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RICORDI
A Varenna
Gerardo Genghini sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


Varenna


      Varenna dista sessanta chilometri da Monza, un'enorme distanza, mi sembrava, allora. Abbiamo cominciato ad andarci, sfollati in tempo di guerra. Il mio ricordo dei preparativi, per la partenza estiva, forse la guerra era già finita, si fissa su un baule, un grosso baule verde, che il facchino trasportava su un carretto alla stazione ferroviaria, tirandolo a mano con una larga cinghia sulla spalla. lì ricordo del trasferimento si sovrappone a quelli della vita a Monza nello stesso periodo, senza un preciso nesso temporale, come a significare un collegamento ideale tra le due località. A Varenna lo spostamento significativo deve essere stato il primo, quando mio padre, in previsione dei bombardamenti, dovette impegnarsi per trovare un posto, abbastanza vicino, che gli consentisse di raggiungere in breve la famiglia sfollata.
      A Varenna sono andato prima all'asilo, poi ho frequentato la prima elementare.
      Giù alla Riva Grande ci sono ancora tre, quattro platani lavorati ad ombrello sotto i quali oggi trovano posto dei bar.
      Allora l'impalcato era più basso e più facilmente raggiungibile. Era il nostro posto, mio e dei miei compagni. Li passavamo, credo, buona parte del tempo tra una scorribanda e l'altra, tra le battaglie con lo schiopetto a stantuffo.
      Al legno di sambuco, lungo circa 20 cm., veniva tolta la polpa interna, spugnosa, in modo da liberare una canna di circa un centimetro di diametro.
      Lo stantuffo di sanguigno, un arbusto di legno duro con la corteccia rossa, veniva pestato in testa con lo sputo in modo da renderlo stopposo. I proiettili, le bacche d'alloro lubrificavano la canna e venivano sparati con violenza, con un colpo secco, a decine di metri di distanza.
      Potevamo giocare alla guerra, ma la guerra vera c'era da qualche parte. A Varenna non abbiamo sentito spari, ne sentivamo parlare in casa o alla radio, i soldati invece li abbiamo visti, prima i tedeschi e poi gli americani.
      I tedeschi avevano le moto con i sidecar, li rivedo tuttora in movimento, avanti e indietro per la piazza, forse avevano quartiere a Villa Monastero. Vestiti di nero, con i cappotti lunghi e le voci metalliche, da loro era meglio non farsi vedere. Poi sono spariti da un giorno all'altro.
      Quando arrivarono gli americani non passavamo più il tempo sugli alberi, c'era aria di festa. Vestivano con le maniche corte e gli abiti color marrone, distribuivano il cioccolato e le gomme da masticare, prendevano le barche e portavano anche noi, i ragazzini, sul lago.
      Dopo il grigio dell'inverno e delle divise nere era venuto il caldo e l'allegria in una stagione che ci sembrava non finire più.

Gerardo Genghini


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 18 ottobre 2003