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Il Giorno della Memoria, oggi
di Lia Tagliacozzo

Arbeit macht frei

Ho promesso a mio figlio di otto anni che avrei scritto un articolo che anche i bambini avrebbero potuto leggere. La pressione del Giorno della Memoria arriva infatti anche a lui: attraverso i discorsi in casa, i giornali sfogliati, le presentazioni di programmi televisivi che interrompono i cartoni animati pomeridiani. Mi ha spiegato in un momento di confidenza che lui non vuole che nessuno si addormenti sognando i nazisti che schiacciano i cadaveri degli ebrei e il sangue che gli schizza dagli occhi. Vorrei poter sorridere di un immagine così trash ma so bene dove l'ha vista e perché. Alcuni anni fa, quando ancora il Giorno della Memoria non si era così fortemente imposto all'attenzione dei media, fece parte della programmazione televisiva anche una “partita della memoria”, una sorta di partita del cuore in versione 27 gennaio. Prima serata, i bimbi che vedono il calcio e non vogliono andare a dormire. In fondo, penso, non ci sono controindicazioni: si tratta solo di sport. Ma all'interno di quella partita, un'iniziativa sulla cui utilità e interesse preferisco oggi non pronunciarmi, la regia inserì dei filmati della liberazione dei campi di stermino. Mio figlio le vide. E la sua memoria, quella con la M maiuscola, quella del 27 gennaio, ha iniziato a strutturarsi. Prima era una questione che atteneva alla sua vita privata, alle vicende famigliari, interveniva la mediazione dell'affetto, dei momenti condivisi, delle parole e dei silenzi, del fluire – grato - della sua crescita. Quelle immagini arrivate troppo presto nella sua vita di bimbo lo hanno costretto a confrontarsi con una dimensione pubblica, e impudica, dello sterminio ebraico ad opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Si tratta di un processo oramai irreversibile. Ed è iniziato, proprio lì, vedendo quelle immagini.
Adesso da quelle immagini siamo travolti: il Giorno della Memoria è diventato la settimana della Memoria, la dimensione istituzionale e mediatica sembra sovrastare e inglobare in sé la declinazione della memoria quale gesto attivo del vivere quotidiano.
E noi, paese di immemori, come bambini di otto anni ci riempiamo di quelle immagini intorno alle quali strutturiamo la nostra Memoria pubblica, politica e collettiva. Perché l'operazione riesca fino in fondo si sta progressivamente espellendo Auschwitz dalla storia, lo si sta trasformando in metafora del male assoluto, spogliando le parole del loro significato, azzerando il contesto storico e culturale che lo hanno partorito. Si cerca di far passare che sia esistito un momento di “follia” espunto dalle vicende e dalle politiche che hanno contrassegnato il nostro passato.
E allora? Che fare? Essere ostili al Giorno della Memoria? Qualcuno semina il dubbio, si inizia a parlare di una specifica retorica del Giorno della Memoria. E' possibile che avvenga anche un paradossale corto circuito che autorizzi a pensare – anche se ancora non si può dire - che gli unici ebrei buoni sono quelli morti. O che: adesso basta, questa storia della Shoah, degli ebrei sempre vittime, ha veramente stufato. E' possibile che sia così. E allora? Che fare? E' necessario, per interrompere questo processo, essere ostili al Giorno della Memoria?
In realtà, ben prima che venisse proposta dalla pagine dei grandi quotidiani nazionali, i primi ad avanzare delle perplessità sulla piega che hanno preso gli eventi sono stati i reduci dei campi di sterminio e coloro che, accanto a loro, in questi anni hanno raccontato con impegno e abnegazione (a volte le parole hanno ancora un loro significato) la propria vicenda personale nelle scuole. Migliaia di ragazzi, oggi, sono coinvolti in progetti sullo studio della Shoah. Fino a pochi anni fa non era così. Oggi intere scolaresche di tutta la penisola partecipano a concorsi, fanno visite a ciò che resta dei campi di sterminio, leggono, vedono film e documentari, fanno temi, rappresentazioni teatrali, cercano, studiano. Amoreggiano sui pullman che li portano in gita scolastica ad Auschwitz, prendono cantonate e dicono scemenze. A volte, come ha scritto nei giorni scorsi Alessandro Piperno sul Corriere della Sera, “c'è qualcosa di estetizzante nella commozione delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz “. Forse è vero anche questo. E allora?Che fare? Abolire il Giorno della Memoria?
