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Iraq: il rancio "ottimo e abbondante"
di Michele Casiraghi



Già visto
Il nostro premier, a mala pena contenendo la sua esubaranza atletico-manageriale in un giubbotto appena slacciato, si muove tra i soldati accalcati in mensa, qualcuno - forse i cuochi - in maglietta stile pizzaiolo napoletano.
"Il rancio?" Ottimo e abbondante. "I nostri soldati?". Resteranno, avanti così. Onoreremo gli impegni. Anche quando, di onore, non ne contengono una briciola, per quel che il concetto stesso di onore stesso può valere in simili circostanze...
L'Ulivo? "Doveroso viaggio, poteva farlo prima" (DS). "In questo momento, occorre massima coesione nazionale" (Rutelli).
"Una passerella elettorale" (Peccoraro Scanio). "Via subito" (Rifondazione).
Dica il lettore se c'è, in questo dialogo a distanza, qualcosa di non stereotipato e prevedibile.

Mesi fa, l'Ulivo intero rimproverava a Berlusconi di non esser ancora andato a Nassirya, in visita al contingente, così come avevano fatto altri leader. Vien da chiedersi: perchè questo rimprovero? A quale logica rispondeva? A quali rischi "politici" esponeva sia chi lo faceva che chi lo subiva?
Li capirebbe anche un bambino, ma forse questa opposizione è riuscita, contemporaneamente, a perdere l'intuitività degli adolescenti e ad acquisire la stanca stereotipicità degli adulti.

Di fronte all'incarnazione evidente di ogni stereotipo (Il rancio ottimo abbondante berlusconiano ne è l'ennesima conferma) e di ogni retorica ridotta a finzione (gli impegni da onorare, assunti in assenza di mandato costituzionale e di un contratto - e si che gli piacciono - noto solo a lui e compari)  si schierano altri stereotipi  adusti, centenari, provenienti dal gorgo limaccioso che intreccia rimasugli del "maschilismo" passato al revanscismo patriottardo. Cascami di qualcosa di putrescente, da entrambe le parti, insomma, che hanno il non sottovalutabile risultato di vellicare i lati più retrivi del senso comune, pressoché analoghi a quelli che scatenano le guerriglie allo stadio.
Perchè era così importante chiedere che Berlusconi andasse a Nassirya, a recar conforto a soldati colpiti e non colpiti? Si presumeva, forse, che non ci si sarebbe recato nel momento in cui più gli sarebbe risultato conveniente (l'approssimarsi delle elezioni?).
In fondo, la risposta più corretta e vera - stupidamente bollata come insultante - la diede proprio lui: non c'era fretta, lì operano VOLONTARI BEN PAGATI, che, infine, costituendo appunto l'esercito professionale tanto auspicato negli stati moderni, svolgono un lavoro, particolare ma pur sempre un lavoro.

Altri, semmai, le tante organizzazioni umanitarie - non difese da nessun corpo d'armata - rischiano sì la vita quotidianamente, senza non solo che nessuno - a destra e a sinistra -  le visiti, ma, spesso, anche che nessuno le nomini e ricordi, se non di fronte a tragiche morti.

L'Iraq e la ballata del soldato umanitario
Se il principio fondamentale di ogni democrazia è quello della responsabilità personale - civile, morale, professionale - degli individui che la compongono, o rinunciamo a quel principio (e non a caso lo fanno gli ordinamenti militari, rivelando appieno la loro intrinseca natura antidemocratica, in quanto hanno come presupposto la sospensione stessa della democrazia mentre proclamano di difenderla), o insistiamo perché sia connaturato e radicato in ogni istituzione e in ogni individuo.
Un cittadino occidentale, statunitense o europeo, che scelga volontariamente di partecipare a una missione - come quella irachena - che in qualche modo non rispetta la coscienza di gran parte dei suoi concittadini, non è particolarmente diverso dai volontari che si arruolavano nell'esercito imperiale fascista, pronti a correr l'avventura della guerra d'Africa. In Irak, a dispetto di ogni eufemistica formulazione politica, è in corso una guerra, si spara su civili: invece di sottolineare il rischio cui questi "soldati" si sono volontariamente esposti - molto più basso di quello di cercare di sottrarre il controllo del territorio napoletano  o siciliano a mafia e camorra - cosa che infatti nessuno fa - sarebbe opportuno abbandonare gli stereotipi, e sottolineare come le loro scelte siano, civilmente ed eticamente, inaccettabili.

