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RICORDI
I nonni
Sandra Colombo sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


I nonni Colombo
I nonni Ilda e Alessandro Colombo con Sandra e Alberto

Ilda e Alessandro Colombo erano i miei nonni paterni: dei miei fratelli, solo io, che avevo 5 anni nel 1943, me li ricordo bene: ero spesso a casa loro; la mamma aveva avuto un altro bambino e io potevo ancora essere il centro dell'attenzione a casa dei nonni, dove si giocava a nascondino e girotondo, dove la nonna suonava il pianoforte per me e cercava di farmi indovinare i motivi, dove tutti fingevano di non trovarmi quando mi nascondevo dietro le porte.

Le foto di quell'epoca mostrano i loro sorrisi tristissimi, ma l' atmosfera che ricordo io era allegra, non so dire se fosse perché con la nipotina riuscissero di dimenticare la paura e le umiliazioni o se perché io non sapevo allora notare lo sfondo di angoscia al di là dei sorrisi e dei canti.

Di loro ho sempre con me la presenza affettuosa, il loro divertimento quando rispondevo per le prime volte al telefono, quando sfoggiavo un vestito nuovo, quando mi mostravano orgogliosamente ai loro amici per la strada.
Di amici ne avevano tanti: quando, dopo che ci incontravamo al mercato, tornavo a casa con la nonna, ci si fermava ogni due passi a salutare e a rispondere: la nonna presentava le sue amiche carissime alla mia mamma, ancora sperduta senza le sue sorelle. Cercava, la nonna, di stornare nella mia mamma lo smarrimento per le restrizioni che li imprigionavano, come cercava di lenire la nostalgia del sole dell'Egitto, iniziando la mia mamma ai piaceri culturali (portandola a Milano a mostre, musei, nei negozi) di una regione umida e nebbiosa.

Era la nonna a risolvere i problemi pratici con la disinvoltura di chi si sente a casa nel paese in cui vive: se c'erano persone che traversavano la strada per non salutare, lei sapeva di altre che offrivano amicizia e solidarietà, se era proibito avere domestici ariani, c'erano delle parenti che forse avrebbero potuto dare una mano coi bambini piccoli. Dopo tutto, loro erano ben conosciuti a Monza dove avevano vissuto dall' inizio del secolo, il nonno aveva insegnato matematica ed era l'amministratore dell'Ospedale, era bene accolto nei caffè che frequentava, stimato nei circoli cittadini di cui faceva parte. I nonni erano per me (e credo per i miei genitori) la fonte di sicurezza, di consiglio e di appoggio.

Così quando gli attacchi alla dignità si erano trasformati in pericoli di vita, erano stati i nonni ad insistere perché la nostra famigliola coi bambini piccoli si nascondesse dai suoceri di una sorella della mamma, nelle montagne tra l'Umbria e le Marche. Quanto a loro, avevano voluto rimanere, ("Siamo anziani, cosa volete che ci facciano?”), acconsentendo solo a malincuore ad andare ad abitare in una casa a Milano, dove c'era meno rischio, che il nonno ovviamente considerava infondato, che fossero riconosciuti e denunciati; come infatti accadde: a Monza, città in cui probabilmente si sentiva sicuro, in quanto avevano amici, affetto, rispetto e buona volontà, mentre tornava a casa sua a prendere le foto di noi bambini, il nonno era stato visto, denunciato, imprigionato a San Vittore e poi deportato, con la nonna, ad Auschwitz.

Cosi tutto il mondo allegro e sicuro legato a loro era scomparso quando ritornammo con la mia famiglia a Monza, dopo essere stati nascosti durante la guerra. Mi mancavano i nonni e non sapevo più niente di loro ma sapevo anche che non dovevo fare domande: sentivo i miei genitori sempre così vulnerabili che non potevo chiedere chiarimenti su dettagli (non si entrava in certi negozi o caffè, non si parlava a certe persone), che avrebbero potuto riportare l'espressione piena di dolore sul viso del papà e della mamma. Non avevo capito che il dolore era sempre lì e non sarebbero state le mie domande incaute a farlo emergere: ma negli anni del dopoguerra, nessuno parlava delle persecuzioni, nessuno nominava i miei nonni se non abbassando lo sguardo e la voce ed io automaticamente obbedivo a una tacita convenzione

Da bambina e adolescente sapevo che c'era un terribile segreto che riguardava i nonni, ma su questo non avrei mai potuto interrogare né mio padre né mia madre. Quando avevo compiuto i tredici anni, la mia mamma mi aveva regalato un braccialettino d'oro che era stato della nonna, dicendomi che qualcuno lo aveva riportato dalla Germania, mandato dalla nonna e destinato a me; anche in quell'occasione il nodo alla gola e la paura della sofferenza della mamma mi avevano impedito di fare domande.

Solo molto tempo dopo, durante un viaggio in Germania, ero riuscita a chiedere allo zio Piero, fratello di mio padre, alcuni dei particolari. Molto, molto più tardi, mia figlia e mia nipote avevano intervistato la mia mamma e la zia Franca su quello che era successo negli anni di guerra: ma per quanto i dettagli si facciano più nitidi, per quanto i ricordi, cercati ed espressi, si stendano su quel lungo silenzio autoimposto, rimarrà sempre un senso di tragedia inspiegabile, di sofferenza impossibile da avvicinare; insieme a riserve di affetto, appoggio e sicurezza che non ci sono più state.

Sandra Colombo


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 25 gennaio 2003