Forse, timidamente, banalmente, pervicacemente ricordare cosa è accaduto quel giorno. Non un giorno qualsiasi ma proprio “quel” 27 gennaio. E il giorno prima, e il giorno dopo: questo fanno gli ex deportati e i testimoni che con i ragazzi sono andati a parlare nelle loro scuole, li hanno raggiunti, gli hanno raccontato, li hanno accompagnati nei loro viaggi nei campi di sterminio. A volte litigando con i loro insegnanti, a volte creando con i docenti rapporti che si ripropongono anno dopo anno. Si tratta spesso di incontri che non lasciano nessuno indenne e segnano l'educazione sentimentale e intellettuale di alcuni di loro: ragazzi e insegnanti.
Si tratta di ricordare, timidamente e pervicacemente, che il 27 gennaio del 1945 in Italia c'era la guerra, i bombardamenti alleati, la Repubblica di Salò, il fronte che divideva il paese in due, la fame, le rappresaglie, la lotta partigiana e antifascista e che di Auschwitz sapevano in pochi. Quello stesso 27 gennaio del 1945 in cui l'Armata Rossa, l'esercito sovietico (che a furia di dire Alleati, sembra che pure lì sono arrivati gli americani), entra in un campo di sterminio a pochi chilometri da Cracovia, in Polonia. E' Auschwitz: trovano il simbolo dello sterminio industrializzato voluto in nome della razza pura. Auschwitz era gestito da soldati competenti, ingegneri competenti, medici competenti. Un genocidio organizzato da persone competenti che hanno ucciso, in quel macello che è stata la Seconda Guerra Mondiale, sei milioni di persone perché ebree, altre perché omosessuali, zingari. Queste sono le cose che si devono ricordare. E raccontare ai ragazzi. Possibilmente senza terrore, senza paura, senza incubi la notte. Non è quello lo scopo. Ricordare ciò che è accaduto. Il suo prima, venti anni di dittatura nazi-fascista, il dopo, la liberazione il 25 aprile, il 29 aprile quando le forze tedesche in Italia si arresero incondizionatamente, il referendum istituzionale monarchia repubblica il 2 giugno, le bombe statunitensi su Hiroshima, 6 agosto, poi la seconda bomba su Nagasaki, il 9 agosto. Il venti novembre 1945 inizia il processo di Norimberga che si chiude il 30 settembre 1946. E poi la guerra fredda, la nascita dell'Onu, la nascita dello Stato d'Israele, il muro di Berlino, la decolonizzazione, e poi tutto il resto fino all'undici settembre e alla guerra in Iraq. Una data dopo l'altra. Compreso il duemila quando una legge dello Stato istituisce il 27 gennaio quale giorno della memoria. Uno Stato, si badi bene, che ha ancora pendenze in sospeso con la propria storia di quegli anni, tanto che oggi una proposta di legge di Alleanza Nazionale vuole equiparare nei benefici di legge gli ex repubblichini ai partigiani. Confondendo per legge la pietà privata per repubblichini con l'orrore per le idee per cui combattevano. Dal 27 gennaio 1945 a quello del 2006, passando per altrettanti 25 aprile.
Se oggi siamo arrivati alla retorica della Memoria, il problema è nella testa di chi lo interpreta in questo modo, per altri è una data, un'occasione offerta da un calendario civile e politico che invita alla responsabilità e alla condivisione di valori.
Ho mancato la promessa fatta a mio figlio, che avrei scritto un articolo che potessero leggere anche i bambini. Ma quando gli ho chiesto cosa avrei dovuto raccontare , ci ha pensato e mi ha risposto: “Le vicende, ma senza far venire paura”. La vicenda di allora si può raccontare oggi anche così: esistono il 27 gennaio del 2006 nel nostro paese, sessantuno anni dopo, famiglie che rimpiangono chi, in quel campo, non ha visto arrivare l'Armata Rossa.

Lia Tagliacozzo


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  27 gennaio 2006