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RICORDI
Meditazione
Giulio Carnelli sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


25 aprile

25 aprile 1945 - la folla in festa invade via Vittorio Emanuele

Nel cogliere l'invito di Novaluna a contribuire alla raccolta di memorie di chi (come noi) ha vissuto gli anni di mezzo del secolo scorso, ho avvertito un senso di imbarazzo nello scegliere un ricordo significativo del tempo di guerra.
Il pericolo di cadere in banalità, nel momento in cui si riportano a galla esperienze che rinnovano sensazioni ed emozioni assopite, mi ha fatto propendere verso la raccolta di una manciata di «grani di Amarcord» tratti dal cesto delle memorie del «piccolo osservatore» di allora, ordinati secondo una ricostruzione filologica, lasciando al lettore la possibilità di rivivere il clima di quegli anni.
E per cominciare: Amarcord, il primo giorno di guerra e il corteo dei sostenitori in orbace sfilare in piazza Trento e Trieste.
Amarcord, la prima incursione aerea e la bomba (l'unica) caduta per errore sul Buon Pastore di via Felice Cavallotti, uccidendo un'innocente.
Amarcord, la demolizione dei cancelli e delle recinzioni in ferro requisiti dal governo per ricavare materiale bellico.
Amarcord, le prime truppe tedesche, distaccate a Monza, consumare il rancio sui muri diroccati dell'Albergo dell'Angelo in demolizione (in piazzetta Upim).
Amarcord, le lunghe notti trascorse in rifugio, nei sotterranei della Cassa di Risparmio (in costruzione, di fianco al liceo Zucchi), stipati di vecchi, donne e bambini; l'angoscia di mia madre nel raccomandarci di non raccogliere nulla, per il pericolo delle «piastrine incendiarie» che al tocco mutilavano come Una Bomber; il nostro sfollamento in Brianza per ragioni di sicurezza.
Amarcord «Pippo», il piccolo aereo, sconosciuto, che mitragliava i passanti lungo le strade e la linea ferroviaria, seminando il terrore dei viaggiatori; le ondate dei bombardieri diretti a Milano e le noti infuocate degli incendi, visibili a distanza dai colli della Brianza.Amarcord, mio padre raggiungere furtivamente i vagoni, in sosta presso lo scalo merci di Monza, carichi di deportati, destinati ai campi di concentramento, che chiedevano soccorso e gettavano biglietti di commiato pregando di farli pervenire ai familiari.
Amarcord (ma lo seppi a guerra conclusa) le notti di mio padre con "altri", nel nostro magazzino di via Italia, trascorse a confezionare pacchi - viveri per le formazioni partigiane della Valsassina e della Valtellina.
Amarcord, la battaglia di Megolo, in val D'Ossola, tra un drappello di Par'tigi'ani e uno schieramento di truppe tedesche; fra i caduti (quasi tutti partigiani, raccontava mio padre) il tenente Redi, come si faceva chiamare nostro cugino Citterio.
Amarcord l'emozione nel correre incontro ai reduci dei campi di concentramento; l'entusiasmo incontenibile del 25 aprile, giorno della liberazione che precedette la fine della guerra.
L'elenco potrebbe estendersi agli anni successivi (che i più giovani probabilmente hanno vissuto o conosciuto), ma quel che mi preme piuttosto è una riflessione sui cambiamenti intervenuti a livello collettivo e individuale.
Una prima considerazione è che, nella nostra società il fine guerra (come ogni fine d'epoca) ha comportato una sorta di percezione confusa della realtà diveniente, uno spaccamento che, in genere, l'uomo avverte quando raggiunge una soglia temporale significativa che si ripercuote in senso esistenziale.È risaputo che lo spaesamento del nostro fine guerra è stato vissuto come stacco da un modello di gerarchica dipendenza, imposto (che, ha contraddistinto in ogni tempo i regimi totalitari), in contrasto con lo sforzo di riconferire una continuità al processo di democratizzazione (di reciproca dipendenza) in corso nelle nazioni evolute.
È un passaggio vissuto all'insegna di un grande «Pathos», anche per influenza di fattori nuovi non reperibili nel recente passato, se non come contrari a quelli, sortiti dal nascente modello di solidarietà sotto la spinta di cambiamenti sostanziali.
Ce ne possiamo accorgere se poniamo l'accento sullo «stacco», sulle «punte» di tale processo evolutivo, contrapponendo i due estremi: il sistema di gerarchica dipendenza e quello democratico di interdipendenza; il salto diventa enorme, un abisso!

