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Agosto 1946

Carlo Arcari
August 22, 2004 11:08 PM


La sbiadita lunetta posta sopra il portale della chiesa di Villapizzone mi colpì come un fulmine temporale in mezzo alla fronte. Era la prima immagine dipinta che i miei occhi avevano registrato quando avevo forse quattro-cinque anni e mia nonna Maria mi portò per la prima volta in chiesa. Era un'immagine potente, facile da ricordare: San Martino a cavallo con una spada in mano che tagliava un lembo del suo rosso e prezioso mantello per offrirlo ad un povero semisdraiato nella neve di un antico, crudele inverno.
La chiesa era sicuramente questa, pensai rinfrancato. L'avevo prima cercata, sbagliando, in via Mach Mahon e senza le indicazioni del suo parroco non l'avrei certo rintracciata, seminascosta com'era nell'angolo della piazzetta di quello che un tempo era un villaggio agricolo, sulla quale si affacciava il grande fabbricato della consunta villa di campagna dei Radice Fossati.
Erano passati quasi quarant'anni da allora e tornavo a Villapizzone perché avevo bisogno del mio certificato di battesimo; stavo per sposarmi (per la prima volta) in chiesa con la mia seconda moglie e contavo di trovarlo negli archivi della parrocchia dove mi avevano battezzato nell' agosto del '46. Col nome di mio nonno, Carlo, e anche con il suo cognome, Facinelli, perché mia madre non era sposata e mio padre non mi aveva ancora riconosciuto. Lo avrebbe fatto due mesi dopo sposando lei e dando il suo cognome a me, togliendomi dall'elenco affollato dei figli "di enne enne".
Oggi non costituirebbe motivo di scandalo, allora però era diverso. Nessuno in famiglia mi raccontò mai niente per più di vent'anni, ma mio padre quello scomodo figlio "di enne enne" se lo ritrovò tra i piedi diverse volte. Me lo confessò quando io scoprii da solo la verità, la prima volta che dovetti chiedere il mio certificato originale di nascita e l'impiegata dell'anagrafe di Milano non lo trovò. Alle mie insistenze, dopo diversi conciliaboli tra impiegati, l'anziano capufficio mi chiese gentilmente il cognome di mia madre e tornò con un documento sul quale io comparivo come Carlo Facinelli.
Tornato a casa chiesi lumi a mio padre che imbarazzatissimo cominciò a dire: "Sai… era appena finita la guerra… eravamo giovani, poveri, senza casa" e mi raccontò alcune storielle legate alla mia scomoda identità. La più penosa, ma anche buffa, era quella che capitò in occasione della mia prima comunione. Serviva il certificato di battesimo, mio padre andò dal parroco di Villapizzone per farselo dare e quello gli consegnò ìl certificato di battesimo di Carlo Facinelli. Mio padre gli chiese di cambiare il cognome in Arcari dal momento che il matrimonio e il riconoscimento erano avvenuti due mesi dopo la mia nascita, ma il prevosto non era d'accordo. Cominciarono a litigare e poi volarono dei cazzotti. Insomma dovette intervenire monsignore il parroco di San Sempliciano, la parrocchia di mio padre, che era introdotto in Curia e finalmente la cosa venne aggiustata.
Entrando nella chiesetta e passando sotto l'immagine amica di San Martino, dissi scherzando alla mia futura moglie alla quale avevo raccontato già tutto "Chissà se il vecchio prete è ancora vivo?". Naturalmente era ancora lì, sordo come una campana, sottile come carta velina e quasi novantenne, ma indomito. Per evitare equivoci e possibili antipatici ricordi gli chiesi subito il certificato di battesimo di Carlo Facinelli. Ci portò in sagrestia e sfogliando un librone cominciò a cercare la registrazione mentre io sotto gli occhi divertiti della mia fidanzata cominciavo visibilmente a innervosirmi. Finalmente il sant'uomo si girò e togliendosi gli occhiali mi chiese "Ma lei è proprio sicuro di chiamarsi Carlo?". Trattenni il fiato "Perché io qui ho segnato una Facinelli Carla non Carlo. E lei a occhio e croce non mi sembra una donna. Guardi pure, c'è scritto Carla". Ed era vero, c'era scritto a matita, ma chiaramente "Facinelli Carla, di Facinelli Rosina e di enne enne". Sorrisi a labbra strette e cominciai a balbettare "Ma … cosa vuole... era appena finita la guerra… mi sembra un evidente errore di scrittura , un piccolo sbaglio…" mentre tiravo fuori di tasca la mia carta di identità.
"Niente errori, questo l'ho scritto io e io non mi sbaglio mai. Lei piuttosto mi spieghi come ha fatto a diventare Carlo" rispose il prete ignorando i miei squallidi documenti. Cominciai a capire perché mio padre l'aveva preso a pugni, ma io non potevo fare altrettanto. Era così fragile e leggero che la cosa era fuori questione. Con santa pazienza ricominciai a dire che si, certo, nessuno sbaglio, ma insomma io ero inequivocabilmente Carlo e non Carla e che non potevano esserci dubbi in proposito. Intervenne anche Isabella, con mio grande imbarazzo, ma niente. Il vecchio parroco tenne duro ancora un bel po' e io mi ero quasi rassegnato a tornare quando c'era il coadiutore, poi mentre stavo per andare via,di colpo cambiò idea e disse "Va bene, scriverò Carlo, ma la responsabilità è tutta sua, io non voglio storie". E mi scrisse il certificato.
Uscendo dalla penombra della chiesa nella piazzetta piena di sole alzai gli occhi alla lunetta sopra la porta e ringraziai mentalmente San Martino di avermi fatto la grazia.