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MONZESI
Giuseppe Maria Longoni
Intervista di Carlo Vittone sul  libro MONZESI - cinquanta personaggi della città


Giuseppe Maria Longoni    Nato a Monza nel 1951, sposato con un figlio. Studi al Liceo classico “Zucchi”, poi laurea in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano con specializzazione in Storia contemporanea. Dopo vent'anni di insegnamento nelle scuole superiori, entra come ricercatore al Dipartimento di storia della società e delle istituzioni dell'Università Statale di Milano. Insegna Storia contemporanea all'Università della terza età a Monza e ad Arcore e all'associazione C.M. Maggi di Lesmo. Studia i fenomeni economici e culturali legati ai processi di modernizzazione, in particolare nell'area lombarda e nel territorio di Monza. Su questi temi ha pubblicato i volumi “Una città del lavoro” (1987), “La Fiera nella storia di Milano” (1988) e “L'arte dei cappellai” (2001) oltre a numerosi saggi su riviste specializzate, tra cui “Nuova rivista storica” e ”Archivio storico lombardo”. A Monza ha collaborato con l'Università popolare, col Centro Culturale Ricerca e all'inizio degli anni '90 ha fondato con M. Canesi e B. Rocca il “Circolo del progetto”, associazione culturale che si è occupata di temi urbanistici, economici e ambientali.

foto di Fabrizio Radaelli


Esordisce pregandoci di non considerarlo uno “storico locale”, mosso da un legame affettivo con la sua Heimat. Ha studiato Monza come un caso interessante di fenomeni generali.

All'inizio c'è la passione per la storia come impegno intellettuale e civile, il misurarsi con cause e dinamiche dei grandi temi sociali e politici. Mi sono occupato della mia città, anche su invito del prof. Decleva, ora Rettore della Statale, per dar seguito all' intuizione di Sergio Zaninelli che nella sua “Vita economica e sociale“ della Brianza aveva individuato, senza approfondirlo, il ruolo fondamentale giocato da Monza nel periodo compreso tra gli ultimi decenni dell'800 e i primi del '900.

Addirittura?

Sì, Monza fu uno dei centri di maggior rilievo sotto il profilo della crescita industriale e dell'associazionismo sindacale; un ruolo decisivo vi giocò l'industria del cappello. Un caso speciale ma poco conosciuto, che qualche anno fa ho illustrato a un convegno alla Sorbona sulle origini del sindacalismo europeo. Monza in quegli anni può essere vista come una sorta di città-laboratorio sia dal punto di vista imprenditoriale che delle relazioni sindacali, ove si sperimentò la prassi contrattuale e concertativa. Una “città del lavoro” appunto, definita in primo luogo da una classe imprenditoriale di origine popolare, innovatrice e ad un tempo socialmente sensibile.

E dunque un padronato “illuminato”

Direi piuttosto pragmatico e consapevole del nuovo ruolo del lavoro. La stessa cosa si può dire, simmetricamente, per le due componenti del mondo operaio d'allora, quella socialista, con a capo Ettore Reina, e poi quella cattolica, guidata da Achille Grandi. Esse riescono a superare il massimalismo improduttivo e il tradizionalismo corporativo per approdare ad una visione concretamente riformatrice e consapevole dei problemi industriali.

E questo che riflessi ha sulla vita della città?

Contrariamente all'immagine che spesso ne viene data, Monza non è sempre stata conservatrice. Anzi, dalla fine del secolo XIX fu prevalentemente una città operaia e dunque “rossa”. Avversari dei rossi erano i “bianchi” ma nel senso che aveva allora il termine “popolare”, non certo clerical- moderati. E in tutta la Brianza, il fascismo non attecchì mai, fin dalle elezioni pilotate del 1924 per tutto il ventennio; gran parte della cittadinanza lo rifiutò più o meno apertamente. Ancora alle amministrative del 1946 i socialisti ebbero 15000 voti, 6000 i comunisti, e 20000 la D.C, nella quale prevalsero le componenti favorevoli alla collaborazione con le sinistre.

E poi cosa succede?

