prima pagina pagina precedente


RICORDI
Dallo sbarco americano al Referendum
Toti Iannazzo sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


LO SBARCO

"paisą"
Che fosse imminente, era nell'aria. Infatti quando awenne, nessuno se ne sorprese. Anzi fu, come poi venne chiamato, una liberazione: finalmente un passo decisivo verso la fine della guerra.

Avevo allora dieci anni ed ero, come ogni anno d'estate, in villeggiatura con il resto della famiglia, in tutto cinque persone, in un piccolo fondo a cinque chilometri dal paese. Il paese era Bisacquino, a 70 chilometri da Palermo, cui era collegato da uno sbuffante trenino che ci metteva ben cinque ore a fare quel percorso, ed anche da una tortuosissima strada che, passando per Corleone, ti ci portava, su una scassatissima corriera, in tre ore.
La casa di campagna era al primo piano, piccola ma confortevole. A pianterreno c'era, indipendente dalla nostra, l'abitazione del mezzadro, e, accanto ad essa, la stalla per gli animali. Mancavano però sia l'acqua corrente che la luce elettrica. All'acqua si prowedeva trasportando a forza di braccia, mediante le "quartare" - grosse brocche di terracotta di una ventina di litri ciascuna - il prezioso liquido da una vicina, avara sorgente. Era un'incombenza di tutta la famiglia, ma soprattutto degli uomini - mio padre ed io - che veniva espletata poco prima dell'imbrunire, quando l'aria rinfrescava. Se ne accumulava, a meno di esigenze straordinarie, la quantità necessaria per l'indomani, almeno sei "quartare". Per l'illuminazione serale si usavano invece i classici lumi a petrolio, dalle fogge più svariate, che erano distribuiti per tutta la casa.
La mancanza di energia elettrica aveva una conseguenza che oggi ci sembrerebbe incredibile: niente radio. E quindi niente notizie. L'unica sorgente di notizie era il Giornale di Sicilia, che però doveva essere portato apposta dal paese. Il che, naturalmente, aweniva quando il mezzadro, o qualcuno di noi, vi si recava per qualche altra ragione. E ciò, generalmente, capitava non più di una volta la settimana.
Perciò, pur intuendo che lo sbarco sarebbe awenuto di lì a poco, eravamo coscienti che lo avremmo saputo in ritardo.
Qualche segnale lo avemmo in realtà con un certo anticipo, anche in mancanza del giornale. Cominciarono ad arrivare, nel nostro!ondo, degli sconosciuti, quasi mai siciliani. Distrutti dalla fatica di un lungo cammino, sporchi, affamati. Alcuni armati o vestiti con uniformi militari. Anche qualche camicia nera. Arrivavano la sera, all'imbrunire, e ripartivano l'indomani mattina presto. A tutti fu offerta ospitalità. Venivano rifocillati e fatti dormire su letti di paglia, in uno dei locali al piano terreno, che, per le condizioni in cui erano, gli sarà sembrato una reggia. A quelli che indossavano le uniformi, nei limiti del possibile, mio padre ed il mezzadro diedero vestiti borghesi, che ne avrebbero nascosto lo stato di disertori. Le uniformi, ad evitare problemi con qualche eventuale ispezione, che però non ci fu mai, venivano bruciate seduta stante, specialmente le camicie nere, potenzialmente le più compromettenti.
Fu uno di costoro a lasciare un fucile - penso fosse il famoso '91 con il quale qualche giorno dopo, con tutte le cautele del caso, mi fu consentito di sparare un colpo. Ricordo che mio padre mi permise di reggerlo autonomamente quel fucile, ma non ritrasse la mano finché il colpo non fu sparato. Voleva, naturalmente, esser certo che io puntassi alle stelle. Sento ancora il rinculo sulla spalla, e poi l'odore acre della polvere esplosa.
C'erano stati altri segni premonitori, ancor prima del passaggio dei disertori. Si vedevano sempre più spesso aerei americani o inglesi passare a bassa quota, senza che, apparentemente, alcuno li contrastasse. In uno di questi passaggi un aereo a bassissima quota - tanto che istintivamente tutti ci buttammo per terra quando ne udimmo il rombo assordante - mitragliò ed uccise, assieme al suo mulo, a circa un chilometro dalla nostra casa, un innocuo contadino che si stava recando in paese. Chissà, forse stavano esercitandosi per vedere se la mira era giusta. Lo era. Ricordo che la carcassa del mulo rimase lì per mesi, impregnando l'aria dell'odore della morte, finché il sole non la disseccò.
Un altro episodio fu quello che fu poi ricordato in paese come "il bombardamento" per eccellenza. In un luminoso pomeriggio vidi io stesso due aerei volteggiare bassissimi attorno alla collina che nascondeva alla nostra vista il paese. Fecero un paio di giri. Poi un rombo, un rimbombo lungo e sordo, seguito a breve da una colonna di fumo nerissimo. Nella mia ingenuità da ragazzo mi convinsi che l'effetto della bomba fosse stato la distruzione totale del paese e la morte di tutti i suoi abitanti. Insistetti con mio padre che l'indomani ci si recasse in paese - era ormai troppo tardi perché lo si potesse far subito -' ma passai una notte d'angoscia. Quando l'indomani, dopo la consueta oretta di cammino per sentieri, arrivammo in paese, constatai con sollievo che il paese era ancora tutto lì, come lo conoscevo, ed i suoi abitanti tutti vivi ed in buona salute. Tranne uno, un povero manovale che lavorava alla ferrovia, e che era rimasto sotto le macerie di un magazzino accanto alla stazione, sul quale era caduta la bomba. Se volevano mirare alla stazione - ma perché, considerata la limitatissima capacità di trasporto di quel trenino? - questa volta avevano sbagliato mira.

