Lo stato della Giustizia
secondo Piercamillo Davigo
di Giorgio Casera
Giustizia malata, giustizia in crisi, giustizia in conflitto con il potere politico in perenne ricerca di immunità (o di impunità). Il tema è continuamente riproposto all'opinione pubblica dai media in occasione di eventi istituzionali (come l'inaugurazione dell'anno giudiziario) e per gli attacchi che i politici, generalmente di centrodestra e in particolare le componenti più radicali, FI e Lega) rivolgono alla magistratura quando questa emette pronunciamenti sgraditi.
Ormai non si salva più nessuno: anche la Corte Costituzionale è diventata bersaglio fisso, colpevole di non avere riguardo per le leggi che il Parlamento predispone a favore della persona e degli affari dell'attuale capo del governo.
Il tema è dunque costantemente caldo e non deve perciò stupire il grande successo di pubblico (e di critica, come diremo poi) che ha caratterizzato la conferenza-dibattito svoltasi giovedì 29 gennaio presso la Casa della Cultura di Monza e che ha avuto come protagonista Piercamillo Davigo. La conferenza è stata organizzata dall'Associazione Monza per l'Ulivo nell'ambito della sua attività volta ad informare i cittadini sulle vicende (critiche) della nostra vita democratica.
L'introduzione è stata perciò fatta da Pippo Biassoni, dell'associazione, che ha espresso forti critiche nei confronti dell'attuale governo per la crisi di legalità che ha diffuso con la legislazione tesa a salvaguardare interessi particolari, in poche parole conforme all'ideologia di sfascismo che caratterizza l'intera gestione della cosa pubblica (dalla scuola alla cultura) in questa fase.
Davigo ha affrontato il tema della giustizia da una prospettiva più generale e da tecnico che opera nel settore da più di vent'anni, fornendo le cifre necessarie a supporto delle sue argomentazioni. Dopo aver premesso che i guasti al sistema giustizia sono stati prodotti da governi di qualsiasi colore (ha sottolineato anzi che alcune misure organizzative approvate dai governi di centrosinistra hanno avuto paradossalmente gli effetti più deleteri in quanto molte leggi ad personam, volute dall'attuale governo, sono poi risultate inefficienti in quanto bocciate dalla Corte Costituzionale o dalle normative internazionali), è entrato nel vivo del discorso affermando che il problema principale è la durata dei processi, e questa è conseguenza del loro numero: si forma un vero e proprio ingorgo.
Ricordando la cifre presentate dai Procuratori Generali in occasione dell'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario (milioni di cause in corso sia nel civile che nel penale) ha stimato che nel solo civile, tra parti in causa e testimoni, è coinvolto un numero di persone pari ai 2/3 della popolazione italiana.
Sono milioni le cause pendenti (cioè che ereditiamo dagli anni precedenti) ma milioni anche quelle sopravvenenti (cioè che nascono nel corso dell'anno).
Davigo spiega il fenomeno (abnorme rispetto agli altri paesi europei) con tre cause:
- la tendenza al contenzioso degli italiani (sarà nel nostro DNA?)
- la legislazione che in alcuni casi rende conveniente andare in giudizio (società di assicurazione che evitano di risarcire subito i danneggiati fidando sulla lunghezza dei processi e sugli interessi legali bassi rispetto a quelli correnti)
- esistenza di certe peculiarità italiane, come
- crimine organizzato
- periodici segnali di lassismo (amnistie, condoni e simili delinquere conviene!). Esiste ad esempio la proposta di depenalizzare il reato di bancarotta fraudolenta portando il massimo della pena a 3 anni (ora è di 10 e con particolari aggravanti 15). Nel contempo la massima condanna per scippo può essere di 6 anni!
