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i bei momenti


comignoli
La chiesa dei SS. Eusebio e Vittore, a Peglio, sullo sfondo del Lario


Alto Lario
nei paesi dell'emigrazione “al contrario”

di Toti Iannazzo


E' un fatto poco noto, specie lontano dai paesi che ne furono coinvolti, ma è significativamente chiamato “emigrazione al contrario”. E tale in effetti è, almeno per noi che da secoli conosciamo flussi migrativi sempre e solo dal sud verso il nord della nostra penisola.
L'emigrazione ebbe luogo dalla metà del 1500 fino al 1800 inoltrato. Non fu dunque fenomeno effimero: durò quasi tre secoli. E coinvolse alcune migliaia di persone, forse qualche decina di migliaia, anche se i numeri precisi non vengono citati. Ad emigrare, in tempi nei quali le donne erano rigorosamente dedicate alla cura dei figli e dei vecchi, erano sopratutto gli uomini. Si trattenevano al sud dai cinque ai dieci anni, quanti ne servivano per raggranellare un congruo gruzzolo e tornavano generalmente ai loro paesi.
Venivano dai paesi delle colline a nord-ovest del Lago di Como; dalla zona di Dongo: Stazzona, Brenzio, Germasino, Garzeno; dalla zona di Gravedona: Peglio, Livo, Dosso del Liro; dalla zona di Domaso: Vercana, Montemezzo, Gera Lario, Sorico. E anche da più a nord: Chiavenna e Piuro. Paesi poveri, difficilmente raggiungibili sopratutto a quei tempi, ed anche oggi fuori dalle rotte turistiche che fanno ricche le coste del lago.
A quei tempi sia il Ducato di Milano che la Sicilia – nonché molte altre terre d'Italia – erano sotto il dominio spagnolo. Dominio pesante: la Spagna, allora prima potenza militare in Europa e sempre impegnata in costosi conflitti, usava i suoi possedimenti come mucche da mungere, vessandone i cittadini con ogni genere di gabelle e tributi. Per non parlare poi dei pesanti interventi dell'Inquisizione, usata non solo a sostegno di un folle fanatismo cattolico (erano i tempi della Controriforma anti protestantesimo), ma spesso come mezzo ulteriore di confisca di beni, e spesso anche per esercitare vendette politiche o personali. Da questi punti di vista gli abitanti del Ducato di Milano non erano trattati diversamente dai siciliani o dai sardi o di altre zone della penisola.
Perché dunque gli abitanti dei paesi dell'Alto Lario trovarono conveniente trasferirsi in Sicilia?
Contribuì certamente il fatto che Palermo era città importante, dal passato culturalmente nobile – pochi secoli prima sotto il regno illuminato di Federico II di Svevia era stata culla della Scuola Siciliana, che produsse i primi esempi di letteratura italiana – ma c'erano altri fattori che favorivano in quel momento un tumultuoso sviluppo sociale. Era in corso a quei tempi la colonizzazione di grandi proprietà terriere, che le classi dominanti acquisivano e sviluppavano, con l'intento di trasformarle da zone abbandonate a luoghi di produzione di reddito. Verso le zone rurali si trasferivano dalle città i ceti più poveri, che diventavano manodopera a basso costo per la loro coltivazione. Le classi più abbienti rimanevano invece nelle città, che provvedevano a rendere più belle e più comode, favorite in questo da amministrazioni comunali, a quei tempi, efficienti e ben organizzate. Fu in questi anni che Palermo si abbellì notevolmente, con la costruzione di vie eleganti come le vie Maqueda e Toledo (ora Corso Vittorio Emanuele), costeggiate da magnifici palazzi nobiliari, e arricchite di statue e monumenti di ottima fattura.
Circolavano, insomma – malgrado l'avidità delle autorità spagnole – molti soldi. E c'era bisogno di bravi artigiani, in tutti i settori della vita civile, che sostenessero la crescita.
Così le laboriose genti dell'Alto Lario trovarono conveniente abbandonare, anche se temporaneamente, i loro poveri paesi, per trasferirsi a Palermo ed in altre città siciliane. Se non lo erano già, si trasformarono in commercianti, fornai, tavernieri, osti, scalpellini, bottegai, orefici, stagnini, pescatori, marinai. Insomma una miriade di professioni indispensabili in una città in espansione. Ed in poco tempo riuscirono a diventare benestanti. E cominciarono le rimesse verso le famiglie, come avviene sempre per tutti gli emigranti; poi, con l'aumentare del benessere, si organizzarono in comunità, dette Scholae Panormi, una per ogni paese di provenienza, e cominciarono a tassarsi, ognuno proporzionalmente al suo reddito, per contribuire all'abbellimento dei paesi in cui erano nati. Destinazione di gran lunga preferita delle somme raccolte furono le chiese altolariane, che si dotarono così di cappelle, quadri, affreschi, statue, organi, reliquiari e arredi di ogni genere. E le iscrizioni spesso lo ricordano.
Tra queste chiese si distingue, per quantità dei contributi e per ricchezza degli abbellimenti, quella dedicata ai SS. Eusebio e Vittore, a Peglio, cui conduce una tortuosissima strada che inizia a Gravedona. Dai 200 m. del lago si sale ai circa 600m. di Peglio, dove, alle porte del paese, ci attende la chiesa, una delle sempre più rare chiese “ch'erbose hanno le soglie”.
Il panorama spazia dalla sottostante Gravedona fino al promontorio di Bellagio e all'inizio dei due rami di Lecco e Como. Purtroppo visitare la chiesa non è facile: è quasi sempre chiusa, e sono necessari numerosi tentativi e laboriosi appuntamenti. Ma quando ci si riesce la fatica viene ricompensata.

