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8 settembre 1943
Dal libro “Tornim a baita” – dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola, di Giovanni Battista Stucchi, capitano degli alpini, componente del Comando generale del CVL.


G.B. Stucchi dopo la battaglia di Nikolaevka
G.B. Stucchi dopo la battaglia di Nikolaevka
Il libro di G.B. Stucchi, Gibi per gli amici, nonno Gibi per gli adorati nipoti, è uscito postumo nel 1983 per i tipi dell'editore Vangelista ed è da molti anni introvabile fatta eccezione per alcune biblioteche, in particolare di Monza e della Brianza. Gibi è morto trent'anni fa, il 31 agosto 1980 a Bellamonte (TN) ed un bel ricordo si può trovare sul sito dell'Anpi di Lissone.

    …
    Il piano escogitato dal re e dai suoi accoliti, volto esclusivamente agli interessi della corona, portava di conseguenza non già ad ostacolare l'occupazione del paese da parte tedesca, bensì a favorirla.
    Infatti il 5º Alpini sostò a Gorizia per una decina di giorni durante i quali nessun impiego venne fatto dei reparti; non vedemmo ombra di partigiano jugoslavo, né sparammo colpo di fucile. La sosta durò quanto occorreva a consentire che l'invasione armata attraverso il Brennero si compisse indisturbata. A conti fatti ventidue divisioni tedesche si attestarono a lato delle nostre truppe. Solo allora, entro poche ore, seguirono l'annuncio dell'armistizio e la precipitosa fuga del monarca e della sua scorta.
    Assolta la missione di assicurare l'ordine pubblico e lasciate nel momento più opportuno le consegne ai rappresentanti del Führer, Vittorio Emanuele III era passato a prestare i suoi servigi ai nuovi padroni.

    Il nostro rientro da Gorizia avvenne alla fine di agosto. Si pensava che a Merano si sarebbe provveduto a completare gli organici e le dotazioni di reparto; invece, giunte le tradotte a Bolzano, fummo dirottati in Val d'Isarco e quivi dislocati in tal modo da far ritenere che l'intento dei Comandi fosse di organizzare – ormai troppo tardi – lo sbarramento delle provenienze dei due valichi del Brennero e di Dobbiaco.
    Infatti il Comando della Divisione Tridentina si era acquartierato nel grosso centro di Bressanone, quello del 5º Alpini insieme alla reggimentale e alla compagnia cannoni prima a Campo di Trens e poi a Fortezza, il battaglione Edolo presso Vipiteno lungo la rotabile del Brennero, il Tirano a Rio di Pusteria lungo la rotabile della valle omonima, il Morbegno prima a Varna a costituire la riserva e poi a San Candido di Pusteria a controllare le provenienze da est.
    …
    Ormai si capiva che, se si fosse combattuto, sarebbe stato contro i tedeschi.
    Se ne ebbe subito la riprova. Gli alpini avevano appena finito di piantare le tende quando truppe tedesche giunsero in luogo e si accamparono nelle vicinanze di ognuno dei nostri reparti con l'aria di voler sorvegliare i sorveglianti. Erano dotate di armi individuali e di reparto moderne, di pezzi di artiglieria leggera, di carri d'assalto Tigre e di abbondanti munizioni. Per contro gli alpini disponevano del vecchio fucile modello 91 e del fucile mitragliatore Breda per squadra con scarse munizioni, di poche pistole mitragliatrici Beretta calibro 9 totalmente senza munizioni, di cannoncini anticarro e di mortai senza congegni di puntamento; in pratica eravamo pressoché disarmati e alla mercé dei «camerati» tedeschi.