Noi potremmo, forse,  quasi giustificare chi si espone al rischio di uccidere altri spinto dalla molla del bisogno - la fame, la povertà assoluta, quella stessa molla che però disconosciamo nei migranti che affollano le nostre strade anche quando vengono non a sparare, ma a mendicare!  - ma non possiamo considerarla eticamente e civilmente condivisibile quando viene assunta mentre altre scelte sono consentite. Fare il soldato, il altri termini, non è indispensabile per sopravvivere, nell'occidente opulento: sembra una scelta difficile, ma è molto più facile di quella di alzarsi il mattino alle quattro, salire su un pullmino, lavorare come manovale 12 ore e poi tornare a casa a notte, esausti....O, probabilmente, anche di quella di fare il cassiere in un supermercato, dove il fragore continuo può esser più assordante di quello delle armi, che ogni tanto, almeno, cessa....
Si dirà: e il rischio, come la metti con il rischio che i soldati assumono? Fate il conto dei morti in operazioni militari, raffrontatelo con quello dei caduti in normali operazioni di polizia, per non dire - fatte pure le dovute proporzioni percentiuali - dei caduti e dei feriti sul lavoro. Poi, SOLO POI, datevi una risposta: si tratta statisticamente di uno dei lavori più sicuri, anche se, all'apparenza, più pericolosi, e tanto più sicuri sono dato nel caso del diverso potenziale tecnologico-militare che le parti in causa esprimono di volta in volta. Non a caso, in Irak, si parla per l'ennesima volta ,di decine di migliaia di morti iracheni (soprattutto civili) e di qualche centinaio di soldati.
Di scontri nei quali cadono 10 militari e 400 iracheni...
Chi è veramente a rischio, in caso di conflitto? E chi è veramente a rischio in caso di terrorismo? Non gli statisti, non i politici, che, altrimenti, sarebbero assai più cauti:  rischiano i comuni cittadini, nelle Twin Towers come ad Atocha come per le strade irachene.

Ma fai, ci sei o ci fai?
Il conflitto politico di casa nostra, se resta nei termini che ho ricordato all'inizio, diventa la grottesca parodia di qualcosa che già di per sé ha abbondanti elementi di grottesco, abbondanti come il rancio, appunto.
Al tutto, si aggiungono le chicche, ciliegine sulla torta Saint Stereotype. Si indigna, dalle pagine di un settimanale modaiolo, la Mafai: non paragoniamo, per carità, combattenti arabi iracheni e resistenti italiani o vietnamiti. I vietnamiti perchè, com'è risaputo, non volevano imporre alcunchè a noi (sarà stato anche per la distanza geografica), i resistenti perché il tasso di nobiltà etico- civile è altro.

Io non so come si possano e debbano definire coloro che oggi, in Irak, si oppongono a quella che è, chiaramente, una occupazione, dei cui motivi si potrebbe discutere all'infinito senza che la sostanza cambi.
So che, anche in questo caso, è in funzione uno stereotipo (commentatorio e descrittivo, non analitico) che, appunto, trascura l'analisi storica delle esperienze citate. Se l'Iraq possa o non possa esser un nuovo Vietnam, si vedrà: il tema è più materia per esercitazioni da talk show che di analisi.
Certo è che, aldilà delle dimensioni militari e dei possibili specifici paragoni, il processo in atto ha tutte le caratteristiche di altre operazioni coloniali: invasione militare per enunciate nobili ragioni, tentativo di costituzione di un governo accondiscendente con l'occupante prima che rappresentativo della gran parte della realtà locale, ricostruzione affidata a partners selezionati in basi a particolari affinità elettive (ideologiche ed economiche), imposizione di usi e costumi propri, allestimento frettoloso di armi mediatiche di propaganda (le tv, le radio in lingua ma di matrice Usa), ecc. ecc..