- il fatto che delinquano anche e forse soprattutto i ricchi e i potenti. Davigo cita il caso di Claudio Fanchin, un consigliere provinciale di FI condannato a due anni per tentata concussione. Alla richiesta del prefetto di farlo decadere dal Consiglio la maggioranza di centrodestra ha motivato la risposta negativa perché non ha concusso nessuno: ci ha solo provato. Insomma, siccome non ce l'ha fatta a prendere i soldi, diamogli un'altra possibilità!
La parte centrale della conferenza è stata dedicata all'argomento probabilmente più atteso dall'uditorio, e cioè la progettata riforma della magistratura secondo il disegno di legge presentato dal centrodestra. Davigo ne ha delineato gli aspetti che, con la quasi totalità dei magistrati, ritiene estremamente gravi:
- divieto per i magistrati di partecipare a manifestazioni di carattere anche vagamente politico (se la legge fosse già in vigore Davigo non potrebbe presenziare ad una manifestazione come quella di stasera);
- possibilità di essere ricusato se ha espresso in qualche occasione un preciso orientamento politico, religioso o etico (dunque un imputato musulmano potrebbe ricusare un giudice cattolico o viceversa!)
- emanare sentenze sempre ed esclusivamente secondo la lettera della legge (basterebbero dei giudici-automi; non si accettano interpretazioni sullo spirito della legge);
- ogni passaggio di carriera avviene attraverso concorsi e non più per titoli (Davigo ha calcolato che nel suo caso avrebbe dovuto sostenere 8 concorsi), quindi più tempo per studiare e meno da dedicare ai processi.
Valuta con un certo distacco la possibilità che la legge venga approvata. Ha fiducia nel seguente paradosso: in una società esiste un certo numero di ladri e di derubati: non può essere che i ladri siano più dei derubati. Quindi i derubati possono come maggioranza introdurre regole contro il furto. E' vero che qualcuno dei derubati può essere ingannato (e quindi votare per i ladri) ma, potete ingannare una persona per sempre oppure tante persone per un certo tempo, ma non potete ingannare tutti per sempre come ha detto Abramo Lincoln.
Tornando al problema principale (durata e numero dei processi), Davigo ha esposto alcune ipotesi di soluzione per la riduzione del contenzioso. Una è quella di modificare la legislazione per rendere
non conveniente il ricorso alla giustizia. Ha detto però che a questa misura si oppone la lobby degli avvocati che hanno tutto da guadagnare dai volumi di contenzioso.
(In Italia gli avvocati sono 150.000, e tutti debbono vivere; in Giappone sono 20.000...)
Durante la sessione di domande e risposte, che si è aperta alla fine della sua esposizione, Davigo ha avuto modo di dire che ha rivestito tutti i ruoli del processo (giudice, pubblico ministero, teste nelle cause di diffamazione da lui intentate e vinte, ma anche imputato, sempre assolto, per denunce intentategli da accusati eccellenti).
Ma ha destato la maggiore impressione nell'uditorio in questa fase l'accorato intervento di un giudice del tribunale di Monza che ha denunciato gli ostacoli all'esercizio della giustizia dovuto alla mancanza di fondi per la normale attività (cancelleria, supporti eccetera), il continuo essere accusati dai politici di essere asserviti alla sinistra. Del rischio di diventare cittadini di seconda classe non potendo più godere del diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. Di essere richiesti di soddisfare parametri di produttività (tante sentenze in tanto tempo) che non hanno senso per la materia trattata e che rischiano di portare ad una pericolosa superficialità nei giudizi. Ma anche in una situazione così difficile sente la consapevolezza di ricoprire un ruolo di garanzia che i giudici debbono e vogliono continuare ad esercitare nella società di oggi. Specie se non saranno lasciati soli dall'opinione pubblica.
Conclusione. Davigo è un oratore brillante, usa ironia e paradossi per rafforzare i concetti, fa frequenti citazioni (Calamandrei, Adam Smith): è un piacere ascoltarlo.
Ma non è solo per questo che ha ricevuto frequenti e calorosi applausi a scena aperta.
Giorgio Casera
2 febbraio 2004