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A proposito di uguaglianza e di tutela…
Alberto Battaglia

art.18

Secondo le ultime statistiche Istat il tessuto produttivo italiano è composto per il 95% da aziende e imprese con meno di 10 dipendenti e di queste il 62% è a carattere individuale.
La Confederazione artigianale e delle piccole imprese di Mestre elaborando dati del 2009 indica in oltre 9,5 milioni i lavoratori (autonomi compresi) che non vengono tutelati dall'articolo 18 perché operanti in aziende con meno di 15 dipendenti e “solo” 7,9 milioni quelli assunti in aziende o società con più di 15 dipendenti

Se si analizzano poi i dati sui lavoratori dipendenti su circa 12 milioni, 7,8 milioni operano in aziende con più di 15 dipendenti, circa il 65,5 % (dati 2006) e quindi circa i due terzi di questi lavoratori (operai ed impiegati) sono tutelati dall'art.18.
Sempre in relazione ai dati del 2006, le controversie pendenti legate all'art.18 erano 8.651 ed il 44,8% delle stesse si era chiuso con il rigetto della domanda mentre in appello la soglia era salita al 63,1%: 8.651 ricorsi su 7,8 milioni di lavoratori sono lo 0,1% circa e meno della metà è stata accolta.

Da questi dati si evince che l'articolo in questione e le proposte che ruotano intorno ad esso riguardano i due terzi (circa il 65%) dei lavoratori dipendenti: la loro maggioranza.
Ma proprio qui sta il punto. Si parla di lavoratori dipendenti escludendo nella contabilizzazione tutte le altre forme di “assunzione” o di modalità contrattuale, perché in questo caso le percentuali si rovescerebbero assegnando ai lavoratori dipendenti la minoranza della forza lavoro occupata.
Viene da chiedersi, alla luce delle sostanziali modifiche che si sono realizzate in questi anni sul fronte delle modalità di occupazione ed alla luce delle possibili, quanto auspicabili, ulteriori modifiche, se effettivamente la questione “articolo 18” non sia spesso vista, letta ed interpretata come la difesa di un “privilegio” (passatemi il termine), che per altro solo in limitati casi consente il reingresso sul posto di lavoro.

Forse in termini di equità di condizioni, di eguaglianza di diritti e di tutele qualche riflessione ulteriore andrebbe posta e forse un riequilibrio progressivo si pone proprio per le modifiche che il mercato del lavoro ha proposto in questi anni e su cui abbiamo un po' tutti marcato dei forti ritardi in termini di garanzie e di tutele.
E sempre sul medesimo problema vorrei far osservare come altre e più pesanti siano le forme di diseguaglianza esistenti: prima fra tutti la diversità salariale tra donne e uomini sulla quale varrebbe la pena di interrogarsi seriamente sull'odierno significato.

In particolare in Italia il dato di occupazione femminile è il più basso in Europa (dopo di noi solo Malta) con retribuzioni inferiori del 13% e dati di abbandono del lavoro dopo la maternità tra i più alti. (dati CNEL)
Nel 2010 il tasso di occupazione femminile era del 46,1 %, cioè meno delle metà delle donne aveva un lavoro (ovviamente non domestico) e ci poneva in coda alla statistiche europee, dal 2008 al 2010 l'occupazione femminile è diminuita dell'1,1% pari a circa 103.000 unità e solo nel 2011 altre 45.000 giovani donne hanno perso il lavoro (dati Istat)
Sotto il profilo della precarietà le donne al di sotto dei 30 anni occupano una quota maggiore di quella dei giovani maschi (35% contro il 27%) con una retribuzione media di 892 euro contro 1.056 euro. Le donne che abbandonano il lavoro dopo la maternità sono circa il 41% (dati Istat).
Per ultimo citiamo il dato di disparità nella coppia con un figlio dove il tasso di occupazione è del 60% di donne contro il 91,3 di maschi che scende per le donne al 50,6 quando si hanno due figli per crollare al 33& con tre o più figli.

Domanda: l'articolo 18 è davvero così centrale per la tutela dei diritti o non sarebbe il caso di rivedere su quali presupposti dobbiamo costruire una ipotetica società dell'eguaglianza ?

Alberto Battaglia

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  15 febbraio 2012