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La giustizia in Italia
di Vittorio Amodeo


E' opinione largamente condivisa che il funzionamento della giustizia in Italia sia del tutto inadeguato a una nazione sviluppata, quale ci facciamo vanto di essere. Sono numerosi e continui i richiami della Corte di giustizia del Lussemburgo per i tempi inaccettabilmente lunghi dei processi, e i conseguenti ritardi nell'emanazione delle sentenze. Oltre ai costi sociali che questi ritardi comportano, vi sono anche i costi per l'erario, e quindi per la collettività, causati dagli indennizzi che sempre più spesso i tribunali sono costretti a riconoscere ai cittadini danneggiati dalle lungaggini giudiziarie.
In un'azienda, in una comunità, quando un settore o un servizio non funziona, è buona norma sentire per prima cosa gli addetti, i diretti responsabili, affinché spieghino loro i motivi del disservizio e, magari, propongano i rimedi che giudicano adeguati. In genere chi è dentro all'ufficio sa bene quali sono gli intralci che ne minano il funzionamento, e sa anche proporre gli aggiustamenti idonei. Risultati molto buoni si possono ottenere ascoltando gli addetti e, in modo giudizioso, ovviando agli intoppi che vengono denunciati.
Niente di simile con la giustizia in Italia. I magistrati, che sono i più diretti implicati nel funzionamento della macchina giudiziaria, non solo non vengono sollecitati a proporre rimedi ma, se per caso si azzardano ad avanzare proposte, vengono ignorati o addirittura zittiti. Da noi solo il legislatore, il parlamento, è autorizzato a dare le ricette per la “buona giustizia”, quasi fosse l'Illuminato solo depositario della verità. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e dovrebbero costituire motivi di vergogna per parlamento e parlamentari.
C'è chi spiega che, dai tempi dell'Unità d'Italia, il nostro sistema di leggi è stato pensato per proteggere i benestanti e scoraggiare i poveracci dall'avanzare pretese di giustizia: dunque il procedimento deve essere lungo, tortuoso, defatigante tanto da consigliare alla rinuncia. Da allora non sembra che si sia progredito molto sulla via della chiarezza, snellezza, univocità di lettura. Bisogna anzi dire che il codice Rocco, pur con le storture proprie di un'età dittatoriale, appare ben più leggibile di tante leggi sfornate al giorno d'oggi.
Come protezione dei benestanti, la giustizia aveva inevitabilmente la mano pesante verso gli scioperanti, i rivoltosi che costituivano la sinistra politica nell'Italia della fine '800 o inizio '900. Forse per questo può essere rimasta, nella parte meno moderna e avvertita della nostra sinistra, una sorta di “memoria storica” avversa, o per lo meno tiepida, verso la giustizia, la magistratura e i loro problemi. Dico sinistra meno avvertita, perché non c'è dubbia che una sinistra moderna comprende in pieno l'importanza, per la società, di una giustizia efficiente e funzionante: non solo per l'equità sociale, ma anche se si limita l'esame al solo campo economico, dove la micro-criminalità del pizzo e quella macro della corruzione negli appalti si traduce in una pesante tassa sulla collettività.
Qualcosa, occorre dire, s'è fatto: il giudice di pace, il giudice unico, sono innovazioni utili, che hanno richiesto ben lunga gestazione. Ma le richieste dei magistrati per i necessari miglioramenti vengono disattese e lesinati i finanziamenti. Come ha messo in evidenza Giacomo Correale su questo giornale, Polo e Ulivo – pressoché divisi su tutto – si sono trovati singolarmente uniti nel rendere più complesso e “garantista” il processo giudiziario in Italia.
Quelle che erano un tempo difese dei benestanti si sono gradualmente convertite in difese del potere, cioè dei politici. Con il termine di “giusto processo” si copre – come denunciato da Borrelli – la possibilità di introdurre cavilli che rimandano a tempi indefiniti i processi. “Garantismo” è divenuto parola cara ai politici sia a destra sia a sinistra, mentre chi nella società vorrebbe semplicemente una giustizia efficiente, eguale per tutti e in tempi ragionevoli, viene bollato come “giustizialista”, dunque giacobino e massimalista.
Ci può essere una ragione sociologica in questo orientamento: nel nostro parlamento siedono molti, direi moltissimi, avvocati. Relativamente pochi i magistrati, o meglio ex-magistrati poiché, per sedere in parlamento, devono lasciare la toga che – credo – non riprenderanno. Al contrario, per gli avvocati non esiste incompatibilità, e moltissimi di loro fanno la doppia professione: parlamentari eletti a difesa dei cittadini e dello stato, e insieme avvocati difensori di mafiosi e farabutti che lo stato danneggiano in ogni modo possibile.
Pur essendo le diarie parlamentari tutt'altro che trascurabili, le parcelle che un avvocato-parlamentare può riscuotere per qualche noto politico incriminato oppure per un boss mafioso sono di vari ordini di grandezza superiori. Ma perché rendano al meglio occorre: che le leggi siano intricate; che i processi siano lunghi; che si possano usare cavilli d'ogni sorta; infine che tutto il processo sia improntato a criteri “garantisti” per assicurare con successo la difesa dell'ambito cliente.
Credo che la sinistra dell'Ulivo debba ribellarsi a questo stato di cose, cessare la politica accomodante sin qui seguita, dare infine ai magistrati il sostegno ch'essi meritano, ascoltando così la voce della società, dei cittadini, dei movimenti che vogliono infine una giustizia a livello europeo e non da terzo mondo.

Vittorio Amodeo

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  4 dicembre 2002