Che lo sbarco fosse awenuto lo constatai di persona qualche giorno dopo che era awenuto. Mio padre, non ricordo più per quale ragione, dovette andare in paese, ed io volli ancora una volta accompagnarlo. Era sempre una distrazione, dopo un lungo periodo di giorni monotoni in campagna. Il tragitto, come ho detto sopra, si compiva sempre a piedi, per sentieri, e durava un'ora o poco meno. L'unica alternativa era andare a cavallo, con un mulo od un asinello del mezzadro. Ma vi si ricorreva solo in caso di emergenza, poiché gli animali servivano al mezzadro per i suo lavoro quotidiano. Si partiva presto, non dopo le sette, per scansare la calura del giorno. Dopo l'arrivo, visitati gli zii, salutati alcuni amici che si incontravano per strada, fatti alcuni acquisti - tra cui, immancabile, il Giornale di Sicilia del giorno prima - ci recammo a casa nostra, sulla strada principale del paese. Qui mio padre si diede a sbrigare il lavoro per cui era venuto, mentre io leggevo un giornalino - sarà stato "Il Vittorioso'? - che mio padre mi aveva acquistato.
Fummo attratti da un rumore di motori, proveniente dalla strada, che era cominciato poco a poco ma che cresceva sempre di più. Ci affacciammo entrambi al balcone, che dava sulla strada. E fu così che vidi, per la prima volta, le jeep, che mi sembrarono allora dei veicoli stranissimi. Mio padre non sembrò sorpreso. Probabilmente dai discorsi degli amici che aveva incontrato aveva appreso le ultime notizie, e quindi si aspettava di vedere quel che vide. Per cui rientrò quasi subito, scuro in volto. Io invece rimasi al balcone, affascinato. Intanto la carovana di veicoli - alle jeep si erano aggiunti, numerosissimi, degli enormi camion stracolmi di soldati - diventava sempre più fitta e rumorosa. La gente cominciava a scendere in strada, applaudendo; e i soldati americani, armati di tutto punto ma allegri e sorridenti, rispondevano agli applausi gettando alla folla caramelle e gomma da masticare, quest'ultima una novità assoluta per tutti.
Poco dopo mio padre mi chiamò: era pronto ad andare. Scendemmo le scale e ci trovammo per strada, tra la folla plaudente ed i camion che continuavano a sfilare. Notai che mio padre non aveva più sorriso da quando aveva visto gli americani. Adesso sembrava ancora più arrabbiato. D'improwiso si rivolse alla gente, che lo salutava affettuosamente - molti di loro erano probabilmente stati suoi alunni - e pronunciò - metà in italiano e metà in dialetto - queste parole, che mi rimasero impresse indelebilmente nella memoria:
"Sì, battete le mani, battete le mani!". Lo disse per due volte in rapida successione. "Ma poi ve lo metteranno in c***!", soggiunse con tono che non attendeva repliche.
Io, e penso anche gli altri, non' l'avevo mai sentito pronunciare in pubblico una parola scurrile, né mai lo sentii farlo di nuovo dopo quell'episodio. E infatti tutti lo guardarono esterrefatti, io per primo, e si zittirono di colpo. Mio padre intanto mi afferrò per mano, attraversò, mentre mi tirava, la folla e la colonna dei camion, ed imboccò un vicoletto che in breve ci condusse fuori dal paese. Raggiungemmo in silenzio il nostro fondo.
Mio padre, che aveva awersato - con i rischi che ciò allora comportava - il fascismo, vedeva con favore la fine, ormai inarrestabile, di quel regime. Ma aveva anche combattuto, giovanissimo, sul Grappa durante la Grande Guerra. Gli sembrò, evidentemente, che l'entusiasmo apparente di quella folla verso i vincitori fosse un atto di sottomissione eccessivo, e la redarguì aspramente.


