Carloforte
a cura di Roberto De Marchi
La vita non è facile in un'isola che è confine tra due Mondi, due Religioni, due Civiltà; tuttavia la Comunità pegliese che vi si trasferisce cresce e prospera conservando la propria identità ed al tempo stesso integrando nuove esperienze e conoscenze. Nel 1541 i tabarkini sono circa 1.000. Lo sviluppo della pesca e del commercio del corallo procura enormi guadagni alla famiglia Lomellini, che in parte li utilizza per le proprie ville e i propri palazzi in città e per la ricostruzione della grande chiesa dell'Annunziata del Guastato. Poi, come accade ancor oggi con certi pescecani dell'industria, la famiglia Lomellini, di fronte a mutate condizioni economiche del mercato, abbandona l'isola e la colonia genovese, e cerca di cedere la concessione alla Compagnia Francese d'Africa. Il Bey di Tunisi, venuto a conoscenza delle trattative segrete tra Giacomo Lomellini e la Compagnia, occupa Tabarca con 3.000 uomini e riduce in schiavitù più di 900 tabarkini. La leggenda vuole che il Bey di Tunisi rimanesse un giorno folgorato dalla bellezza di una fanciulla tabarkina e costei accettasse di diventare la favorita del Dignitario in cambio della libertà per i propri concittadini. La storia invece, meno affascinante delle favole, riconosce il merito della liberazione della comunità genovese a Carlo Emanuele III di Savoia che, avendo deciso di colonizzare l'isola di S.Pietro, sulle coste sarde, convinse il Sultano a trasferirvi i tabarkini. L'accordo faceva parte di una più vasta operazione voluta dal re di Sardegna e risalente al 1736, tendente al ripopolamento di tutte le terre disabitate del regno. Fu così che il 20 luglio del 1737 il nobile Don Bernardino Genoves y Cerveylon, marchese della Guardia, il conte Botton di Castellamont, intendente generale dell'isola e Agostino Tagliafico, rappresentante dei tabarkini, stipularono l'atto di infeudazione a San Pietro. Il 22 febbraio 1738 giunsero da Tabarka 88 persone, seguite il 17 aprile da un altro contingente di coloni e presero il via i lavori di costruzione di quello che è tuttora il principale nucleo abitativo dell'isola, chiamato Carloforte in onore del sovrano sabaudo. L'economia ebbe tale sviluppo che il 3 settembre 1798 l'Isola di S. Pietro e Carloforte furono attaccate dai barbareschi che condussero schiavi in Tunisia 933 carolini: questi ultimi, dopo cinque anni di prigionia, saranno poi riscattati da Vittorio Emanuele I Re di Sardegna. Fu quella l'ultima drammatica vicenda internazionale dei pegliesi-tabarkini che da allora prosperarono sino a raggiungere nel 1830 i 3.000 abitanti e a superare, nel 1930, quota 8.000. La fiorente comunità e la disponibilità verso i forestieri attirarono un folto gruppo di immigrati, in maggioranza famiglie provenienti dalla Liguria (anche da Rapallo e da Santa Margherita), dalla Campania (in particolare dal napoletano: Napoli, Torre del Greco, Casamicciola di Ischia) e dall'isola di Ponza. Nel periodo 1865-90 giunsero anche toscani, siciliani, piemontesi, emiliani, calabresi, corsi, greci, savoiardi, svizzeri e slavi: sempre però si conservarono e si propagarono il dialetto, le tradizioni, i costumi e l'urbanistica originali liguri. Resta tra l'altro la tradizione culinaria: nei primi piatti la pasta fatta in casa, pasta "cu pestu", "maccaruin" e "curzetti"; nei secondi il pesce con la cassolla e i piatti a base di tonno: gurezi, tonnina e musciamme. L'influsso arabo nel cibo si ritrova nel cashcà, differente dal cus-cus tunisino per il condimento fatto di sole verdure. Sono sicuramente da gustare i dolci caratteristici: cavagnetti, canestrelli, giggeri e panetti di fichi. Queste lunghe ed avvincenti vicissitudini hanno comportato una particolarissima integrazione tra le diverse culture che i pegliesi-tabarkini hanno conosciuto. Passeggiando infatti nei carruggi di Carloforte si ha la netta sensazione di una genovesità urbanistica assai meglio conservata che nella stessa Liguria; assistendo alle attività della tonnara si ascoltano tipiche invocazioni indubitabilmente genovesi (che qui di seguito vengono riportate) che vengono pronunciate dai tonnarotti in risposta alle sollecitazioni del capo tonnarotto chiamato ... Rais (termine questo altrettanto indubitabilmente arabo):