    Malafede o inettitudine dei comandanti? Paura? Rassegnazione di fronte all'inevitabile? Sta di fatto che nessun ordine fu dato al fine di fronteggiare l'incombente pericolo. Il nuovo comandante interinale del reggimento tenente colonnello Adolfo Rivoir, valoroso soldato, appariva esitante e timoroso al momento di prendere decisioni e non faceva che sollecitare direttive dal superiore Comando senza ottenere alcun risultato.
    …
    Nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 ero tornato da Rio di Pusteria ove mi ero recato per ragioni di servizio.
    A Fortezza fui informato circa l'annuncio a mezzo radio dell'avvenuta conclusione dell'armistizio con gli anglo-americani. Mi affrettai a rientrare in albergo per mutarmi d'abito, togliere gli stivaloni e calzare gli scarponi. Ero preoccupato di ciò che sarebbe potuto accadere.
    Nella sala del mio stesso albergo era allogata la mensa degli ufficiali tedeschi. Quando stavo per uscire li vidi seduti al tavolo; erano sette più il maggiore loro comandante.
    La ragazza che faceva da cameriera aveva in quel momento servito la minestra.
    Arrivò un motociclista porta-ordini, scattò sull'attenti e passò un dispaccio al maggiore.
    Costui lesse e si alzò senza far parola, senza tradire turbamento.
    Tutti con lui si alzarono e uscirono in silenzio, lasciando le scodelle intatte e fumanti.
    Confesso di avere avuto paura. Senza indugiare corsi al comando a riferire a Rivoir la scena alla quale avevo assistito. Rivoir mi ascoltò e per l'ennesima volta si mise in contatto telefonico col comando di divisione. Purtroppo il generale Reverberi era fuori sede, forse a Bolzano presso il comando di Corpo d'Armata.
    Alla nostra mensa si discusse sulla situazione e sulle misure da adottare. Io avevo buttato là la proposta di inventare una qualsiasi esercitazione notturna che servisse a trarre la truppa fuori da quel maledetto catino-trappola di Fortezza. Avremmo raggiunto i boschi e i prati sovrastanti e quivi atteso il corso degli avvenimenti. All'indomani avremmo deciso se tornare alle nostre tende o allontanarcene definitivamente o combattere o disperderci o in ultima ipotesi arrenderci, ma di libera nostra volontà e scelta e non costretti dall'avversario.
- Per quanto mi riguarda personalmente – aggiunsi – in quest'ultimo caso taglierò la corda. Non me la sento di finire in mano ai crucchi.
- Tagliare la corda? – commentò il nostro capitano medico – Una parola! Non potrai fare niente di più e niente di diverso dagli altri; volenti o nolenti siamo tutti nella stessa barca.
    Mi rivolsi a Rivoir: - Che facciamo signor colonnello?
    - Non spetta a noi decidere – rispose – Fino a che la divisione non ci avrà dato nuovi ordini dovremo restare al nostro posto, e il nostro posto è qui. Andiamo a riposarci. Domani vedremo ciò che resterà da fare.
    La mia camera era a due letti, uno a lato della porta e l'altro per Novello a lato della finestra. Non mi coricai. Ero assai simile all'animale che d'istinto sente il terremoto prima ancora che la terra incominci a tremare.
    Addormentarsi in quello stato d'animo era impossibile.