Peglio, portico della chiesa portico, verso il lago
  Peglio, portico della chiesa - Scorcio del portico verso il lago - foto di Toti Iannazzo

Varcata la soglia ci si rende subito conto che non siamo nella chiesa di campagna che il modesto aspetto esterno ci aveva fatto sospettare: ricchi gli addobbi, ma sopratutto numerosi gli affreschi, generalmente in buono stato di conservazione, che ci appaiono, sia nelle otto cappelle laterali che nel presbiterio. I più pregevoli sono di Giovan Mauro della Rovere, milanese ma di padre fiammingo, detto perciò il Fiammenghino, molto attivo nel milanese, ma sopratutto nelle parrocchiali dell'alto Lario nel primo quarto del 1600. Gli affreschi di Peglio furono eseguiti tra il 1615 ed il 1625. (Il Fiammenghino degli affreschi di Peglio non va confuso con un suo fratello, Giovan Battista, anch'egli pittore, che ha lo stesso soprannome).

Peglio, interno della chiesa dei SS. Eusebio e Vittore

Peglio, interno della chiesa dei SS. Eusebio e Vittore

Gli affreschi del presbiterio sono tra i più famosi del Fiammenghino. La grande quantità di personaggi e di storie che vi sono raffigurate, la vivezza dei colori, la complessità delle scene ed il loro intersecarsi, la sicurezza del tratto, la fantasia creativa, sono i pregi migliori, e richiamano quadri di pittori ben più famosi (ad esempio Hieronymus Bosch).
Nel Giudizio Universale, sulla parete sinistra del presbiterio, la figura di Cristo giudice, affiancato dalla Madonna e da san Giovanni, dietro i quali si affollano le schiere dei beati, domina la parte centrale alta della scena; mentre in basso a sinistra la resurrezione è illustrata nelle sue fasi, dallo scheletro fino alla figura umana completa; sopra questa scena la schiera dei risorti si avvia verso il Paradiso, seguita dall'Arcangelo Michele. Sulla destra invece i demoni costringono a sbarcare i dannati dentro la bocca di un orribile mostro, o li avviano all'interno di una fortificazione, dietro la quale si levano alte le fiamme dell'inferno.
Di fronte al Giudizio Universale c'è l'altro affresco, l'Inferno e il Purgatorio, anch'esso affollato di figure ed eventi. Predominano, come del resto nell'altro affresco, le scene drammatiche delle anime dannate, sottoposte a terribili torture da instancabili diavoli, raffigurati da esseri dalle sembianze belluine. In alto a sinistra le anime si purgano, mentre nel cielo gli angeli accompagnano verso l'alto le anime redente.

