma credo dovrebbe riflettere se non si sia trattato di una reazione, certo abnorme e delittuosa, alle costanti forme di prevaricazione che su troppi paesi vengono esercitate. Ora è – anzi siamo – in guerra contro l'Afganistan, un piccolo paese povero e arretrato sulla cui popolazione vengono scaricate migliaia di bombe (ma ci pensiamo? Tutte le maggiori potenze della Terra coalizzate, al suono di fanfare e inni patriottici, per dare addosso a una popolazione miserabile già stremata da anni di guerra e di fame – c'è davvero di che esaltare il nostro patriottismo!). E questa è la terza guerra in dieci anni, dopo quella del Golfo e il Kosovo, che è promossa e condotta dall'America. Troppo. C'è da pensare che senza queste bellicose e perduranti iniziative americane il mondo sarebbe più pacifico, meno preda di convulsioni.
Sentendosi per la prima volta minacciata nel suo stesso territorio, l'America si rinchiude e incattivisce: controlli esasperati e illiberali, licenza di uccidere per i servizi segreti, arresti a tempo indeterminato, addirittura da taluni proposta la tortura. Ma in tal modo si attenua, rischia di spegnere, il faro di libertà che l'America rappresentava.
Noi siamo amici dell'America e della pace, e vorremmo esortare gli USA ad abbandonare sogni pericolosi di dominio globale. Rientriamo tutti nelle regole dell'ONU per un governo mondiale partecipato, e soprattutto operiamo per risolvere o almeno attenuare le diseguaglianze e le ingiustizie più gravi che affliggono il mondo. Dice l'ex-presidente Clinton: “Le radici del terrorismo affondano nelle disparità economiche, nella povertà e nell'assenza di democrazia. Gli Stati Uniti dovrebbero comprendere questi problemi e occuparsene seriamente”.

Vittorio Amodeo



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 13 novembre 2001