La costruzione del "diverso" (come serve a noi..)
Ci si stupisce che, localmente, ci si opponga a questo disegno? Sembrerebbe di sì, se nel giro di un anno a questa opposizione sono state di volta in volta appiccicate etichette diverse: i feddayn di Saddam, gli irriducibili, i siriani infiltrati, i tentacoli di Al Quaeda, gli sciti autoflagellanti di Najaf e Kerbala, che ci vengon mostrati in televisone ogni tre per due, forse per soppiantare in palinsesto gli analoghi rituali di tanti paesi cristiani del mondo e del nostro sud.
Materia per talk show, appunto, non analisi, poiché l'analisi razionale presupporrebbe di assumere il punto di vista dell'altro indipendentemente dal fatto di condividerlo, ma come parte del "gioco" - anche tragico - che si è avviato. L'altro, è da presupporre, non cercherà di fare ciò che a noi conviene, ma ciò che trova "conveniente" per sé. Per questo è più comodo costruirne uno stereotipo,  configurarlo a nostro piacimento per come ci serve (a Nassirja, ad esempio, poichè "l'italiano brava gente" non spara sugli inermi, se sono caduti civili è solo perchè gli invasati sciti mandavano avanti alle loro fila donne e bambini, quasi che ai loro figli non tenessero per nulla, madri e padri snaturati... E pratichiamo questi stereotipi mentre l'Armadio  della vergogna - chiuso gelosamente dalle sacre e patrie massime istituzioni sino a qualche anno fa -  rivela che aguzzini degli ebrei e dei partigiani furono diversi italiani, assieme ai nazisti!).
Io non so, onestamente, se a questo punto c'è da augurarsi che così sia effettivamente, e dunque se sia meglio aver a che fare con masse invasate di resistenti (all'occupazione)  o con eserciti guerriglieri razionali.

So che una analogia con i processi che accompagnano la riconquista dell'indipendenza e dell'autonomia di una paese dopo una invasione sono evidenti, a volerli guardare: gli occupanti trattano una tregua a Falluja (lo fanno per il tramite del governo da loro costruito, e dunque,  con questo, entrambi concedono ai "terroristi" un primo riconoscimento di controparte militare e politica); il governo locale (Quisling?) reinventato dagli Usa scricchiola, sottoposto a tensioni che, di qui a qualche tempo, saranno presumibilmente ancora più  forti, sino ad esplodere quando, prima o poi, il passaggio dei poteri dovrà realmente e non solo simbolicamente avvenire.
Già sepolti da un cumulo di menzogne prima che l'avventura irachena scattasse, ci troviamo ora avviluppati anche in un cumulo di banalità e stereotipi appartenenti ad ogni retorica coloniale e patriottarda, senza che i politici che ci rappresentano sappiano districarsene meglio di quanto faccia l'uomo della strada.

Da tutto ciò, si può trarre una conclusione evidente: l'avvenire non di questa o di quella civiltà, ma dell'umana convivenza sta covando allegramente, accudendola con un falso razionalismo fatto di luoghi comuni, di pseudomachiavellismi e di tutto il repertorio peggiore della cultura "occidentale", il cancro dello scontro delle diversità.
Forse, da entrambi i fronti, per qualcuno la crescita di questo male incurabile è addirittura un non sempre dichiarabile progetto:
certo è non sarà l'Occidente a guadagnarne, e forse dovrà esser proprio un nuovo Vietnam - con le sue specificità e diversità - a far sì che ce ne si renda conto, a prezzo di lacrime e di sangue, anche nel suk dei nostri supermercati e delle nostre piazze.
Sono state distrutte vite e bellezze archeologiche che stanno alle origini del nostro stesso divenire: che avremo di razionale da opporre, se accadesse l'inverso? La forza? E quando non basterà più?

Michele Casiraghi


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  13 aprile 2004