    L'attesa non fu di lunga durata. Il mio orologio segnava poco più dell'una quando avvertii voci e rumore di passi provenire dal pianterreno e dalla scala.
    Mi resi subito conto di quello che stava per accadere e non ne fui affatto sorpreso. C'era da aspettarselo.
    La porta della camera si spalancò di colpo e vidi spuntare la canna della Machine-pistole e subito il tedesco che impugnava l'arma contro me e Novello.
    - Waffe (arma) ! – mi urlò in faccia e tosto strappò la mia pistola dal fodero che portavo infilato al cinturone.
    Ero vestito di tutto punto.
    - Rauss, shnell, shnell (fuori, svelto, svelto)! – e mi spinse nel corridoio.
    Vidi altri tedeschi armati e intenti alla stessa operazione verso i nostri ufficiali sorpresi a letto; tre di costoro avevano con sé la moglie.
    - Abort – gridai al mio cerbero accompagnando la parola col gesto del braccio, e mi diressi al gabinetto.
    Passando non mancai di lanciare uno sguardo alla scala: era presidiata, niente da fare da quella parte.
    In fondo al corridoio, a lato del gabinetto, una porta a vetri immetteva su un balconcino. Ricordai che un paio di metri al di sotto giungeva la sommità del tetto della veranda-ristorante.
    Un lampo mi balenò nel cervello: accennai ad aprire l'uscio del gabinetto e, dopo essermi ben guardato alle spalle,vedendomi inosservato sgattaiolai sul balconcino, scavalcai la ringhiera e, tenendomi ad essa, mi calai fino a toccare con la punta dei piedi il tetto sottostante; quindi mi appiattii immobile contro il muro.
    Nel migliore dei casi avrei dovuto restare in quella scomoda posizione fintantoché gli ufficiali prigionieri fossero stati condotti altrove. Intanto urgeva pensare a ciò che avrei dovuto fare per uscire dall'incastro nel quale mi avevano cacciato la fulmineità degli eventi e il mio irrefrenabile primo impulso.
    Sentii Novello chiamarmi ad alta voce, poi gli ordini gridati in tedesco e infine lo scalpiccio dei prigionieri e della scorta armata che si allontanavano.
    Dal tetto della veranda mi lasciai scivolare fino allo stretto cortiletto che separava il retro dell'albergo dall'alta muraglia di sostegno del terrapieno, illuminato a giorno per l'occasione, sopra il quale correvano i binari della ferrovia; raggiunsi quindi un piccolo terrazzo-giardino prospiciente la strada nazionale del Brennero. In un breve slargo della strada stessa, a lato del terrazzo, esisteva un cumulo di materiale di rifiuto, nel quale ebbi provvisorio rifugio e nascondiglio.
    Avrei dovuto a quel punto attraversare la rotabile battuta dal nemico e calarmi al di là, in basso, verso il fiume, approfittando della circostanza, a me ben nota, che là si effettuava solitamente lo scarico e si era via via formato un vero e proprio cono di deiezione che avrebbe facilitato la discesa. La notte nuvolosa e buia mi favoriva, ma esitavo per il timore di essere notato. Alla mia destra infatti sentivo delle voci che mi sembravano tedesche.
    Passò un grosso autocarro militare con accesi i fari abbaglianti. Pensai che questi avrebbero impedito di vedermi perlomeno dalla destra; balzai in piedi, scavalcai il parapetto oltre la strada e dolcemente, con le gambe sprofondate nel cono scorrevole del materiale di scarico, slittai lungo il ripido pendio per una ventina di metri fino alla riva. Il primo passo era fatto.
    Secondo i miei intendimenti avrei risalito l'Isarco per un chilometro fino a giungere ove il letto del fiume si allargava e la corrente si faceva sufficientemente piana e lenta da rendere possibile il guado; avrei quindi percorso la mulattiera che in due ore di marcia veloce mi avrebbe consentito di raggiungere Rio di Pusteria in tempo per dare l'allarmi al Tirano.
    Riuscii a seguire abbastanza agevolmente la riva fin oltre il ponte di cemento armato che, alto sopra la mia testa, portava in una sola arcata la rotabile dalla destra alla sinistra orografica del fiume, ma più in su ebbi l'amara sorpresa di constatare che molte tende tedesche erano state montate in un prato tra la ferrovia e l'Isarco a due passi dal fiume.
    Non avevo alternativa di sorta e perciò proseguii con prudenza estrema sotto riva, piegato in avanti, coi piedi in acqua, talora immerso fino all'inguine, afferrandomi con gesto lento e misurato ai massi sporgenti, dove la corrente urtando e spezzandosi produceva quel tanto di sciacquio che bastava a coprire il rumore del mio passaggio. Spesso sostavo immobile, senza fiatare, coi nervi tesi, a scrutare nel buio e ascoltare a orecchie attente, prima di riprendere il cauto movimento in avanti a passi brevi, appena accennati.
    Il tutto durò più del previsto. Quando, fuori dal pericolo immediato, guardai l'orologio, erano quasi le quattro. Nulla più da fare per il Tirano: a Rio di Pusteria sarei arrivato a giorno fatto e certamente i tedeschi non avrebbero atteso che io portassi a termine il mio proposito. Non restava che pensare a me stesso.
    Mi buttai alla montagna, trovai il sentiero che portava al «maso», ebbi la fortuna di avvedermi in tempo della presenza di una postazione antiaerea tedesca e di evitarla con lo spostarmi in un vallone a sinistra. Man mano che procedevo nell'oscurità, l'erta formata da roccia marcia e friabile era andata facendosi più ripida e impervia, per cui giudicai prudente attendere le prima luci. Intanto mi spogliai dalla cintola in giù, strizzai gli indumenti inzuppati, che subito tornai ad infilare.
    Quando verso le sette mi accingevo a rimettermi in cammino, sentii venire dal basso il rumore di colpi di arma da fuoco. Due anni dopo ebbi notizia della ragione di quegli spari: il sottotenente Trentanni della reggimentale, poco più che ventenne, in un tentativo di fuga, era stato immediatamente fatto fuori dai suoi custodi.
    Uguale sorte avevano subìto alcuni alpini.
    La fortuna, a me benigna, aveva voluto che io riprendessi la lunga marcia verso la salvezza, verso la vita.