Il Giudizio Universale Inferno e Purgatorio
  Il Giudizio Universale, Inferno e Purgatorio - particolari

Numerosi sono gli altri affreschi che adornano la chiesa, sia dello stesso Fiammenghino che di altri dignitosi pittori, tutti attivi nella zona prima e dopo il Fiammenghino, come ad esempio il bolognese Giovanni Luigi Valesio ed il fiammingo Luigi Gentile. Di quest'ultimo, in particolare, si segnala l'affresco Santa Rosalia intercede per la peste, nella cappella dedicata a questa Santa.
E qui si apre un altro capitolo strettamente legato al tema di cui ci occupiamo, e cioè l'emigrazione degli altolariani in Sicilia. Santa Rosalia è infatti la patrona di Palermo, dove è venerata ancora ai nostri tempi con una festa di cinque giorni ('U fistinu') che si conclude il 15 luglio. Fu eletta patrona di Palermo nel 1625, dopo che, l'anno precedente, la Santa era apparsa ad un giovane, rivelandogli il posto dove si trovavano le proprie spoglie, una grotta sul Monte Pellegrino ancora oggi meta delle visite dei fedeli. Alcune reliquie vi furono in effetti trovate, e quando furono portate, proprio il 15 luglio 1625, in una solenne processione chiesta dalla stessa Santa durante l'apparizione, la peste che da alcuni anni affliggeva la città cessò in pochi giorni. Si dette il caso che negli stessi anni la peste (quella descritta dal Manzoni ne I promessi sposi) infuriasse anche in Lombardia e nelle zone dell'Alto Lario. Fu così che, attraverso i suoi emigranti, l'Alto Lario accettò il culto della Santa, venerata quale rimedio sicuro contro la peste. E sembra che nei paesi dell'Alto Lario, i genitori alle loro figlie abbiano spesso dato e continuino a dare il nome della Santa. Il suo culto è poi testimoniato da cappelle, busti, dipinti, monili legati a Santa Rosalia. Nella cappella a lei dedicata nella chiesa di Peglio si conserva, proveniente da Palermo, un busto-reliquario contenente un frammento osseo della Santa; ed analoghe reliquie sono conservate in molte altre chiese della zona, come a Dosso del Liro, Vercana, Montemezzo, Livo, Germasino, Brenzio, Càino, Trezzone.

A Livo, a qualche chilometro da Peglio, nella chiesa di San Giacomo “nuova” – per distinguerla da San Giacomo “vecchia” di cui parleremo fra poco – si conserva un grande quadro ad olio, 3m.x2m, opera del monrealese (da Monreale, vicino Palermo) Pietro Novelli, raffigurante Santa Rosalia che, assieme alla Madonna, intercede contro la peste che attanaglia la città. Anche questa tela, naturalmente, è arrivata da Palermo grazie ai finanziamenti della Schola Panormi. Chi è stato in quei posti può riconoscere nella parte bassa del dipinto il porto e la città di Palermo, e nello sfondo la sagoma del Monte Pellegrino, dov'è la grotta della Santa.

Livo, chiesa di San Giacomo Nuova Tela di Pietro Novelli
  Livo, chiesa di San Giacomo Nuova - tela di Pietro Novelli - foto Toti Iannazzo

A Livo ogni anno, la prima domenica di maggio, un busto raffigurante Santa Rosalia viene portato in processione dalla chiesa di San Giacomo vecchia, nel cimitero a circa un chilometro dal paese, sino a San Giacomo nuova, dentro il paese, dove rimane fino alla fine della festa, quando viene riportata, sempre in processione, alla sua sede abituale. San Giacomo vecchia, per inciso, è un'interessantissima chiesa, non solo per la struttura ad “archi traversi” ed il bel campanile, ma sopratutto per la ricca dotazione di bellissimi affreschi, sia nel pronao che nel decoratissimo interno.

Livo, San Giacomo Vecchia, esterno Livo, San Giacomo Vecchia, interno
  Livo, San Giacomo Vecchia, esterno e interno

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  1 febbraio 2011