Differenza abissale che si riflette anche a livello individuale (e questa è la seconda considerazione), che riguarda l'idea di «persona».
È singolare constatare come nella maggior parte degli individui che costituiscono la civiltà contemporanea sussista un «pensiero personale», assente nelle società soggette a pensiero collettivo, imposto con forza, secondo una logica di apparente uguaglianza (uniformalità) per cui i comportamenti umani vengono considerati (al pari dei numeri) misurabili statisticamente con indici e parametri assimilabili, si fa per dire, a quelli adottati dalla produzione industriale.
È un «pensiero personale» caratterizzato dalla presenza in ogni uomo di una riscoperta «diversità costituzionale» di un proprio Dna, di forma mentis, di carattere, di esigenze e bisogni esclusivi, individuali, che comporta l'istanza di soddisfare queste richieste personali (ad hoc) piuttosto che considerarle «spalmate», uniformemente distribuite, all'interno di una massa anonima (ad totum) senza distinzione.
In quest'ottica, scopri che ogni individuo ha una personalità, una posizione inalienabile nel contesto sociale, e non di semplice utente.
Ogni utente, come ogni numero, è considerato per la sua anonimità e ad esso viene attribuita un'uniformità di comportamento.
In ogni persona, per contro, esiste una diversità (di bisogni, di esigenze di aspirazioni) di cui occorre tener conto in modo specifico fin dal suo nascere, pur nella consapevolezza di avere a che fare con una «complessità» di situazioni, che in ogni caso non hanno nulla a che vedere con il «complicato».
L'etimologia stessa di «complessità» rimanda al riconoscimento della diversità delle parti di un tutto.
Quel che conta è riuscire a coniugare le differenze, come accade in un contrappunto musicale.
Perché non pensare, allora, che l'alleanza tra ciò che è già unito e ciò è diviso (diverso, differente) sia proprio la cosa migliore?
E come è possibile raggiungere questo equilibrio se non contrapponendo a una logica, che finora è stata a senso unico, una dialogica, frutto di logiche diverse, per uscire dai vincoli troppo rigidi imposti alle diverse realtà esistenziali interdipendenti: la persona e la società cui appartiene?
Allargando l'orizzonte si può affermare che ogni uomo è chiamato a vivere questa interazione non soltanto come individuo ma «in solido», all'interno del variegato mosaico geografico ed etnologico di popoli e nazioni che arricchiscono la famiglia umana.

Secondo il filosofo romeno Mircea Eliade: «Il bisogno di comunità che si riaffaccia nelle società contemporanea è, ancora una volta, il bisogno antico, di ritrovare l'unità del senso di esistenza».
Ovviamente è necessario affrontare le questioni di interesse comune per risolvere i contrasti, per definire regole di convivenza, per far coesistere le «diversità» in armonia.
D'altronde gli esseri umani oggi viventi, e sempre più quelli che nasceranno, sono già «uniti» dal fatto di dipendere gli uni dagli altri per raggiungere i beni essenziali cui aspirano.
Naturalmente è una reciproca dipendenza che fa del conseguimento di quei beni su scala planetaria una questione «politica» (e non solo economica e produttiva) nel senso etimologico del termine nato nella città (la «polis» greca) e ad essa rimasta a lungo circoscritta, prerogativa della scienza e dell'arte del governare.

Giulio Carnelli


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 21 febbraio 2004