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INTERVISTA
Minà: la mia lotta al neocolonialismo
Incontro con il giornalista e scrittore, direttore della rivista Latinoamerica: la metamorfosi di un personaggio televisivo che ha deciso di investire nella geopolitica
di Pietro Del Soldà

Dopo il tramonto del comunismo, la lotta alla droga ha assunto sul piano internazionale un nuovo ruolo: dietro la guerra al narcotraffico si nasconde una strategia neocolonialista che gli Usa stanno adottando contro il mondo dei diseredati. Il Plan Colombia, il Plan Dignidad in Boliva, la recente costruzione di una imponente base militare a Manta sulla costa dell'Ecuador, di cui poco si parla, sono alcune delle gesta di quel "braccio armato della globalizzazione" su cui vuol gettar luce la rivista Latinoamerica, diretta oggi da Gianni Minà.
Le parole di Eduardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Alex Zanotelli, Luis Sepulveda e molti altri, accompagnate dalle foto di straordinari fotografi come Sebastiao Salgado e Francesco Zizola, aspirano a gettar luce sulle verità ignorate del Sud del mondo, in primo luogo di America Latina ed Africa.

Gianni Minà, è davvero in atto una nuova colonizzazione dell'America Latina e del Sud del mondo da parte degli Usa?
La recente decisione con cui la Commissione Europea ha respinto l'appoggio di un miliardo di dollari richiestole per porre in atto il Plan Colombia, proprio a causa del suo carattere militare, testimonia come sia in atto una strategia di colonizzazione Usa del continente latinoamercano, e, più in generale, del Sud del mondo. Il braccio armato della globalizzazione neoliberista non ha colpito solo la Colombia, o la Boliva attraverso il Plan Dignidad adottato dal Presidente Banzer su pressione della comunità internazionale: uno sciagurato "Plan Africa", varato da Bill Clinton, è già pronto per essere messo in atto.
Emerge dunque una realtà che, negli anni della guerra fredda, tutti conoscevamo e tuttavia non denunciavamo per la logica dei blocchi contrapposti: tutto si giustificava in nome della lotta al comunismo. Ora il comunismo non c'è più, ma l'azione di rapina nei confronti del Sud del mondo continua.
Per l'America Latina, la finalità colonizzatrice dell'occupazione militare prevista dal Plan Colombia è evidente se volgiamo lo sguardo a quel dorso di continente che si articola tra Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, in cui si raccoglie il patrimonio biogenetico più ricco del pianeta. Accaparrarsi il controllo di questa nicchia straordinaria di biodiversità significherà avere, per i prossimi secoli, una prevalenza, non solo locale ma mondiale, sulle esigenze di una parte dell'umanità che gli USA rappresentano.

Sembra emergere un cambio di strategia rispetto alla politica che gli USA adottavano nei confronti dell'America latina negli anni'70 e '80.
Esatto. Non si tratta più di imporre politiche economiche ultraliberiste, o di favorire dittatori fedeli alla linea neoliberista, per garantire gli investimenti americani in loco, strategia che del resto si rivelava autocontraddittoria, poiché la sperequazione delle ricchezze da essa provocata spingeva e spinge ancora masse di migranti contro le frontiere USA. Oggi si impone un piano di conquista diretta del territorio attraverso l'occupazione militare, mascherata da fini di difesa della democrazia e di lotta alla droga (alla produzione assai più che al consumo).

Si avvicina il G8 di Genova
Il presidente USA, e come lui molti altri capi di stato e di governo occidentali, non sono altro che pupazzi, espressioni di interessi finanziari forti che sono obbligati a mettere in atto.
Mentre gli "analisti" del giornalismo occidentale dormono sonni profondi, si leva la voce di un comico, Beppe Grillo, che invita i genovesi ad abbandonare la città nei giorni del G8, a lasciar soli questi otto pupazzi con 12000 agenti di polizia e carabinieri, per far capire che questi sono solo i portavoce di decisioni già prese in altri uffici, che non sono quelli della politica.
Il caso di Bush, poi, è allarmante: è evidente come sia ostaggio della lobby delle armi, ciò che lo ha costretto ad accendere situazioni di possibile frizione o conflitto nel mondo affinché i "masters of war", come li chiamava Bob Dylan nella sua canzone, possano vendere più armi o per lo meno provare le nuove produzioni. Come dice Eduardo Galeano, il mondo che si autodefinisce civile e democratico, non essendo riuscito a risolvere il problema della povertà, ha deciso di far guerra ai poveri.