Gli scontri ideologici, la paura dell'Unione sovietica giocano un ruolo, ma è soprattutto la crisi dell'industria del cappello, poi quella strisciante del tessile, solo in parte compensate dai progressi della meccanica e della chimica, a mutare il quadro. Progressivamente scemano gli investimenti industriali e crescono quelli immobiliari e finanziari: molti imprenditori separano i loro interessi dalla città e li spostano altrove. L'industria ancora prospera in Brianza, ma da Monza scivola gradualmente via. La “città del lavoro” muta la sua identità senza peraltro acquisirne un'altra ben definita. Cresce, specie per l'immigrazione dal sud, ma non è più un laboratorio economico e sociale, non riesce a diventare il centro di servizio per le imprese dei dintorni e neppure a valorizzare il proprio patrimonio storico e monumentale; resta la città dell'Autodromo e il cantiere di un'edilizia spesso discutibile.

Ma a Monza esiste una tradizione di volontariato sociale. C'è un legame coi fatti appena descritti?

Forse la tensione politico-morale di un tempo si ripropone in altre forme. Quanto più la politica diventa pura gestione, magari disinvolta, tanto più si aprono spazi per l' impegno sociale e culturale. Penso ad esempio allo sviluppo dei cineforum locali negli anni '50 e '60 o all'Università Popolare, che in realtà esisteva a Monza fin dal 1901, ma anche al volontariato assistenziale e benefico. Anche il cosiddetto Sessantotto, che in Italia dura un decennio, vede fiorire l'associazionismo giovanile, laico e religioso. Tuttavia il tono generale della città rimane amorfo perché mancano i grandi stimoli strutturali per un salto di qualità.


E la questione della Provincia?

Nel 1990 la legge 142 riforma gli enti locali e propone la creazione degli organi di governo per le grandi ”aree metropolitane”. Dopo decenni di apatia da benessere Monza si accorge che sta per essere assorbita da Milano. E dunque la discussione sulla provincia, iniziata qualche anno prima, si riaccende. Le associazioni imprenditoriali, sindacali e professionali assumono via via questo obbiettivo, anche per salvarsi.
Il problema principale è come governare un territorio che lo sviluppo ha arricchito, reso omogeneo ma in parte anche compromesso e quale ruolo attribuire a Monza, città eternamente incompiuta.


E Lei come risponde?

L'organo di autogoverno locale della Brianza può contribuire a vivere il territorio come realtà identificabile. Dovrebbe affermarsi una cultura politica ed amministrativa meno succuba della filosofia della crescita illimitata: certo occorre migliorare le infrastrutture utili alle imprese e alle persone, considerando però l'antica varietà “rurale”e residenziale della Brianza una risorsa, non un impaccio; cioè decostruendo quel che è stato mal costruito e ricostruendo ambienti distrutti da un malinteso progresso. Questo può favorire soluzioni di vita e lavoro più evolute e meno tributarie del consumismo telediretto che è oggi la religione di massa delle grandi aree metropolitane; se invece si vuole uno sviluppo come quello disegnato dall' orrenda città lineare che si stende lungo la tangenziale est fino a Vimercate, o dalla striscia urbana lungo la Valassina, basta lasciare che le cose vadano avanti così: la città metropolitana è la soluzione già operante.
Monza dal canto suo dovrebbe finalmente porsi come punto di riferimento della rete di risorse territoriali e accrescere i suoi richiami culturali valorizzando un patrimonio storico ed ambientale tra i più interessanti d'Europa, Parco e Villa reale, nonché il suo passato di città operosa che meriterebbe di essere ricordato in un Museo del lavoro, con una speciale sezione per il cappellificio.

E la possibilità di un'università a Monza?

La presenza di Medicina svolge già un'importante funzione; avere dei dipartimenti dedicati alla progettazione industriale, alla tecnologia o alla tutela del territorio contribuirebbe a riqualificare la città. Qualche anno fa portai un po' a spasso per Monza un conoscente venuto dal Venezuela. Alla fine mi chiese dov'era l'università e quando seppe che non c'era mi disse meravigliato: “Il mio paese è più povero del vostro, ma da noi una città così avrebbe sicuramente l'università!”.

Carlo Vittone


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 8 novembre 2003