ILREFERENDUM

Seguirono, come sappiamo, tre anni di attese e di rivolgimenti, sia nel grande scacchiere - come lo sbarco in Normandia, la fine del fascismo e di Mussolini, l'occupazione di Berlino ed il suicidio di Hitler, la liberazione del resto d'Italia - e sia a livello locale, con la rinascita dei partiti ed il lento ma irresistibile ripartire della vita democratica. La pubblicistica storica in genere bolla come troppo lenta questa evoluzione. Ma io mi chiedo se oggi, pur con lo sviluppo economico e tecnologico che abbiamo conseguito, saremmo in grado di fare le cose più velocemente di allora. Considerata la grandiosità e la grande complessità dei problemi che allora furono affrontati, ed in buona parte risolti, sospetto di no.
Anche a Bisacquino la vita democratica riprendeva. Vennero fuori i partiti, in primo luogo la DC ed il PCI, naturalmente. Ma dietro questi si affermava il PRI, i cosiddetti "repubblicani storici", che si ispiravano a Giuseppe Mazzini e si ponevano l'Òbiettivo di uno Stato repubblicano e laico. Lo avevano promosso un gruppo di amici, tra cui mio padre, ed aveva velocemente conquistato l'adesione della porzione culturalmente più avanzata del paese. Nella sua famiglia d'origine - gli zii e le zie erano tradizionalmente legati alla chiesa e perciò, sotto la spinta esplicita del parroco, consideravano naturale il sostegno alla DC -mio padre era considerato una persona un po' strana da prendere, purtroppo, così com'era. Anche se, devo
dire, mai venne meno l'affetto per lui e nessuna pressione fu esercitata su di lui perché cambiasse atteggiamento. Ma forse ciò derivava anche dalla consapevolezza che qualsiasi tentativo in questa direzione era destinato al fallimento.
Con l'awicinarsi del 2 giugno 1946, la data fissata per il Referendum, il PRI cittadino, come credo awenne in tutta Italia, essendo l'unico partito (con l'eccezione, forse, del PCI) a schierarsi senza esitazione per la Repubblica (in tutti gli altri partiti porzioni più o meno grosse degli iscritti parteggiavano per la Monarchia), divenne presto il punto di riferimento di tutti coloro, anche di altri partiti, che intendevano promuovere il voto per la Repubblica. La sede del PRI era una semplice e disadorna stanza al primo piano di un fabbricato della piazza principale del paese, sulla quale si affacciava per mezzo di un balcone. Da esso mio padre più volte fece dei comizi, suscitando la riprovazione soprattutto delle zie, che, andava bene tutto, ma almeno quello non avrebbero voluto vederlo.
Si decise di fare un manifesto a favore del voto per la Repubblica. Poiché in paese non esisteva una tipografia, bisognava farlo a mano. La piazza del paese era il luogo ideale per esporlo: tutti, prima o poi, vi passavano. La domenica poi, a partire dal primo pomeriggio e fino a tardi, pullulava di gente, tanto che era difficile muoversi.
C'era, nella piazza, un posto perfetto per attaccarvi il manifesto: era uno spazio su un muro a sinistra del palazzo municipale, delimitato da una preziosa cornice di marmo grigio, nel quale spiccavano ancora le famose tre parole: Credere, Obbedire, Combattere. C'erano anche - nessuno si era ancora preso cura di rimuoverli - i fasci in rilievo ai due lati. Si decise comunque di affiggerlo li: avrebbe nascosto le famose tre parole; e i due fasci, dopotutto, non si vedevano molto. E poi, la visibilità era perfetta.
Io ed un altro ragazzo, figlio di un collega di mio padre, fummo designati a costruire il manifesto. Cominciammo con il misurare con precisione le dimensioni del posto prescelto. Erano considerevoli: per quel che ricordo almeno 80 centimetri in altezza per circa due metri e mezzo. Ma avevamo il problema di scriverci su qualcosa che non fosse banale, come "Vota Repubblica". Ci serviva una bella frase, capace di attirare l'attenzione del passante e di farlo pensare. Per quanto mi spremessi le meningi, non mi veniva un'idea brillante.