Non ritiene che il ruolo dell'informazione, oltre a far luce sulle ingiustizie ignorate, sia quello di far emergere il legame che ad esse ci unisce, le ragioni per cui ci deve interessare, ad esempio, l'occupazione militare dell'Africa o dell'America Latina da parte degli Usa?
La cattiva informazione non getta luce ma ombra sulle responsabilità del mondo ricco nelle attuali condizioni di miseria del Sud del mondo, e così anche sulle ragioni per cui la miseria e le ingiustizie perpetrate dal potere occidentale in quei paesi ci riguardano da vicino. La povertà ci riguarda perché domani potrebbe toccare a noi, le zone di sofferenza del mondo cambiano a seconda delle congiunture economiche. Oggi noi italiani siamo ricchi, e la ricchezza è prodotta in particolare da settori come il Nordest, dove fino agli anni'50 si emigrava per fame. E' il caso della provincia di Treviso, oggi capitale mondiale dell'abbigliamento sportivo. In quell'epoca l'economia di quelle provincie era rurale e non aveva retto al confronto con la civiltà industriale. Nella civiltà postindustriale, in tale nuova congiuntura, noi italiani, che non disponiamo di materie prime ma siamo abilissimi artigiani e trasformatori di prodotti, siamo divenuti un paese ricco, soprattutto in quei settori un tempo poverissimi, che sono anzi un esempio da imitare per il loro modello di distribuzione della ricchezza in una galassia di piccole imprese.
Ma, se domani la congiuntura internazionale dice che ci sono altri paesi in grado di produrre gli stessi beni ad un prezzo sensibilmente inferiore, come già avviene in Asia dove si diffonde il lavoro minorile, ci si può ritrovare nuovamente con una economia in sofferenza, quindi costretta ad emigrare.

Durante i giorni in cui il movimento zapatista del Chiapas ha occupato la scena mondiale dallo 'Zocalo' di Città del Messico, Marcos ha rilasciato due lunghe interviste a Gabriel Garcia Marquez ed a lei. Qual è la sua opinione sulla storia recente del Chiapas, e quale sarà il destino di Marcos e del movimento zapatista?
Marcos ha messo con le spalle al muro la politica messicana. Due presidenti, Salinas de Gortari e Zedillo, hanno cercato di schiacciare la ribellione di questi 5000 derelitti eredi della civiltà maya ricorrendo ai carriarmati. Ma non ci sono riusciti perché gli indios, ritirandosi nella Selva Lacandona, ambiente difficile e aggressivo in cui vivono pagando una caro prezzo, hanno costretto l'esercito ad arrestarsi di fronte ad un possibile Vietnam messicano.
Credo che gli USA abbiano suggerito a Vicente Fox di risolvere politicamente il problema Chiapas. L'interesse USA per il Chiapas è determinato dal fatto che l'enorme debito contratto con gli USA nel '95, debito concesso da Bill Clinton per salvare la moneta messicana dopo il naufragio della politica liberista di Salinas de Gortari, è garantito dal petrolio e dall'uranio del Chiapas.
Il superficiale giornalismo occidentale che descriveva la rivolta del Chiapas come un movimento fokloristico guidato da un intellettuale bianco che si era approfittato dell'ingenuità degli indigeni, viene smentito dall'emergere di verità ignorate: il Chiapas fornisce il 65% dell'energia elettrica del Messico, il suo petrolio e il suo uranio sono i più puri in questa regione del mondo, e la sua rivolta è dunque la rivolta naturale di uomini che vivono in condizioni "medievali" in una regione ricchissima, che potrebbe consentire loro una vita assai migliore.
Il movimento zapatista, io credo, è il prologo del popolo di Seattle: gli zapatisti sono stati i primi a parlare di cambio del modello di società, di una vita solidale (i maya lavorano da secoli organizzati in cooperative), di difesa dell'ecosistema, della madre tierra, tutti temi ripresi poi dalla protesta di Seattle, di Praga, di Nizza, di Cancun e, prossimamente, di Genova.
Marcos, rifugiatosi nelle montagne del Chiapas negli anni'80 dai pericoli di una dittatura strisciante che dominava il Messico, si è educato con gli indios imparando non solo quattro lingue maya, ma anche la cosmovisione e le tradizioni comunitarie maya, di cui si è fatto portavoce. La cosmovisione maya si manifesta in ogni suo discorso che propone, tramontato il comunismo, l'unica autentica alternativa alla dittatura della globalizzazione neoliberista. Un popolo millenario ci fornisce gli strumenti per opporre una reazione a noi occidentali a cui manca un'autentica visione del mondo.

Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas per quasi quarant'anni, mi disse un paio di mesi fa che la ribellione nel Chiapas è ormai il simbolo di un'esigenza forte di libertà che attraversa l'intero continente.
Concordo con Samuel Ruiz nel riconoscere che ciò che accade in Chiapas non è che la punta di un iceberg, che attraversa il continente dall'Alaska alla Patagonia in nome di una vita migliore. Anche negli USA cresce la protesta: a Seattle furono i giovani statunitensi a negarsi a questa società.
Ruiz stesso è l'immagine di un conversione alla causa dei poveri. Quando fu fatto vescovo da Giovanni XXIII, a 35 anni, era un prelato vecchio stampo, che percorrendo la sua diocesi pernottava nelle confortevoli case dei signorotti locali, e per questo notava come la sua opera pastorale tra gli indios non avanzasse. Poi si rese conto che mai gli indios avrebbero considerato amico un uomo che, se pur solo per la notte, accettava il confortevole riparo del tetto di chi li affamava con salari alla giornata inferiori al prezzo di una gallina. Cominciò così a dormire per terra, nelle capanne, e guadagnò l'amore e la fiducia dei suoi fedeli. E lì cominciarono i suoi problemi col Vaticano, che ha infatti due facce: quella spirituale, vicina ai poveri, e quella politica, vicina ai potenti che affamano i poveri.

La moglie di Garcia Marquez, Mercedes, mi disse un giorno che, scovando quella mattina una vecchia foto di "Gabo" col suo amico Fidel Castro, aveva percepito tutto il tempo che passa. Il tempo è passato, è vero, ma loro sono sempre loro: in altre parole, l'America Latina è dominata dalla forza straordinaria di figure carismatiche, nel bene e nel male, assai più di quanto accada in Europa.
E' vero: personaggi di grande rilievo emergono centrali nello scenario latinoamericano, molto più che in Europa. Ciò avviene perché è un continente dalle passioni fortissime e dall'intelligenza fortissima. Per questo è inaccettabile la sua miseria. Un continente che regala scrittori come Marquez, Galeano, Mutis, che ha cantautori più grandi di quelli USA o britannici come Cateano Veloso, Chico Barque, Gilberto Gil, perché dev'essere povero? Per contro, quali figure di alta statura sa produrre oggi il ricco occidente?
I due politici che hanno una valenza personale internazionale, oltre a Papa Giovanni Paolo II, sono Nelson Mandela, un negro del Sudafrica, e Fidel Castro, un latinoamericano dei Caraibi.
Per quanto riguarda la letteratura poi, ogni paese latinoamericano ha un scrittore che potrebbe vincere il Nobel: nessun altro continente può vantare un simile onore.
Per queste ragioni continuiamo ad essere fortemente legati ed attratti dall'America latina, e perché la sua gente non si arrende e non ti fa pesare la vita durissima che conduce, e vive la vita come un dono di Dio sempre da "gozar". E questo mi ha riempito la vita.

Pietro Del Soldà
per gentile concessione di il Nuovo



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22 giugno 2001