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Maggioranza in crisi e comunicazione
di Michele Casiraghi


Ci hanno insegnato gli esperti di comunicazione, a partire da Mc Luhan, che spesso non è importante fare attenzione a quel che si dice nel corso di un processo comunicativo, ma a come lo si dice.
Insomma, all'insieme di indizi disseminati nel contesto comunicativo.

Il premier, nel dibattito al Senato che ha fatto seguito all'allontanamento di Tremonti e il weekend dei tre tavoli di confronto, ignorando persino i dati Istat resi noti in questi giorni - che segnalano l'aggravarsi dello stato di una serie di importanti indicatori economici - ha fatto un discorso rassicurante, nel quale contrasti interni alla maggioranza e contraddizioni interne al programma di governo sono pressochè scomparsi. In sostanza, però, niente di diverso rispetto al ruolo di "pubblico rassicuratore" che ha sempre ostinatamente incarnato.
Finito il discorso, si susseguono gli interventi di rappresentanti dell'opposizione e della maggioranza, più o meno pungenti o acquiescenti. Le parole che corrono appaiono - aldilà del giudizio sulla rispondenza ai fatti - appartenere al copione usuale di un confronto parlamentare.
Gli indizi cui accennavo all'inizio, però, raccontano d'altro. Quando Willer Bordon o altri attaccano duramente, il premier e il gruppo che lo circonda si distrae, parla d'altro: forse chiude   il contatto auditivo con ciò che vien detto, senz'altro manifesta disinteresse totale. Solo Gianni Letta ascolta, attento. Gli altri ostentano disinteresse e sicurezza, il che non vuol dire che li provino, anzi.
Sembrano più bambini che non voglion neppure sentir vagamente l'eco di rimproveri...
Quando parla Nania di AN, tutti costoro si zittiscono, Berlusconi lo fissa compiaciuto e fa segni di approvazione con il capo, sottolineando un discorso che, più che rispondere ai fatti del presente, è una elencazione degli errori passati dell'Ulivo che consentirebbero oggi alla casa delle Libertà di vincere il paragone nell'arte di governare. E' un elenco di indiscutibili ovvietà, ma il compiacimento del leader è talmente esagerato da far dubitare seriamente qualcosa dell'esistenza di qualcosa di psicologicamente patologico, sufficiente a rovesciare - sul piano della lettura comunicativa - quanto vorrebbero comunicare tanto l'oratore che gli ascoltatori a lui affini.
Identica situazione quando parla il rappresentante della Lega Nord, che si avventura anche in metafore di difficile comprensione per chi non conosca il repertorio padano (oppositori che inseguono come cani automobili inafferrabili).
Chiunque sia dotato di normale capacità oratorie, si dimostrerebbe quantomeno stupito: non costoro, lo spirito di appartenenza giustifica ogni recita, a quanto pare.
Ecco, però, che accade qualcosa che segna una discontinuità rivelatrice rispetto all'esternazione della dialettica maggioranza-opposizione usuale: parla D'Onofrio, UDC, maggioranza.
La prima grande discontinuità sta nel fatto, evidente, che non interloquisce prevalentemente con l'opposizione, come han fatto gli altri esponenti di maggioranza: parla al governo.
E il governo nè è talmente consapevole che, per la prima volta, gli atteggiamenti prima così divisi e caratterizzati si rimescolano: nessuno, dagli scranni governativi, guarda altrove, tutti ascoltano attentamente. Non solo, ma lo sguardo e i gesti sono straordinariamente sospesi, non di aperta ostentazione di convivialità.
L'interlocutore va ascoltato - sembrano dichiararci quegli atteggiamenti e quei gesti - perchè quel che dirà non è nè ovvio nè risaputo, soprattutto.
Che dice D'Onofrio? In sostanza, dopo una autodifesa (non richiesta) dell"onore" del partito che rappresenta (lealtà ecc.), sottolinea l'insufficienza dei tre tavoli di discussione inventati a soluzione della fase critica berlusconiana, poichè il governare riguarda ogni situazione vista nel contesto complessivo.
Il segnale è chiaro, anche se - per ora - appare altrettanto chiaro che non sono in corso scontri frontali che nessuno nella maggioranza si può permettere, ma movimenti di riassestamento delle trincee in vista di una guerra di posizione (Fino al DPEF? Fino alle prossime elezioni regionali?).
L'aula è vuota per i due terzi dei rappresentanti, se la televisione non inquadrasse quasi sempre in campo stretto il dato comunicativo che emergerebbe sarebbe quello della ritualità data per scontata dell'avvenimento in corso.
E però quello sguardo fisso e interlocutorio su D'Onofrio di coloro che dovrebbero essere i suoi soci di maggioranza la dice lunga. Sanno da dove viene il futuro pericolo, e da dove probabilmente arriveranno le scosse ulteriori, preannunciate dallo sciame sismico attuale, e che potrebbe assestare - nascoste dietro le cortine fumogene dei rituali - il colpo definitivo.
D'Onofrio compita elegantemente il suo discorso, a cavallo tra retorica del lealismo e rassicurante pragmatismo politico.
Ma c'è già una intonazione (un'aura) particolare, un tono che richiama - aldilà delle parole - le scespiriane orazioni sulle spoglie dei potenti.
E' una scena che in televisione - come fiction - non reggerebbe un minuto, ma nella fiction del parlamento può durare mesi, forse anni. Anche se l'epilogo, attraverso il percorso degli atti tradizionali che normano la suddivisione del teatro elisabettiano, traspare incombente, come il deus ex machina della scena teatrale.
E' il convitato di pietra del Don Giovanni: appena ne avrà una rassicurante opportunità, si rivelerà compiutamente.
Il padre che ha assistito sinora impotente alla messa in scena della grande illusione berlusconiana, provvederà a distruggerla.

Michele Casiraghi


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  15 luglio 2004