Chiesi allora aiuto a mio padre, che era a quel tempo direttore della Biblioteca Comunale. Detto fatto, l'indomani spuntò con un libretto pieno di frasi celebri, tratte dalle opere di Giuseppe Mazzini, che, come ho detto sopra, era lispiratore per eccellenza del PRI. Lo leggemmo avidamente dalla prima all'ultima pagina, discutendo e confrontando le varie frasi. Alla fine la scelta cadde sulla seguente, che ricordo esattamente:
"QUANDO IL TEMPO E' MATURO PER UN MUTAMENTO NESSUNA UMANA POTENZA PUO' FAR CHE NON SIA".
Era un po' reboante, ma sembrava fosse stata scritta proprio per l'evento che ci aspettava. Piacque a tutti. Ma per me ed il mio amico, che dovevamo disegnare a mano tutto il manifesto, poneva grossi problemi: ci sembrò, ed era, chilometrica! Sarebbe stato un lavoraccio, lungo e difficile. E per giunta né io né lui avevamo alcuna esperienza precedente di quel tipo.
Acquistammo comunque il materiale necessario, e con entusiasmo ci mettemmo al lavoro. Provammo, sul cartoncino bianco che avevamo destinato a fondo del manifesto, tutte le matite colorate - le chiamavamo "pastelli" - che eravamo riusciti a trovare presso l'unico cartolaio-giornalaio-merciaio del paese. Ma nessuna ci convinceva: i colori erano tutti smorti, poco evidenti e quindi quasi invisibili da lontano. L'unico colore che si vedeva abbastanza bene era il blu delle matite rosso-blu che gli insegnanti usavano per la correzione dei compiti. Ma era troppo scuro, quasi nero. L'idea risolutiva ci venne quando, durante una delle numerose visite che, in cerca di una soluzione, facevamo al cartolaio-giornalaio-merciaio, scorgemmo, occhieggianti da un alto ripiano della sua bottega, dei coloratissimi rotoli di carta velina. Avremmo usato quella! Ce n'era di rossa e di verde, perfetta per la bandiera, proprio nei colori brillanti che ci servivano.
Tornammo con rinnovata Iena al lavoro. E nel giro di pochi giorni lo completammo. Il manifesto era li, pronto, steso sul pavimento della sede del PRI, poiché il tavolo era insufficiente a contenerlo. Aveva un bordino tricolore, verde-bianco-rosso, dentro il quale campeggiavano, a sinistra una verdissima foglia d'edera, simbolo del PRI - che per la verità non c'entrava molto, ma evidentemente sin d'allora i partiti badavano alla propria "visibilità" - ed a destra la bandiera italiana, disegnata come fosse svolazzante, così da distinguerla dal ben noto simbolo del Partito Liberale Italiano. Tra questi due simboli, su due righe, scritta col blu-quasi-nero della matita per le correzioni, il motto. Sulla destra, in basso, a dargli legittimazione e dignità, il nome dell'autore: Giuseppe Mazzini.
Con l'aiuto di due scale, una per lato, ed a cura di due adulti che si prestarono alla bisogna - il lavoro era considerato rischioso per dei ragazzi - il manifesto venne issato con cura ed incollato dentro il riquadro fascista. A lavoro ultimato un piccolo gruppo di persone, che comprendeva naturalmente me ed il mio amico, si fermò ad ammirarlo. Ci sembrò bellissimo!
Io, per la verità, ero un po' preoccupato perché avevo notato, durante l'esecuzione, che la colla - una semplicissima colla, preparata da mia madre facendo bollire una mistura di farina ed acqua - mostrava una
certa tendenza a sciogliere il colore della carta velina. E temevo che, in caso di pioggia, il fenomeno si accentuasse. Per fortuna, per una buona diecina di giorni, non piowe. Ed il manifesto continuò a fare bella mostra di sé nella piazza del paese.
Piowe invece - un breve ma intenso temporale notturno - un paio di giorni prima del voto. L'indomani mattina mi precipitai in piazza per vederne l'effetto sul manifesto. Lunghe ed irregolari strisce rosso-verdi, come lacrime colorate, lo attraversavano dall'alto in basso, fino alla cornice di marmo. Era semidistrutto. Ma la frase - il blu-quasi-nero della matita aveva resistito all'acqua - era ancora ben leggibile. Ad ogni modo, mi consolai, il manifesto aveva ben svolto il suo compito. Ed ora moriva gloriosamente sul campo.

