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La vergogna di Opera
Appunti sull'esile confine che divide il bene dal male
di Umberto De Pace


Il 10 febbraio scorso, una piccola comunità di Rom decide di abbandonare un campo provvisorio di emergenza, allestito per ospitarli, nel Comune di Opera alle porte di Milano.
La vicenda ebbe inizio il 14 dicembre dello scorso anno, quando i Rom furono sgomberati dal campo abusivo di via Ripamonti a Milano, dove vivevano da anni. Con le ruspe vennero abbattute tutte le baracche del campo e tutti i suoi abitanti furono trasferiti a Opera, località scelta dopo un accordo tra l'amministrazione comunale locale, la prefettura, il Comune e la Provincia di Milano.
L'accordo prevedeva che rimanessero ad Opera fino ad aprile, mentre la loro sistemazione definitiva era prevista comunque al di fuori del territorio comunale.
In pochi giorni il malumore di una parte della cittadinanza prende corpo, grazie anche al contributo di alcune forze politiche, Lega Nord e Alleanza Nazionale, le quali si pongono alla testa di quella che ormai prende le vesti di una vera e propria rivolta, .
Vengono danneggiate le auto della protezione civile, i rom insultati, il Consiglio Comunale viene assediato e subito dopo, la sera del 21 dicembre, un corteo di protesta raggiunge il campo nomadi, al grido di “distruggiamo il campo nomadi”.
Da lì a poco vengono date alle fiamme sei tende del campo, altre sette vengono divelte con la forza, i resti vengono portati nel centro del paese e utilizzati come barricate per bloccare il traffico, mentre qualcuno sul posto si premura di bloccare i mezzi di soccorso giunti per spegnere l'incendio e di distruggere le cose rimaste dei Rom.
Nei giorni successivi inizia l'assedio davanti all'unico ingresso del campo che per protezione ha una rete che lo circonda. Il presidio che prende le vesti di un bivacco, organizzato con una specie di bar e i bagni chimici, non è autorizzato.
E poi ancora, petardi lanciati per disturbare le iniziative (organizzate dalle associazioni di volontariato, dedicate soprattutto ai tanti bambini presenti) urla da parte degli assedianti con le fiaccole in mano, lungo la rete che circonda il campo.
Dopo quasi due mesi di assedio in queste condizioni, una trentina di famiglie Rom, circa settantacinque persone in tutto, tra cui 37 bambini, sono dovute letteralmente scappare non potendo più sopportare quello che si era oramai trasformato in un inferno.
Pur lodevoli, non sono bastati gli sforzi e al solidarietà concreta dimostrata da un gruppo di volontari e dalla Caritas di Don Colmegna i quali per settimane hanno cercato di portare aiuto e conforto agli ospiti del campo nomadi, subendo anch'essi ogni sorta di angherie, insulti, se non violenze (due sono le denunce presentate da operatori aggrediti dagli assedianti).
Abbiamo così assistito all'epilogo di una vicenda che ha saputo far emergere gli aspetti peggiori di una parte della comunità di Opera, ma che poteva esprimersi nello stesso identico modo in qualsiasi altro posto del nostro paese, almeno qui al nord.
Quale migliore soggetto, poteva catalizzare su di sé tutto ciò se non gli zingari, visto che nell'immaginario collettivo di molti di noi, rappresentano ciò che di peggio vi possa essere.
Ma la vergogna di Opera, ci deve far riflettere tutti, su quanto esile sia oggi e non ieri, qui sul nostro territorio e non in luoghi da noi lontani, il confine che separa il bene dal male, la ragione dagli istinti, il confine tra le parole e gli atti, tra la convivenza civile e la barbarie.
Con i fatti di Opera quel confine è stato superato e in ciò che è successo siamo tutti coinvolti.
Le istituzioni, in primo luogo, la Prefettura, il comune e la provincia di Milano, che invece di affrontare e cercare di risolvere il problema, lo hanno scaricato sul comune di Opera. A loro spettava il compito, mancato, di prevenire, organizzare, programmare l'intervento.
Le forze dell'ordine, che hanno lasciato per settimane degenerare la situazione oramai chiaramente nelle mani di pochi violenti e facinorosi, che nulla avevano più a che fare con una pur legittima espressione di protesta. A loro spettava il compito, mancato, di mantenere l'ordine, garantire la sicurezza dei luoghi e delle persone.
Le forze politiche che hanno capeggiato la protesta, novelli apprendisti stregoni, cattivi maestri, pronti a tirare il sasso, quando è il momento di incitare, veloci a nascondere la mano quando il peggio è avvenuto. A loro spettava il compito, mancato, di organizzare e indirizzare la protesta nell'ambito delle regole dettate dalla convivenza civile.
Noi uomini e donne del Nord, che abbiamo permesso sul nostro territorio negli ultimi decenni, la crescita e il radicamento di una cultura intrisa di intolleranza, odio, in alcuni casi di aperto razzismo. A noi spettava il compito, mancato, di respingere tale sotto-cultura, di non permettere che le nostre paure e debolezze trovassero rifugio nell'egoismo e nell'esclusione, che il problema degli zingari, tra tanti altri, fosse affrontato con l'ingegno e l'operosità che ci viene riconosciuta da più parti, mantenendo vivi gli unici valori che dovrebbero accomunarci oggi, oltre le differenti parti politiche: i valori della solidarietà, dell'accoglienza, della condivisione.
Oggi la magistratura sta indagando sugli atti vili e ignobili di Opera e spetta a lei individuare i colpevoli e punirli di conseguenza.
Ma se pensassimo che sarà tale atto a chiudere il capitolo dell'intera vicenda, aggiungeremmo un'ulteriore errore ai tanti già commessi.
O saremo in grado, noi gente del Nord, di aprire una profonda riflessione su quanto accaduto, di analizzarne le motivazioni profonde, di comprenderne le cause e di intraprendere un cammino di ricostruzione del tessuto sociale e civile e di formazione di una nuova rappresentanza politica e istituzionale sul nostro territorio, che sappia esprimere una nuova cultura della convivenza e della condivisione, oppure la lunga notte di Opera continuerà a pesare sulle nostre coscienze.
Il lavoro svolto dai 15-20 volontari operanti nel campo, dalla Caritas di don Colmegna, dal parroco don Rebuzzini e da alcuni cittadini di Opera deve essere per tutti un esempio, un segno di speranza, che ci dice che un altro modo di convivere è possibile.

Umberto De Pace


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  4 marzo 2007