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RICORDI
Muore uno, paghi cinque
Luigi Ferraro sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi




La scuola di Gorla

La scuola di Gorla
Se mi chiedessero la sintesi degli anni 40 vissuti a Monza, ricordo quel cielo rosso infuocato all'orizzonte, nel pieno della notte, come se fosse un tramonto di mare, là verso Milano. Avevo gli occhi impastati dal sonno e seguivo veloce i calzoni del papà che portava al pubblico rifugio tutta la famiglia. Si andava veloci, in silenzio, e tutto era teso e sentiva di dramma.
Ma ricordo anche quei terribili botti, come se fossero in testa, che entravano nel cuore, mentre i compagni di scuola ridevano e facevano le boccacce.
Eravamo alla vecchia scuola De Amicis, quando ancora c'era un fabbricato vetusto ed uno spiazzo ghiaioso davanti.
Un giorno vennero a scavare un percorso profondo, appunto in quel cortile; entrarono nella terra a misura d'uomo, rinforzarono le sponde con tronchi grezzi e poi coprirono il budello con assi e quindi con ghiaia.
Quando suonò quella sirena di allarme, quella che ancora mi fa tremare nel chiamarla alle orecchie, quella che partiva già piena di note e si sfaldava nell'aria come uno sgarbo all'anima, quando suonò, le scolaresche furono riunite e tutti dentro, là, sottoterra , con l'odore del legno appena segato.
Seduti sulle panche a margine del percorso centrale, le luci opache, le gambe penzoloni e l'esuberanza dei compagni di classe a fianco e davanti e le voci e le risate e poi BOOM - BOOM.
Quasi un gioco, ma la maestra pallida pregava - BOOM - BOOM.
A GorIa c'era una scuola come la nostra: BOOM - BOOM: in quel momento loro erano come noi là, pochi chilometri più in là, loro erano fatti a pezzi e non avrebbero più rivisto il sole.
Da noi quelle facce allegre, le voci scanzonate, la gestualità scomposta che insegue l'idea primitiva, il contatto rozzo e violento, tutto è scomparso nel silenzio seguito al buio delle lampadine. Un buio fitto, oppressivo, poi qualche accenno di voce, e tanto silenzio. Anche laggiù, a Gorla, un silenzio, ma di morte, e quindi un pianto senza fine. La radio, alla sera, ha suonato una ninna - nanna che accompagnava il ricordo di una processione di innocenti.

Qualche tempo dopo, nel giardino di Via Dante, dove rifugiavo le mie gioie infantili, si allungò l'ombra della profanazione. Al di là del cancelletto che dava sulla strada, due o tre facce di tedeschi: La casa deve essere sgomberata, entro ventiquattro ore.
Chiamammo un grande carro a traino, spinto a cavalli e sopra ci andarono le cose essenziali. La mamma ed il papà dietro, perché bisognava vedere che tutto arrivasse là dove avremmo vissuto tre o quattro anni di accampamento.
Via Buonarroti, tre locali, divisi da una corte, un po' qua e un po' là, e il gabinetto fuori. La grande casa di Via Dante, occupata da non so chi, con una mitraglietta sul balcone, nel quadrilatero del comando tedesco: via Verdi, Dante, Panni, Grossi, Margherita, Mosè Bianchi, un ricordo, addio.
La bicicletta per raggiungere la cara scuola De Amicis. Le file per il latte alla Cascinazza e per qualcosa di sostanza da mangiare alla Grassa.
Ma una sera il mondo si fermò. Suona il campanello ed ecco lo Scempio (questo era il nome), vicino di casa, dinoccolato, ex ferroviere, e marito della cicciona signora Virginia. Lo Scempio aveva trovato un tedesco ucciso davanti a casa sua. Era quasi impazzito di paura e gridava al papà di scappare: guai se l'i avessero trovati: la rappresaglia, cinque contro un morto.
Tutti piangevamo su un piatto abbandonato di patate fritte. Papà giocò grosso. Disse che restava. Scempio andò via e non so cosa fece.
Fuori si cominciarono a sentire rumori di motori militari. Ordini secchi, quel suono orribile di sillabe incomprensibilmente nella cadenza di una tragica prospettiva. Vengono suonano, chiedono di aprire, entrano. Caro papà, come ti ho amato!
No, i minuti passavano, le voci ed i comandi concitati, sempre più forti, raggiunsero una sincronia epidermica con il battito ed il tremare dei nostri cuori: poi per miracolo di nuovo si accesero i motori. E fu silenzio, ora silenzio di vita, di liberazione, di salvezza, di magico risveglio dopo un sogno cupo.
Quindi i biondi capelli della mamma e gli occhi lucidi, quasi grigi, di papà che fra gli stessi si perdevano. Rivedo ancora le piastrelle modeste del pavimento e quel tavolo, per me enorme, con le patate fritte fredde e su, verso il soffitto, il fumo di una tensione che appannava gli spazi.


fucilazione

Era marzo inoltrato, c'era odore di primavera, si stava fuori a farsi assorbire dal primo sole. Dicevano che l'uno a cinque se lo sarebbero sbrigato nelle prigioni di via Mentana. Partigiani buttati là dentro, in attesa di non si sa che cosa. Quei cinque, purtroppo, seppero presto che cosa li attendeva. Trascinati fuori e spintonati in via Silvio Pellico; erano senza storia e senza colpa: Dell'Orto, Inzoli, Malpasi, Colombo, Vignati. Al di là del muro dove io tenevo le trappole dei topi, qualcuno mi disse che c'era un prete, non ricordo, forse don Baraggia o don Attilio e loro gli chiedevano perché, attaccati a quelle vesti che sapevano di incenso.
Ancora un rumore gelido, questa volta BRRRR - BRRRR - BRRRR
Ora, dopo quasi sessanta anni resta una lapide, il segno di una storia ormai chiusa ma di un pensiero sempre vivo: il pensiero della libertà e della pace. “vittime della barbarie nazifascista, immolarono la esuberante giovinezza per la causa della libertà". Fu allora che, nel frastuono delle sensazioni, mi si aprì un percorso luminoso che accompagnò ed accompagna le mie azioni di vita.

Luigi Ferraro



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 29 novembre 2003