La Repubblica vinse, a Bisacquino, con largo margine sulla Monarchia. E fu uno dei pochi casi, in tutto il meridione, in cui ciò awenne: da Napoli in giù la vecchia tradizione monarchica del Regno delle due Sicilie aveva prevalso quasi dappertutto. Del resto non era la prima volta che il paese si dimostrava bastian contrario: mi raccontava mio padre, con una punta di orgoglio, che anche nelle elezioni del '24, quando Mussolini, con il famoso "listone" conquistò la maggioranza assoluta nel Parlamento, Bisacquino era stato uno dei pochissimi comuni italiani che gli aveva detto no.
Quando, dopo qualche giorno, fu chiaro che la Repubblica aveva vinto anche in Italia, fu organizzato in paese un grande corteo. Fu un grandissimo, festoso corteo, che percorse le strade del paese, con bandiere e colori di tutti i partiti, e tanto di banda che intonò l'Inno di Mameli e la Canzone del Piave. Tra le posizioni di testa del corteo c'ero, tra gli altri, anch'io. Reggevo un cartello che, forte dell'esperienza precedente, mi ero costruito da solo. Il testo però me lo aveva suggerito mio padre. Diceva: "Monarchici, bisogna saper perdere", con owio riferimento alle lamentele dei monarchici che avevano insistentemente cercato di attribuire a brogli elettorali il risultato a loro contrario.
Di quel corteo mi ricordai nel giugno scorso, quando un improwisato ma simile corteo (senza la banda!) percorse le vie di Monza per festeggiare la straordinaria vittoria di Michele. Ed ora, dopo gli ultimi eventi, dico che anche un cartello simile a quello sarebbe stato appropriato: "Berluscones, bisogna saper perdere".

Toti Iannazzo


in su pagina precedente

 27 settembre 2003