da Fortezza a Santa Caterina Val Furva
da Fortezza a Santa Caterina Val Furva

    L'itinerario da me studiato aveva il suo punto di arrivo a Santa Caterina Valfurva nell'alta Valtellina. Il lungo tragitto toccava zone a me abbastanza note e in buona parte già praticate in persona, fatta eccezione per il primo tratto da Fortezza alla Val Sarentino. Sapevo che questa valle dal passo di Pennes (raggiungibile a nord da Vipiteno) si estendeva a sud per una quarantina di chilometri di strada carrozzabile fino alle porte di Bolzano. Io avrei dovuto solo attraversarla nel punto giusto per raggiungere sulla destra il Passo di Sant'Osvaldo, donde iniziava l'Altopiano di Avelengo, situato sopra Merano e a me familiare. Il problema assillante restava quello di come avrei poi passato l'Adige.
    Quel mattino ero in preda a sentimenti opposti che andavano dalla gioia di essermi sottratto alla mortificante umiliazione della prigionia sotto il tallone tedesco all'amarezza per la sorte toccata agli alpini e a tanti cari compagni, coi quali avevo condiviso nel recente passato esperienze memorabili.
    Diedi uno sguardo accorato in basso alle case di Fortezza e mi misi decisamente in marcia. Evitai il maso, risalii l'interminabile bosco di conifere, ritrovai il sentiero che dal maso conduceva a malghe sicuramente abitata (come segni di recente passaggio di bovini stavano ad indicare), lo lasciai per non avere a che fare con gli abitanti, passai nei pressi di un rifugio del CAI dalle porte e finestre sfondate o divelte, e infine puntai verso l'alto per pascoli e sassaie deserte, in direzione della catena dei monti oltre i quali mi sentivo certo di trovare la Val Sarentino.
    Ancora una volta ebbi fortuna: il varco da me scelto a caso risultò, se non agevole, per lo meno transitabile, così che, aiutandomi con le mani, potei discendere dall'altra parte e raggiungere il bosco, ove mi concessi una colazione a base di fragole, mirtilli e acqua fresca di sorgente. Scorgevo il fondovalle percorso dalla strada e più in su un piccolo paese che supposi essere quello di Pennes. A sud-ovest riconoscevo il gruppo di Punta Cervina e del Pic d'Ivigna, semicoperto dalle nubi. Ero dunque sulla buona strada.
    Mi portai in basso e ad un tratto dovetti appiattirmi tra folti cespugli di nocciòlo: alla mia destra, lungo la strada, scendeva una frotta di militari in grigioverde. Erano di sicuro italiani ma la distanza mi impediva di distinguere se erano soli o sotto scorta armata. Li lasciai avvicinare fino a poche decine di metri, constatai che erano tutti disarmati e liberi, uscii dal nascondiglio e mi portai sulla strada ad incontrarli.
    Erano alpini dell'Edolo e artiglieri da montagna, credo del gruppo Bergamo. Di presidio al passo di Pennes all'annuncio dell'armistizio, qualcuno si era premurato di informarli che la guerra era finita e che erano tutti liberi di tornarsene a casa, purché senza le armi. Disfattisi delle armi, si erano diretti a Bolzano per prendervi il treno.
    - Perdio – sbottai disapprovando – cosa credete che a Bolzano per il fatto che avete buttato le armi proprio i tedeschi mettano a vostra disposizione il Grand Hotel Grifone e la vettura-letto?
    Si erano raggruppati attorno. Ad occhio potevano essere almeno cinquanta. Riferii loro crudamente ciò che era accaduto a Fortezza. Altro che tornare a casa! Ci avevano fregati nel peggiore dei modi.
    Era con loro un sottotenente di artiglieria molto giovane. Si presentò sull'attenti, fece il suo nome, aggiunse di essere in servizio attivo permanente e mi chiese consiglio.
    - Andate dove volete, ma mai a Bolzano. Sarebbe come cacciarsi in un sacco.
    - Non potremmo seguire lei, signor capitano?
    Riflettei qualche istante e risposi in tono piuttosto secco: - A dire la verità avrei tutto da perdere. Le strade le conosco, le gambe le ho buone e da solo credo di riuscire ad arrivare a casa. Con voi, disarmati per giunta, le cose si complicano: siete in troppi. D'accordo: se qualcuno vuol venire con me non posso negarglielo, ma patti chiari! Porto i gradi di capitano, l'esercito ha cessato di esistere e i gradi non contano. Siamo tutti liberi nella stessa maniera e ognuno è padrone di andare dove vuole. Però, per quelli che decidessero di venire con me, io non sono capitano, ma ge-ne-ra-le!
    Udii una voce nella cerchia: - Fidas dei cavei gris!
    …

Da qui proseguì la lunga marcia di G.B.Stucchi attraversando l'Adige a Postal sul ponte della tranvia (in 36), non presidiato dai tedeschi, e poi, aggirate Lana e Valpurga, San Vigilio, la Val di Sole, Malé, la valle di Rabbi, il passo di Cercina, le fonti di Pejo, la val Montozzo, il Colle della Sforzellina, la strada del Gavia e finalmente il 15 settembre mattina Santa Caterina in Valfurva.
G.B. Stucchi tornò a casa, aderì subito alla Resistenza e ben prestò passò in clandestinità.


Il tuo papà e i suoi amici
Il tuo papà e i suoi amici
Disegno del pittore Novello sull'album dei ricordi di Rosella, figlia di Gibi, con raffigurato G.B.Stucchi sui monti e i suoi amici Leidi e Novello nei lager nazisti.



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  8 settembre 2010