Tanto è vero che il primo cuoco sardo invitato al prestigioso concorso internazionale di cucina Paul Bocuse è stato, a Lyon il 28 e 29 gennaio 2003, un carlofortino-tabarkino. La prima volta a Carloforte
di Giorgio CaseraLe prime tracce di Carloforte nella mia memoria risalgono al tempo in cui i suoi velieri attraccavano nei pressi dei depositi di minerale situati nelle coste dell'Iglesiente per il carico e il trasporto nelle fonderie. Siamo alla fine degli anni '40. Arrivavano la mattina presto, tra le 6 e le 7, dunque partivano da Carloforte tra le 4 e le 5 per percorrere le 15 miglia di distanza con il deposito delle nostre miniere. Le operazioni di carico, svolte da camalli (si chiamavano così anche qui) biondi e abbronzati, tanto diversi da chi lavorava nelle miniere, venivano svolte con grandi ceste di vimini foderate internamente di canapa, portate su una spalla. La salita a bordo avveniva in equilibrio su assi di legno lunghi 3-4 metri appoggiati tra la banchina e la tolda del veliero. Tutto doveva svolgersi velocemente perché verso le 12 si levava una brezza di Levante, ideale per il rientro verso sud. Più avanti Carloforte mi si è presentato a Cagliari nei volti dei compagni di scuola Damele, Aste, Parodo (e in seguito nei colleghi di lavoro Rivano, Rombi, Pellerano, cognomi certamente estranei a quell'area geografica) e nella loro parlata, così suggestiva e diversa dal dialetto sardo-campidanese abituale nei miei compagni di giochi. Avrei appreso più tardi la storia dell'isola di S. Pietro e dei suoi abitanti, qui ben raccontata da Roberto De Marchi, e questa non fece che accrescere la mia curiosità. La prima volta che arrivai a Carloforte (intorno alla metà degli anni '60, con due amici e una Cinquecento) con il traghetto proveniente da Portovesme, era in corso una regata, quasi a ribadire il carattere marinaro della mia destinazione. La prima impressione, a parte la bellezza del panorama e del paesaggio, fu di déjà vu. Avevo già visitato Genova e il Tigullio, e l'aspetto di Carloforte, visto dal mare, mi sembrò familiare. Impressione che fu confermata passeggiando per le vie e le piazze della cittadina. I colori delle case, la struttura della Chiesa settecentesca di S. Bartolomeo, addirittura gli odori che si diffondevano dalle cucine non lasciavano dubbi sull'impronta originaria degli abitanti. Terminata la breve visita al paese e consumato un frugale pasto, ovviamente a base di focaccia, percorremmo l'isola di S. Pietro in lungo e in largo. Trovammo l'interno suddiviso in piccoli appezzamenti con orti e vigne e alberi da frutta, ciascuno contenente al centro una casupola bianca con tetto in tegole rosse, testimonianza di un'attività economica familiare integrativa a quella principale legata al mare (pesca e trasporti marittimi: Carloforte è sede di uno storico Istituto Nautico). Sulle coste ritrovammo invece le caratteristiche della Sardegna, abbandonata di prima mattina per percorrere le 6 miglia che la separano da Carloforte. Trascorremmo così un pomeriggio pieno di panorami alternati di magnifiche spiagge e scogliere, incredibilmente concentrati nei 51 Kmq di quel piccolo scrigno che avevamo scoperto essere l'Isola di S. Pietro. 17 aprile 2005 |