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MEMORIA
Don Luigi Re
Un Giusto sconosciuto
di Franco Isman


Don Luigi Re Don Luigi Re
Don Luigi Re nella realtà e nella iconografia
(dal libro di Enrico Bertazzi)

Giusto, più compiutamente “Giusto tra le nazioni”, è il titolo onorifico che lo Stato di Israele conferisce ai “gentili”, e cioè ai non ebrei che, con grave rischio personale, hanno contribuito a salvare anche un solo ebreo dalla Shoah, dallo sterminio nazista. E chi viene riconosciuto Giusto riceve una medaglia, il suo nome viene iscritto assieme agli ormai 20.000 presenti nel Giardino dei Giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme ed in suo onore viene piantato un albero, simbolo di un eterno ricordo.

Don Luigi Re, Giusto lo è stato certamente, e chi scrive ha il rimpianto di non aver mai fatto nulla perché questo titolo, che esiste dal 1963, gli venisse riconosciuto.
Don Luigi Re, “ciapa ch'el ghè”, come scherzosamente qualche volta diceva, milanesone, pacioso, cacciaballe, nel senso buono del termine, fondatore negli anni Venti della Casa Alpina di Motta (sopra Madesimo, in val Chiavenna), nel periodo terribile seguito all'otto settembre ha accolto e salvato parecchi ebrei, ma anche giovani sfuggiti alla leva obbligatoria della repubblica di Salò.

Io ero un ragazzino di poco più di dieci anni, reduce dal tifo preso a Carvico (Bg) dove la mia famiglia si era rifugiata, quando gli ero stato affidato in modo del tutto improvviso da mio padre, che lo conosceva soltanto di nome, quando, nell'ottobre del 1943, salendo con la corriera da Chiavenna a Madesimo, aveva visto un posto di blocco dei tedeschi: “Lei è don Re?” “Sì, sono io.” “Le consegno questo bambino. Se posso verrò domani o dopodomani. Se non mi vede avrà notizie dopo la guerra.” Lui disse semplicemente “Va bene”, aveva capito tutto, e non aveva esitato un attimo. Ed io, un pulcino dalla “crapa pelada”, ancora debolissimo, dovetti salire a piedi da Madesimo a Motta con questo omone sconosciuto che, arrivato sul pianoro di Motta, in vista della Casa Alpina andò avanti avendo molte cose da sbrigare dicendomi di raggiungerlo.

Franchino con Boccardo ganasce e attacchi kandahar
"Franchino" con Boccardo, amministratore e
uomo tuttofare della Casa Alpina, nella piana di Motta

Il mio papà e la mia mamma vivevano separati entrambi sotto falso nome, lui a Chiavenna come ingegner Salvi e lei, signorina trentenne con il nome di una conoscente, Carla Molteni , a Madesimo e poi come Anna Marini a Mandello.
Per me, senza alcun documento, non si era trovato di meglio che inventare il nome di Franco Bernardi (Franchino o anche "crapa pelada"), nato a Brindisi, rimasto da solo al Nord in quanto i genitori, che avrebbero dovuto raggiungermi, erano stati tagliati fuori dall'avanzata degli americani. Considerata la mia pronuncia, con gli inconfondibili “o” ed “e” dei triestini, di cui conservo ancora traccia dopo sessant'anni di monzesità, non era il massimo. E lo si era visto quando, in seguito alla richiesta da parte di don Luigi di un “duplicato” delle tessere annonarie, che ovviamente non avevo, erano venuti da Campodolcino un brigadiere ed un appuntato dei carabinieri per verificare la situazione, ed era dovuta intervenire addirittura la Divina Provvidenza; ma questa è un'altra storia e chi vuole può andarsela a leggere sempre su questo giornale.

Don Luigi sapeva chi ero e conosceva perfettamente i rischi cui andava incontro, ma non si era fatto pregare. Del resto non ero il primo ebreo che passava per la Casa Alpina, so di alcune famiglie che erano arrivate e poi, con le gite “un po' di qua e un po' di là” come le chiamavamo, e cioè a cavallo della linea di confine sui monti circostanti, erano state fatte passare in Svizzera.
Una sera, in gran segreto, qualcuno di noi ragazzini ospiti della Casa Alpina era stato portato nel bosco da Alberto Traversa, un ventenne, credo proprio, col senno di poi, sfuggito alla leva “repubblichina”, che ci insegnava (magnificamente) la matematica. Correva voce che ci sarebbe stato molto presto un grande rastrellamento delle SS e dei “repubblichini” e, nella paura che gli adulti potessero essere arrestati ma con la speranza che i ragazzini invece la potessero scampare, ci si voleva far vedere il posto dove era stato seppellito “il tesoro” di quelli che erano fuggiti in Svizzera: ai piedi di un roccione che credo sarei ancora in grado di riconoscere !

C'era già stato un rastrellamento poco prima del mio arrivo a Motta: 200 SS con 20 cani poliziotti e 2 iene, raccontava don Luigi, e pare che due cani lupo ci fossero davvero. Ma questa volta si era trattato di un falso allarme e non c'era poi stato nessun rastrellamento. Ma l'emozione del “tesoro” era stata grande.

chierichetto
"Franchino" chierichetto ad una prima comunione

Caro e buon don Luigi, sono stato a Motta affidato a lui dall'ottobre 1943 fino al 25 aprile 1945, con la mia mamma che mi veniva qualche volta a trovare fingendo di essere un'amica di famiglia; una situazione molto simile a quella rappresentata da Luis Malle nel film “Arrivederci ragazzi”, io però avevo il grande vantaggio di essere stato battezzato nel 1942, come le infami leggi razziali prescrivevano per poter essere iscritto ad una scuola privata cattolica, non avevo avuto precedentemente un'educazione religiosa (basti raccontare che al primo giorno di scuola alla scuola ebraica di Trieste ero stato mandato con un panino al prosciutto per merenda…) e non avevo quindi preclusioni per la religione cattolica. Messa tutte le mattine, chierichetto, anzi gran cerimoniere con la cotta rossa nelle occasioni importanti, rosario e benedizione tutte le sere, con la Rosina (la guardarobiera) e il sciur Magri (il cuoco) che cantavano convinti “Canta il me-erlo sul furme-ento” invece di “tantum ergo sacramentum” !

Franco Isman


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  27 gennaio 2008