prima pagina pagina precedente




Un piccolo passo
Giuseppe Pizzi


Per gran parte del suo tracciato, la Milano-Venezia corre al margine fra la pianura padana e le dolci ondulazioni delle Prealpi. Sul versante nord del tratto fra Bergamo e Brescia, in un fortunato fazzoletto di territorio morenico che prende il nome di Franciacorta, c'è Adro, anticamente una delle curtes francae libere da imposte, oggi sfortunatamente noto come la località delle imposizioni inderogabili, il comune che non versa il cibo nel piatto dei bambini i cui genitori sono in arretrato con il pagamento della mensa.

I vigneti della Franciacorta
I vigneti della Franciacorta

Ma ad Adro c'è un cittadino ribelle che imbraccia l'arma più scandalosa, la generosità, e stacca un assegno a copertura del debito delle famiglie insolventi. Un anonimo e silenzioso gesto di bontà? Neanche per idea, l'adrese-contro non è un tipo politicamente corretto, accompagna l'assegno con una lettera da cavar la pelle, nella quale svergogna il farisaico legalitarismo dei suoi compaesani, mostra indignazione per la loro intransigenza e li provoca ad esercitarla su se stessi e sui potenti prima che sui bambini e sui deboli. Parole pesanti come pietre, gli adresi non gliele perdonano e c'è da scommettere che da ora in avanti gli renderanno la vita difficile. Niente quanto la verità turba e irrita le cattive coscienze.
In un passaggio della sua lettera il buon adrese avverte contro la lenta ma costante deriva della nostra società verso l'intolleranza, verso un passivo rassegnato consenso alla sopraffazione, quella che diremmo l'abitudine al male: «…so bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male (…) Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l'asticella dell'intolleranza di un passo all'anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini…»
Avvertimento quanto mai appropriato nell'imminenza del 25 Aprile.
A differenza del magnanimo cittadino di Adro, si rassegnarono alla sopraffazione delle loro coscienze i milleduecento professori universitari cui nel 1931 il governo fascista impose il giuramento di fedeltà: «Giuro di essere fedele al re, ai suoi reali successori, al regime fascista…».

Mario Sironi, L'Italia tra le Arti e le Scienze
Mario Sironi, L'Italia tra le Arti e le Scienze, 1935, Roma, Aula Magna del Rettorato, Università "La Sapienza"

Si rifiutarono solo in dodici, ciò che consentì al regime di commentare con giubilo un'adesione “sublimata all'un per mille" (forse la percentuale corretta, l'un per cento, non gli bastava!). Non tutti erano antifascisti, erano uomini di diritto, di lettere e di scienza che in quel frangente elevarono l'autonomia di giudizio ad elemento essenziale della loro cultura. Per contro, non erano fascisti convinti la gran parte dei firmatari del giuramento, anzi, proprio fra loro si contavano noti antifascisti (basti ricordare i nomi di Concetto Marchesi, Guido Calogero, Adolfo Omodeo, Piero Calamandrei, Federico Chabod, Arturo Carlo Jemolo) che dopo l'8 settembre del 43 si schierarono con la Resistenza e ispirarono la Costituzione. Ma nel 1931 non resistettero, accettarono di dichiararsi fedeli dipendenti dello Stato fascista, spesso ricorrendo a raffinate giustificazioni culturali per salvaguardare cattedra e carriera. Forse videro in quel giuramento il minore dei mali, forse lo ritennero un cedimento senza gravi conseguenze, forse la vastità dei loro riferimenti culturali non servì, o non bastò, a farli desistere da quel piccolo passo verso il baratro. Appresero dagli eventi successivi la misura di quel passo.

Liberazione
Milano, Piazza S. Babila, la sfilata per la Liberazione – 1º maggio 1945

Ancora oggi le vicende e i nomi dei dodici professori che non si piegarono sono ricordati con difficoltà. Alla rimozione della loro memoria concorrono riluttanze e ritrosie di varia natura e provenienza. Quella del mondo accademico che, onorandoli, marcherebbe la diversità del loro comportamento rispetto all'acquiescenza di illustri colleghi che tuttora sono gloria e vanto delle Università in cui hanno operato. Quella dell'antifascismo dell'ultima ora, cui non conviene riandare alle connivenze che la precedettero. Quella dei fautori della compromissione utile – meglio giurare che cedere il posto a docenti dichiaratamente fascisti - che fu autorevolmente sostenuta da Togliatti, da Croce, dal papa Pio XI.
Rimane il fatto che, per quanto sono riuscito a sapere, non ci sono a tutt'oggi monumenti, scuole, biblioteche, centri di ricerca, circoli culturali, edifici pubblici, vie o piazze italiane intitolate ai “dodici professori”. Può essere un mio difetto di conoscenza ma, se non mi sto sbagliando, mi piacerebbe che la prima a farlo fosse la mia città.

Giuseppe Pizzi

Il cittadino di Adro si chiama Silvano Lancini.
Questi i nomi, la sede e la cattedra universitaria dei dodici professori:

Ernesto Buonaiuti (Roma, Storia del cristianesimo),
Mario Carrara (Torino, Antropologia criminale),
Gaetano De Sanctis (Roma, Storia antica),
Giorgio Errera (Pavia, Chimica)
Giorgio Levi della Vida (Roma, Lingue semitiche comparate)
Fabio Luzzatto (Milano, Diritto civile)
Piero Martinetti (Milano, Filosofia),
Bartolo Nigrisoli (Bologna, Chirurgia),
Francesco Ruffini (Torino, Diritto ecclesiastico),
Edoardo Ruffini-Avondo (Perugia, Storia del diritto),
Lionello Venturi (Torino, Storia dell'arte),
Vito Volterra (Roma, Fisica matematica).



EVENTUALI COMMENTI
lettere@arengario.net

Commenti anonimi non saranno pubblicati


in su pagina precedente

  20 aprile 2010