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INTERVISTA
Roberto Esposito, filosofo napoletano
"Riprendiamoci la comunità"
di Pietro Del Soldà

La democrazia in cui viviamo è un sistema costruito secondo una logica "immunitaria", che rende cioè immuni i suoi membri dal pericolo di contaminarsi con tutto ciò che vi è di esterno, di estraneo? Siamo tutti, per natura, lanciati in una corsa all'affermazione di sé che vive il rapporto con l'altro come un ostacolo o, al più, come uno strumento?
Intorno a questi interrogativi si articola la ricerca che Roberto Esposito, filosofo della politica napoletano (ricordiamo, tra gli altri, il volume Communitas. Origine e destino della comunità, pubblicato da Einaudi nel 1998) conduce da anni per far luce sul concetto di comunità, di relazione con l'altro da sé, di "communitas" contrapposta all' "immunitas". Mentre le moltitudini dell'alterità migrano verso i confini "immunizzanti" dell'Occidente, emerge, sostiene Esposito, la necessità di affermare l'originarietà della relazione, della comunità, scardinando l'immagine che abbiamo di noi stessi come individui che si costruiscono prima ed indipendentemente dalla relazione con l'altro.

Professor Esposito, quali sono i "corpi sociali" che si costituiscono secondo una logica Immunitaria"?
Da un lato, tutti gli apparati istituzionali, a partire dallo Stato, dalle forme giuridiche. Dall'altro, tutte le organizzazioni territoriali, le comunità etniche identificate da un elemento comune, sia esso il territorio, la lingua, la religione, la cultura. Questi gruppi, culturalmente o territorialmente definiti, tendono a chiudersi, ad immunizzarsi rispetto all'esterno.

Le democrazie occidentali sono per loro natura sistemi "immunizanti", chiusi all'esterno?
Direi piuttosto che si registra, nel corso della modernità, una tendenza sempre più accentuata ad immunizzare quello che, alle origini della democrazia, era un dialogo aperto. Dalla polis greca ad oggi si è accresciuta la paura dell'altro e con essa l'esigenza di sicurezza, la spinta a proteggersi da pericoli reali o apparenti.

La paura per eccellenza è oggi la paura dell'emigrato. Ciò accade forse perché l'emigrato ci appare come uno "specchio scomodo" del nostro esser come lui sradicati, esuli ?
Certo. Si instaura una dialettica speculare tra sé e l'altro, dove l'altro assume i caratteri del sé e dunque ci rispecchia, e ci ricorda la nostra stessa alterità. Il sè, infatti, porta dentro questo carattere di perenne sradicamento, come diceva Simon Weil, che nella modernità ha cercato di cancellare con una dialettica distruttiva di sè e dell'altro. Questa dialettica ha assunto i suoi caratteri più volenti nella fase centrale del XX secolo, ma a tutt'oggi continua a determinare le dinamiche sociopolitiche in gran parte del mondo, anche nel nostro paese. L'immigrato assume connotazioni di pericolo, di rischio non solo sociale, ma anche simbolico e medico: così dobbiamo leggere l'idea della promiscuità, della contaminazione, del contagio con l'immigrato, o l'idea del rischio giuridico di attacco alla proprietà. Questa catena di metafore dell'altro come infezione che viene dall'esterno, ha effetti che si rivelano distruttivi dell'altro ma anche autodistruttivi.

Come immaginare, in un mondo dominato da tale logica immunitaria, il riemergere della comunità che è continuo contatto con l'esterno, originario uscire da sé verso l'altro?
La comunità, la relazione come origine, mai scompare. Si tratta di tornare ad essere consapevoli di tale natura comunitaria: se la tensione all'immunità si accentuata, è possibile immaginare che possa anche ridursi. Credo sia necessaria una svolta culturale, di cui si parlerà a Venezia nelle giornate di Fondamenta: dobbiamo immaginare l'identità ed il corpo non più come realtà chiuse dentro un recinto, che è la pelle per il corpo individuale e il confine della città o dello stato per il corpo sociale. Pensare cioè l'identità e il corpo come realtà molteplici in sé, che abbiano originariamente dentro di sé la differenza, il taglio.
Pensiamo alle biotecnologie, al fatto che il corpo individuale porti dentro di sé pezzi d'altri corpi, come nel caso dei trapianti, o macchinari, protesi: tutto questo già aiuta a pensare ad un corpo e ad un'identità originariamente contenenti l'altro da sé.
Si tratta di partire da una ridefinizione del soggetto, dell'identità, del corpo individuale e collettivo. In realtà noi siamo un costrutto che si evolve continuamente nel rapporto con l'ambiente, e non esiste dunque una autentica identità bloccata in sé.

In tale svolta culturale muta anche l'idea di libertà?
Senz'altro. Nella modernità la libertà è stata intesa come capacità di godere della proprietà individuale e della propria autonomia: libertà come autopadronanza e anche come autoprotezione, come sicurezza della proprietà. Invece, alla fonte dell'idea di libertà vi è proprio il tema della relazione come origine dell'esistenza, della molteplicità di qualcosa che cresce in comune. L'antitesi che la modernità ha costruito tra libertà e comunità è il segno dell'immunizzazione di un'idea che era all'origine dotata di un senso molto più ampio. La libertà è nel comune.

Pietro Del Soldà
per gentile concessione di il Nuovo



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17 giugno 2001